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‘Hear’ by Drakmah: intervista a Francesco Mucci e Raffaele Imparato



Il regista e il protagonista del videoclip raccontano in esclusiva ad ExPartibus il nuovo lavoro in concorso al Napoli Film Festival 2019

È stato pubblicato ieri, 16 settembre, il primo video dell’alternative electronic band porticese Drakmah, composta da Stefano Mattozzi a.k.a. The Learning Panda, David Rapicano, Mario Manzoni e Gianmarco Angelone.

Il videoclip, scritto e diretto da Francesco Mucci e prodotto da Il Grigio, protagonista Raffaele Imparato e con Daniele Carbone, Marco Gallo, Rita Russo, e Niko Mucci, è in concorso al Napoli Film Festival 2019.

Molti gli elementi di sicuro successo.
Innanzitutto la band, che seppur giovanissima, ha conseguito, nel maggio 2017, il premio Best Song Award @ Oniros Film Awards, per il singolo d’esordio. Il regista, che, dopo laurea, stage, laboratori di scrittura specifica, ha realizzato il suo primo corto, e proprio la scorsa settimana a Pagani (SA), definito come “una delle più interessanti promesse della cinematografia contemporanea” ha ricevuto il premio ‘Ritratti di Territorio 2019’ per la regia. Il protagonista, attore teatrale e televisivo di fama nazionale, che abbiamo più volte applaudito dalla platea, laureando in Logopedia alla Seconda Università degli Studi di Napoli.

Non resistiamo alla tentazione di avvicinare Francesco Nucci e Raffale Imparato per farci raccontare questa nuova avventura.

Partiamo dal regista.

Com’è nato il progetto con i Drakmah che dal 2016 abbracciano mondi sonori diversi, alcuni freddi e inabitati, altri fertili e ricchi di vita?

L’anno scorso i ragazzi mi avvicinarono dopo aver fatto una campagna di crowdfunding per la realizzazione di questo videoclip e abbiamo iniziato a parlare di ciò che volevano fare e di che cosa potevamo inventarci per sfruttare al massimo quel budget.

Quale il tuo rapporto con la band e con il protagonista del videoclip, Raffaele Imparato?

I Drakmah li conosco da prima che si formassero. Avendo fatto parte dell’ambiente musicale napoletano ho spesso avuto a che fare con ognuno di loro e, in particolare con Mario Manzoni, il batterista della band, ho un rapporto fraterno da anni. È stato una dei miei primi compagni di musica di sempre!

Raffaele è stato una meravigliosa scoperta. La produzione del videoclip è stata parecchio travagliata, tra mille rinvii e defezioni.
In pratica a marzo dovevamo ricominciare da capo tutto. Fortunatamente i miei genitori sono attori e sono una delle mie miniere d’oro per i casting e mi indicarono Raffaele.
Da subito si è interessato al lavoro che dovevamo fare con una tale professionalità e attenzione da confermare la bontà del consiglio dei miei.
Lo zelo che ha dimostrato in fase di preparazione si è trasformato in un’interpretazione magistrale e non nascondo che spesso sul set mi ha fatto urlare di gioia per quanto è stato bravo.

Quanto la sceneggiatura si è basata sul tema narrato dal brano, sulla tipologia e sulla costruzione della canzone e quanto invece c’è di autobiografico, se c’è?

Il soggetto e la sceneggiatura aderiscono completamente al testo del brano. Durante la scrittura ho ascoltato la canzone a loop per diversi mesi, fino ad assorbirla completamente per poter restituire le sensazioni e le atmosfere della parte musicale, ma soprattutto per filtrarle attraverso allo stesso testo.

Di base si tratta della mia interpretazione delle parole del testo, attraverso la mia sensibilità e le atmosfere della bellissima composizione e i suoni della band. Ovviamente quando si scrive c’è sempre un po’ di noi stessi, e la cosa divertente in questo caso è che in seguito allo sviluppo del soggetto ho deciso di avvicinarmi alla cultura del Budo e dei Samurai, prendendo lezioni di Aikido nella stessa palestra presente nel video, l’associazione Fudokai di Portici.

La regia di un videoclip deve tenere necessariamente conto di un’azione sincronizzata dei diversi momenti della storia narrata. Quali le difficoltà di una direzione di questo tipo rispetto ad un più classico film?

Sulla carta potrebbe sembrare una complicazione, ma in realtà viene completamente annullata dalla comodità di non dover tener conto del suono, non me ne vogliano i fonici.
Per un regista vuol dire poter giocare di più, sperimentare. Per un musicista come me vuol dire anche entrare di più nel ritmo delle scene, avendo in molte scene la musica sul set proprio per sincronizzarsi.

Edo si perde per poi ritrovarsi più forte di prima con una nuova consapevolezza di sé, una sorta di rivelazione. In qualche modo la tematica dell’antieroe a te così cara ritorna, anche se in una nuova veste. Quale significato assume in questo lavoro?

L’antieroe per me è l’archetipo che meglio racconta i nostri tempi, quelli delle sfumature, del Grigio, il superamento del mondo in Bianco e Nero.

Edo semplicemente capisce che l’eroe che ha dentro non è l’eroe che crede di mostrare all’esterno, al mondo. Nel momento in cui si rende conto di quanto non venga accettato, nonostante le buone intenzioni e l’abnegazione al modello del samurai, capisce che il vero guerriero è dentro di sé. Proprio come il protagonista del testo che vuole accedere alla sua vera natura interiore che chiede di essere ascoltata, Hear, appunto.

Perché hai scelto proprio la cultura nipponica per trasmettere il senso di alterità provato dal protagonista?

Devo ammettere che il Giappone mi frullava nella testa da tempo, ma contrariamente a quanto si potrebbe pensare, il videoclip ha rappresentato in realtà un modo per avvicinarmi a questa cultura, più che la voglia di manifestare una passione pregressa.

A muovermi in questa direzione è stata soprattutto la musica, l’atmosfera che c’è all’inizio del brano. Studiando poi ci siamo resi conto di quanto lo stile di vita e la cultura nipponica potessero rappresentare benissimo questo contrasto perenne tra il mostrare e l’essere.

Che senso dai alla tematica del doppio, rappresentata dallo specchio e dallo stesso protagonista che appare, infatti, in una duplice versione occidentale ed orientale?

Siamo costantemente messi in relazione tra l’essere e l’apparire. Allo stesso modo le nostre culture, quella occidentale e orientale, hanno un livello di lettura apparentemente semplice, che nasconde al suo interno molteplici nature.

Devo ammettere che deriva molto dai miei studi sulla narrazione e sul come si costruiscono i personaggi.
In particolare il quadrato di veridizione di Greimas mette in relazione i quattro punti che costituiscono un personaggio, e di conseguenza gli esseri umani: l’essere, il non essere, il sembrare e il non sembrare. Ecco, forse il doppio nasconde il quadruplo, il decuplo, etc…

La telecamera, ad un certo punto, indugia su una pietra rotta in due: è solo un espediente narrativo o vuole indicare qualcosa di più profondo?

In realtà si sarebbe dovuto trattare di una delle bottiglie di birra che hanno in mano gli antagonisti di Edo, ma nella foga del momento, oltre a non aver avuto a disposizione le bottiglie segate in due da sceneggiatura, la pietra c’è sembrata la soluzione più consona e di sicuro impatto scenico.

Dopo Corduroy del 2018, con questo videoclip sei di nuovo in concorso al Napoli Film Festival 2019. Che effetto fa partecipare per due anni di fila ad una kermesse così prestigiosa?

Ne sono estremamente felice, ma sono soprattutto fiero e grato alla mia squadra per permettermi di continuare a raccontare le mie storie.

Il Napoli Film Festival sarà una sorta di festa per tutti noi, la celebrazione di un LAVORO difficile, ma tremendamente soddisfacente.

Passiamo ora a Raffaele Imparato.

Come ti sei immerso nella cultura giapponese?

Sebbene il videoclip catapulti lo spettatore immediatamente in un immaginario orientaleggiante da un punto di vista scenografico e costumistico, viene raccontato, in buona sostanza, un “incubo” interno e ad occhi aperti del protagonista ed il suo auspicato risveglio, una parentesi di vita, quindi, in cui Edo appare, fin da subito, dissociato dalla realtà contestuale e dal tessuto sociale in cui vive. Una sorta di “delirio megalomanico” in cui sono miscelati emarginazione e tenerezza, almeno io ho cercato di veicolare questo nell’interpretazione.

Tralasciando la sfera psichiatrica ed entrando in quella prettamente giapponese, invece, sin da bambino sono sempre stato affascinato dalle arti marziali, adoravo i Power Rangers, le Tartarughe Ninja e ho praticato, dall’ultimo anno di asilo fino ai 15 anni, discipline come il Judo, il Kung Fu e la Kick Boxing; ho ancora una corposa collezione di VHS della cinematografia di Bruce Lee, Jet Li e Jackie Chan. È stato come un ritornare in quel mondo, ma stavolta da attore; lasciai le Arti Marziali proprio per intraprendere lo studio della recitazione, quando mi accorsi che dei film mi entusiasmava più la spettacolarizzazione, la bellezza della finzione scenica che non in sé per sé l’ambiente di agonismo alle gare di campionato o il diventare Maestro in una palestra.

Riguardo il focus della domanda, Internet ci permette di accedere a documentari e film, ad esempio, uno su tutti, quelli del celebre Akira Kurosawa che sicuramente contribuiscono a proiettarsi in quell’universo.

Più di ogni aspetto è stato prezioso Francesco: in uno degli incontri preliminari mi ha prestato un libro sul Bushido, con cenni filosofici e aneddoti storici sulla variegata cultura nipponica e sui più grandi Maestri Samurai. Ho anche registrato in una sorta di podcast le parti per me più significative del libro e che ascolto tuttora, come se fosse una proto-meditazione.
I pilastri morali, ridotti all’osso, finalizzati a una maggiore consapevolezza e soddisfazione profonda di noi stessi, a ben vedere, sono, di fondo, comuni a tante religioni, astraendo i principi, intendo.

Un esempio molto efficace, per me, rispetto alla cultura giapponese è l’invitare ogni individuo in difficoltà a non arrendersi e per questo viene usata la metafora del combattimento, ovvero, parafraso a memoria, “qualora ti disarmino, combatti con le mani, qualora ti taglino le mani combatti con le spalle e se ti feriscono le spalle mordi fino a 15 avversari; anche quando tutto è perduto non ti devi concedere al nemico”. Fuor di metafora: mai tradire i propri principi profondi, anche al costo di una vita quantitativamente più breve ma più “elevata”. Mi sono reso conto, approfondendo questa cultura, che il livello della sceneggiatura, la ricerca in funzione di essa, fosse ancora più alta di quanto mi era sembrata ad una prima e superficiale lettura, proprio perché avevo gli strumenti per leggere tutti i segni che Francesco aveva disseminato al suo interno.

Com’è stato lavorare con lui?

Non conoscevo di persona Francesco, lo seguivo a distanza tramite i social e avevo intuito che fosse una mente speciale. Ovviamente il frutto non cade lontano dall’albero…

La prima volta che ci siamo incontrati, avevo già letto la sceneggiatura, quasi non abbiamo parlato del progetto, ma del nostro approccio al mondo, delle passioni e dei punti di vista in comune, del modo di concepire il set e il Creare. Si sono instaurate da subito fiducia e stima, l’ambiente ideale in cui collaborare. Con Francesco si lavora sereni, con poche parole chiave è riuscito a toccare i tasti giusti. Mi sono sentito sempre più stimato e sfidato da lui, ciak dopo ciak, e anche dal resto della squadra. È stato stancante psicofisicamente, ma ne è valsa la pena.

Credo lui sia riuscito a condensare e tradurre bene in video lo spirito e l’onirico della sua sceneggiatura, senza risparmiare qualche citazione illustre. La troupe è stata meravigliosa in termini di professionalità ed empatia, in particolare l’aiuto regia, Marco Barile: ho dato il tormento anche a lui sul set, quando Francesco era impegnato con la squadra.

Uno sforzo comunicativo non indifferente, considerando che si è trattato di un recitato senza parole. Hai dovuto sfruttare appieno la tua capacità di comunicazione non verbale per arrivare agli spettatori. Come ti sei preparato?

Nonostante la mia formazione di base come attore si sia svolta presso il Teatro Elicantropo di Napoli, notoriamente una scuola molto attenta e severa per quanto concerne proprio “la cura della Parola”, ho avuto in questi anni, nel percorso di Laurea in Logopedia, l’opportunità di seguire un corposo tirocinio con i bambini e condurre laboratori sperimentali di teatro nell’ambito della disabilità intellettiva e sociale. Mi sono messo alla prova in contesti in cui l’espressività del viso e del corpo contavano di più dello spiegare, semplicemente perché era essenziale con i pazienti parlare il meno possibile e trovare strategie di “aggancio” vicarianti.

Inoltre, sul set abbiamo vissuto quattro giorni intensivi, da mattina a sera.
Ci sono stati dei momenti in cui eravamo molto in gruppo, altri in cui mi estraniavo per fare più facilmente un lavoro interno, altri ancora in cui mi venivano delle idee, delle proposte, delle soluzioni “nei tempi morti per l’attore”, dopo che Francesco mi dava delle indicazioni che correvo ad appuntarmi sui fogli della sceneggiatura per tenermele strette e mi esercitavo mentre il team era intento all’allestimento e la preparazione del tutto.

Sono partito da un’idea prendendo spunto da un ragazzo che vive nel parco dove abito e che intravedo, ma sinceramente non è stato né un personaggio preparato settimane prima, né improvvisato, piuttosto ricercato e fissato stesso lì nei famosi tempi morti, dato che ci sono state le attese lunghe tipiche dei “set nomadi”, anche a causa di alcuni imprevisti e ostacoli come la pioggia, che però ci ha fatto gioco per “l’atmosfera grigia” della quasi totalità del videoclip.

Mi sento privilegiato per il fatto che la sceneggiatura descrivesse la routine fissa di una persona, nei diversi giorni che trascorrono. Abbiamo simulato tre mattinate identiche, in cui venivano svolte le stesse azioni ma con stati d’animo differenti e questo, a parte esercizi laboratoriali propedeutici nel teatro, è molto raro che accada. Abbiamo provato una serie di “aperture e chiusure di palpebre”, svariate alzate dal letto, e così con gli stretching, tutto esprimendo emozioni dissimili di volta in volta; una sfida davvero stimolante, ma anche divertente, come lo stare appoggiati ad un materasso in verticale, prima volta per me.

Particolarmente insolito è stato anche il rispetto del timing perché, d’altronde, si tratta del mio primo videoclip. Francesco ha sfruttato i vari momenti del brano in termini di “sequenze” per raccontare immagini coerenti e su misura dei tempi di quella precisa “frase musicale”, imponendomi il rigore del “come se fosse un piano sequenza”. Non mi è stato permesso di “adagiarmi” sulla comoda consapevolezza “vabbè, poi aggiustiamo con il montaggio” per far “quadrare i conti”. Voleva, infatti, ci fosse una perfetta corrispondenza sul set tra durata di una clip girata ed effettivo risultato globale. Ad esempio, se quello specifico “passaggio musicale” era di 40 secondi chiedeva che la scena avesse esattamente la stessa lunghezza e che terminasse realmente su quella determinata nota, come se non fossero previsti tagli in post-produzione. Questo ha reso necessario il memorizzare dei tempi precisi per ogni azione: la scena che si veniva a costruire e la mia velocità nello svolgerla erano soggette ad una tempistica stabilita a priori.
In altre parole, ho dovuto recitare non solo focalizzandomi sui pensieri, sulle emozioni e sulle azioni di Edo, ma anche “contando gli otto come se si trattasse di una coreografia” ed è stato nuovo, formativo.

Dove avete girato?

A Portici, in vari angoli della città e sul lungomare e il “dojo”, è lo stesso in cui Francesco si allena. Gli interni sono nell’appartamento di uno dei ragazzi della band, Mario Manzoni.

I genitori sono stati carinissimi, ci hanno lasciato casa libera dal mattino, andando a fare una passeggiata. Una volta rientrati hanno trovato un appartamento irriconoscibile, simile a un deposito in disordine, le stanze piene di stativi, valige, borsoni e gelatine, come un trasloco in atto e la cucina era stata adibita a trucco e parrucco. Erano sul punto di fuggire di nuovo ma hanno resistito.

Credo si sia verificata una vera simbiosi tra tutti gli “attori” del progetto. Due dei quattro componenti dei Drakmah, il cantante e il batterista, hanno fatto un piccolo cameo nella scena in cui Edo si offre di aiutare ad attraversare la strada a Niko Mucci, nei panni di uno scontroso vecchietto. È stato un piccolo momento di “commedia” in un insieme eterogeneo di mood in cui sono miscelati momenti di naturalismo e altri più da CineComix.

Aspettative?

Spero che il videoclip possa arrivare sia emotivamente che concettualmente, al di là di eventuali riconoscimenti; spero che si riesca ad andare oltre gli elementi estetico-referenziali del kimono e della katana e si prenda coscienza di quanto sia importante liberarsi dalla coltre di alienazione con se stessi e ritrovarsi. Occorre coltivare e alimentare costantemente un rapporto di “dialogo amico” con la “propria anima” e relegare ad un ruolo marginale nella nostra quotidianità tutta una serie di feticci, di strumenti, di esteriorità che ci illudono di essere più connessi con altre migliaia di persone virtualmente. “L’aggeggio acustico” su cui Edo fa irrinunciabile affidamento, sin da quando apre gli occhi, fa riferimento proprio a questo.

Abbiamo bisogno, secondo me, di agire in sintonia con il “guerriero incredibile che abbiamo dentro” e che trascuriamo, senza il quale, però, non riusciamo a proteggere ciò che prioritariamente merita di essere custodito, anche se ad attaccarci fosse una “formichina”.

d.o.p. Mabel Betran
first assistant director Marco Barile
camera operator Pasquale Di Sano
focus puller Elena Bertelli
gaffer Francesco Buonocore
assistant director Valerio Marino
continuity supervisor Livio Montanaro
runner Rosalba Capozzi
make up artist Rossana Giugliano
production designer Trisha Palma
costume designer Davide Orlando
editor Francesco Mucci
color correction Alessio Zanardi

Autore Lorenza Iuliano

Lorenza Iuliano, vicedirettore ExPartibus, giornalista pubblicista, linguista, politologa, web master, esperta di comunicazione e SEO.

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