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Gratis non esiste; il prodotto sei tu e pagherai di più dopo!

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Negli ultimi anni, è cresciuto il numero di aziende che ha adottato un modello di business che offre servizi apparentemente gratuiti agli utenti.

Ciò può accadere mediante l’iscrizione ad una piattaforma, social o di vendite online, o con la tecnica del primo pacchetto o kit inviato a costo zero.

Ma, se leggiamo con attenzione le clausole in caratteri spesso microscopici e quasi sempre in legalese, scopriamo che non è così.

Nella realtà, infatti, quello che generosamente ci viene offerto è niente rispetto alla merce che viene richiesta, ed usata, in pagamento come corrispettivo: i nostri dati dati personali.

Questo approccio, se da un lato permette agli utenti di accedere a una vasta gamma di servizi senza dover pagare in denaro, dall’altro solleva pertanto interrogativi importanti riguardo la privacy e la sicurezza delle informazioni personali.

Fin dal primo click sul mouse o con un tocco sullo smartphone, il costante uso quotidiano dei servizi genera una vasta quantità di dati e informazioni che vengono incamerati negli archivi e nei sistemi delle aziende che possono così utilizzarli per gli scopi indicati nelle informative che in pochi si preoccupano di leggere e si limitano ad accettare prestando il consenso al trattamento.

Ecco che, così facendo, l’utente comunica tutte le sue preferenze, i gusti, i comportamenti di consumo e le abitudini online.

Questi dati sono estremamente preziosi per le aziende perché consentono di creare profili dettagliati degli utenti e di personalizzare l’esperienza dell’utente.

Ad esempio, Google utilizza i dati di ricerca degli utenti per migliorare la precisione degli annunci pubblicitari, mentre Facebook utilizza i dati di interazione per personalizzare il feed di notizie.

Offrire un bene o un servizio gratuitamente è una tecnica, peraltro già oggetto di attenzione delle autorità antitrust che in italiano possiamo tradurre con ‘legare’.

È una pratica commerciale in cui un venditore, detto tying firm, azienda che lega, offre un prodotto o un servizio, noto come tying product, solo se il cliente accetta di acquistare anche un altro prodotto o servizio, conosciuto come tied product.

In altre parole, il venditore condiziona l’acquisto del prodotto principale all’acquisto di un altro prodotto correlato o accessorio. Nel caso di un social è la possibilità di proseguire la navigazione.

Si tratta di un metodo che, per quanto utile alle aziende, può rappresentare nel lungo termine un grave danno per l’utenza. Il tying, infatti, può limitare la possibilità per i consumatori di scegliere tra prodotti diversi, costringendoli ad acquistare un prodotto accessorio o correlato che potrebbero originariamente non volere.

Inoltre, se il prodotto accessorio è più costoso di quello che il consumatore sceglierebbe normalmente, il tying può aumentare il costo totale dell’acquisto.

Infine, questo sistema può essere utilizzato da aziende dominanti per escludere la concorrenza di prodotti alternativi, danneggiando così la concorrenza sul mercato.

In ogni caso, il punto essenziale resta la cessione di un bene prezioso e di cui, purtroppo, ancora in molti disconoscono il valore, alle aziende: i dati personali.

La prova del loro valore è data dai tentativi di furto dati che ciascuno di noi subisce quotidianamente con messaggi di phishing e spam sui propri cellulari.

Gli utenti sono, teoricamente, sempre più preoccupati per come le loro informazioni personali vengano raccolte, utilizzate e talvolta abusate dalle aziende.

Il caso di Cambridge Analytica, scandalo che aveva scosso le fondamenta della fiducia degli utenti, ha rivelato il potenziale pericoloso di manipolazione e sfruttamento dei dati personali a fini politici.

Ma il modo in cui si continua a regalare dati, immagini, pensieri e quant’altro alla rete, dimostra come la voglia di vivere online, o forse la dipendenza, siano più forti della protezione di noi stessi.

Il dibattito sull’uso dei dati personali è diventato un campo di battaglia, tra chi difende la libera circolazione delle informazioni e chi promuove regolamenti più severi per proteggere la privacy degli individui.

In Europa, il General Data Protection Regulation, GDPR, è stato introdotto come risposta a queste preoccupazioni, ponendo vincoli rigorosi sulle aziende riguardo al trattamento dei dati personali.

Ma le aziende lo rispettano?

Autore Gianni Dell'Aiuto

Gianni Dell'Aiuto (Volterra, 1965), avvocato, giurista d'impresa specializzato nelle problematiche della rete. Di origine toscana, vive e lavora prevalentemente a Roma. Ha da sempre affiancato alla professione forense una proficua attività letteraria e di divulgazione. Ha dedicato due libri all'Homo Googlis, definizione da lui stesso creata, il protagonista della rivoluzione digitale, l'uomo con lo smartphone in mano.

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