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Giuseppe Garibaldi, il pentito

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Giuseppe Garibaldi


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Il cosiddetto ‘eroe dei due mondi’ della storiografia tradizionale, con il tempo ebbe a pentirsi delle sue scelte e di aver consegnato il Paese ai Savoia

Vogliamo proporvi un ritratto inedito di Garibaldi, attraverso dei suoi scritti, riconosciuti anche dalla storiografia ufficiale.

Dopo la cosiddetta ‘Spedizione dei Mille’, di cui si è così favoleggiato tanto da rendere più credibile la storia di Dorothy nel Regno di Oz che mille scappati di casa, capaci di formare un regno, il nizzardo sedette, in più legislature, sullo scranno del Parlamento, nel Partito di Azione.

Per due volte rassegnò le proprie dimissioni, perché in contrasto con la politica del governo sabaudo.

La prima volta nel 1863, dopo appena due anni di mandato, per le violenze che il governo stava commettendo in Sicilia, intraprendendo una lotta senza quartiere ai renitenti della leva. Per protesta contro queste ingiustizie si dimise e affidò ad un giornale a lui vicino, Il Diritto, le motivazioni della sua scelta.

Oggi in cui vedo accadere il vituperio della Sicilia che io sarei orgoglioso di chiamare la mia seconda terra d’adozione, devo o lettori comunicarvi che rassegno il mandato che incatena la mia coscienza e mi rende complice indiretto di colpe non mie.

A quest’atto non mi consiglia solo l’affetto dovuto alla Sicilia, ma il pensiero che in essa che furono offesi il diritto e l’onore.
Giuseppe Garibaldi – Lettera al giornale Il Diritto 1863

Nel settembre del 1868 abbandonò definitivamente la politica e si ritirò a vita privata a Caprera, poiché nulla era stato fatto per le popolazioni del Mezzogiorno, che lo avevano accolto come un liberatore.

Tali dimissioni provocarono il rammarico di molti ‘patrioti’ e, in particolar modo, di Donna Adelaide Cairoli, alla quale Garibaldi scrisse una lunga e appassionata lettera in cui esprimeva tutte le sue motivazioni.

Ricordiamo che la Cairoli perse ben cinque figli per le ‘guerre risorgimentali’ come vengono definite dalla storiografia ufficiale e filo sabauda.

Questa missiva è un atto di accusa alla politica dei Savoia in cui il ‘Peppino nazionale’ attacca, senza mezzi termini, il governo, definendolo ‘una mascherata tirannide’, che ha perpetuato nefandezze indicibili a danno del popolo meridionale che l’aveva accolto come un liberatore, acclamandolo, per poi maledirlo, nel 1868, poiché nulla era cambiato rispetto al dispotismo borbonico.

Anzi, era subentrato un ancora più degradante potere, quello sabaudo, con l’aggravante della misera più nera, che portata la popolaziona a morire di fame.

Egli testualmente cita:

Ho la coscienza di non aver fatto male; nonostante, non rifarei oggi la via dell’Italia Meridionale, temendo di esservi preso a sassate da popoli che mi tengono complice della spregevole genìa che disgraziatamente regge l’Italia e che seminò l’odio e lo squallore là dove noi avevamo gettato le fondamenta di un avvenire italiano, sognato dai buoni di tutte le generazioni e miracolosamente iniziato.

E se vogliamo conservare un avanzo di fiducia nella gioventù, chiamata a nuove pugne e che può avere bisogno della nostra esperienza, io consiglio ai miei amici di scuotere la polvere del carbone moderato, con cui ci siamo anneriti e non ostinarsi al consorzio dei rettili, striscianti sempre a nuovi tradimenti. E chi sa, che non si ravvedano gli epuloni governativi, lasciati soli a ravvolgersi nella loro miseria?
Giuseppe Garibaldi – Lettera alla Contessa Cairoli, 1887

Chiudiamo, infine, con le sue memorie, scritte nel 1888, nelle quali Garibaldi racconta del suo soggiorno napoletano del 1861, attaccando i filo piemontesi e i liberali che, corrompendo l’establishment borbonico, gli avevano permesso di arrivare, quasi senza difficoltà, a Napoli.

Pur servendosi di loro ne aveva una bassissima opinione, definendoli parassiti e prostitute e rivelando di come gli ufficiali dell’Esercito borbonico furono corrotti.

In Napoli più che a Palermo aveva lavorato il Cavourismo più indefessamente e vi trovai non pochi ostacoli, corroborato poi dalla notizia che l’esercito sardo aveva invaso lo stato pontificio esso, diventava insolente.

Quel partito appoggiato dalla corruzione aveva lasciato nulla di intentato. Codesto partito composto da compri giornali, grassi proconsoli e di parassiti di ogni genere, sempre pronti a servire con ogni specie di abbassamento o di prostituzione a chi lo paga è pronto sempre a tradire il padrone quando questo minaccia di crollare, quel partito dico mi fa l’effetto dei vermi sul cadavere.

Il loro numero ne segna il grado di putrefazione. In ragione del numero di questi vermi si può valutare la corruzione di un popolo. I pochi giorni passati in Napoli dopo l’accoglienza gentile fattami da quel popolo furono di nausea per le sollecitudini di quei cagnotti delle monarchie che altri non sono che sacerdoti del “vetre”, cioè gente disposti a vendersi per quattro soldi, che usarono il più ignobile espediente per rovesciare quel povero diavolo del Borbone colpevole solo di essere nato su di un gradino del trono per sostituito nel modo che tutti sanno.

Si trattava di rovesciare una monarchia, corrompendo l’esercito, la marina in particolar modo, la corte, i ministri servendosi di tutti i mezzi più subdoli pur di riuscire nel loro intento indecoroso.
Le memorie di Giuseppe Garibaldi, 1887

A questo punto, qualche domanda ci sovviene, anche se senza risposta.

Come mai si ignora completamente il Libro delle memorie di un uomo al quale sono state dedicate un po’ ovunque piazze, strade e statue?

Perché in nessun testo scolastico delle scuole medie superiori ve n’è traccia?

Bisogna assolutamente tenere conto di queste parole, anche per rispondere a quei, per fortuna pochi, meridionali che restano aggrappati all’idea che i piemontesi ci abbiano liberati.

Autore Mimmo Bafurno

Mimmo Bafurno, esperto di comunicazione e scrittore, ha collaborato con le maggiori case editrici. Ha pubblicato il volume "Datemi la Parola, Sono un Terrone". Attualmente collabora con terronitv.