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Gelem, gelem

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Maggio 2018

Negli anni 2003-2004, ero volontario della Protezione Civile e svolgevo servizio, tra gli altri, presso la scuola “Grazia Deledda”, a Soccavo, Napoli. Vi erano ospitate diverse famiglie di etnia Rom. Mi avvicinai inconsapevolmente a un mondo nuovo ed estremamente diverso dal mio. Un mondo, quello Rom, che prima di allora era costruito nella mia testa solo da preconcetti.

Furono tante le storie che ascoltai, molte inventate, tante vere ma con innesti di fantasia, altre ancora semplicemente vere. Quella di Marius mi colpì in modo particolare.
Un ragazzo che aveva perso tutto e aveva coraggio e dignità per riprendere nelle mani la propria vita. Voleva essere il padrone, l’unico detentore del proprio destino. Voleva essere lui a scegliere la strada da prendere al bivio.

La storia del popolo Rom e, in generale, delle popolazioni di cultura Romaní, è vasta e variegata. Si snoda nei secoli mutando luoghi di insediamento e sviluppi culturali, così come influssi linguistici e religiosi. I preconcetti sono tali e così radicati nelle nostre società che ci risulta difficile immaginare qualcosa di differente da essi.

Riprendo tra le mani, revisionandolo per quanto possa essere possibile farlo, un mio articolo pubblicato su “Planuria Informa” anno 1, numero 5 del 2004. Il titolo era ‘Una goccia di storia Rom’. Iniziava con le parole proprio di Marius C., un ragazzo di 26 anni originario di Calarasi, in Romania:

8 anni fa ho perso mia moglie, mia madre, mio padre e mio fratello in un incidente d’auto.

Nell’incidente è rimasto invalido alla gamba destra.
Prima di questo tragico evento lavorava come dj, poi la discoteca ha chiuso ritrovandosi senza più un lavoro. Un connazionale gli disse che il lavoro c’era in Italia e, soprattutto, c’erano molti soldi da guadagnare, così vendette la casa e venne qui, lasciando il figlio Ianut con la sorella.

Il viaggio è durato tre giorni e costato 300 Euro. Ora è accolto nella ex-scuola “Grazia Deledda”. È in cerca di lavoro. Non vuole andare ai semafori, sia a causa della gamba, sia perché, motivo non secondario, è in cerca di un lavoro più dignitoso: ha un diploma di perito elettronico e ne va fiero.

Come Marius tanti altri hanno lasciato i paesi divenuti negli anni il loro cammino, in particolare si lasciano alle spalle la Romania e i Balcani. Cercano un futuro diverso in Italia o in Germania.

Il giro d’affari che ruota intorno ai “tassisti” che caricano le loro auto di uomini e viaggiano di notte, è immenso e non si riesce a fermare. Un fiume nero e sotterraneo occluso alla vista del sole.

I popoli Romaní, Rom, Sinti e Kalè, sono da sempre costretti a lasciare le proprie terre per rialzarsi dalla reclusione del mondo intero, sono stati costretti al nomadismo facendolo diventare la propria anima l’anima nomade. La storia di questi popoli è strana, fatta di tanti pezzi sparsi per il mondo, ma in ogni tempo e in ogni luogo essa si ripete.

Le cronache scritte sono lacunose e imprecise, diverse tra loro e soprattutto scritte in tempi e luoghi diversi e tutte da uomini non appartenenti alla cultura Romaní.
In queste storie, però, è presente la probabile origine di queste genti: il nord-ovest dell’India da dove partirono per giungere in Medio Oriente attraversando la Persia e l’Armenia, fino poi ad arrivare in Europa attraverso la porta dei Balcani. Anche per questo si fa derivare il nome Sinti dalla regione dell’odierno Pakistan chiamata Sindh.

Una delle storie a cui molti studiosi fanno riferimento fu scritta nel X secolo in Persia dal poeta Firdowsi. Questa racconta di come lo Shah Bahram V, siamo nel V secolo dopo Cristo, chiese ad un sovrano indiano di inviargli 10000 Luri per deliziare il suo popolo.

I Luri, infatti, erano suonatori di liuto apprezzati e per ricompensarli lo Shah offrì loro buoi, asini e semi di grano da piantare così da poterli insediare nelle terre non coltivate del proprio regno. Non essendo mai stati contadini, non sapendo quindi come piantarli e farli crescere e poi lavorare il grano, i Luri mangiarono i semi, tornando così l’anno successivo dallo Shah chiedendone degli altri. Bahram V li cacciò via infuriato dalle sue terre, condannandoli a vagare per il mondo e di ritornare solo quando avessero avuto voglia di lavorare la terra. Quanto ci sia di vero nella leggenda narrata da Firdowsi non è ancora stato appurato dai ricercatori.

In Italia da diversi secoli si sono stanziati i Sinti, in particolare in Piemonte, Veneto e Emilia Romagna dove hanno intrapreso l’attività di giostrai. Tra queste famiglie, non a caso, famose sono gli Orfei e i Togni. In una intervista del 2015 apparsa su “Il Fatto Quotidiano” Moira Orfei racconta di come il bisnonno, prete, viaggiando per il Montenegro incontrasse una donna zingara. Innamoratosene, si spogliò dei voti prendendola poi in sposa, da lì in poi vissero in compagnia di quattro cani e un orso.

Tanti altri sono i nomi di etnia Romaní divenuti famosi: dal calciatore Andrea Pirlo a Antonio Solario, pittore abruzzese del quattrocento, fino al danese Schack August Steenberg Krogh, premio Nobel per la medicina nel 1920.

Il pezzo più annerito, più strappato della loro storia forse riguarda la Seconda Guerra Mondiale. Come tanti altri i Rom e i Sinti furono perseguitati dai nazisti.
“Porrajmos”, la “devastazione”, il “grande divoramento” è così che viene ricordato dai popoli Romaní il tentativo di sterminio operato dal regime nazista. Nel campo di Auschwitz-Birkenau fu creato il primo “Zigeunerlager”, il “campo per famiglie zingare” messo in funzione nel 1943, il 26 febbraio, con l’arrivo dei primi tra Rom e Sinti. Provenivano da ogni parte dell’Europa, compresa l’Italia passando per i campi nei pressi di Bolzano e Novi Ligure. Si sosteneva che il loro modi di esistere su questa terra fosse dovuto a fattori genetici.

I Rom erano geneticamente ladri, truffatori, nomadi

questa la tesi di Robert Ritter, psichiatra e neurologo di Tubinga. La sua assistente, Eva Justin, esaminò 148 bambini ospitati in orfanotrofi, giungendo alla conclusione che nel sangue Rom fosse presente il gene “wandertrieb”, “l’istinto del nomadismo”. Questo segnò per sempre il destino dei Rom.

Gli zingari risultano come un miscuglio pericoloso di razze deteriorate […] che ha ben poco a che fare con gli zingari originari.
Ritter 1935.

Sotto consiglio di Ritter e soprattutto di Tobia Portschy, governatore della Stiria, Himmler promulgò una legge che imponeva la sterilizzazione dei bambini che avessero compiuto il dodicesimo anno di età. Era il 1937 e sul “Reichsverwaltungsblatt” si affermava che il 99% dei bambini di Berlemburg fosse maturo per la sterilizzazione.

Oggi si parla di prodotti biologici e di relative etichette per contraddistinguerli, ma già nell’agosto del 1941 Himmler predispose le “etichette biologiche” per gli zingari, che venivano così contraddistinti da Z per gli “zingari puri”, ZM+ per gli “zingari nati da matrimoni misti con più del 50% di sangue zingaro”, ZM per gli “zingari che avessero sangue misto in ugual percentuale”, e ZM- per coloro che avessero”sangue zingaro inferiore al 50%v.

Cose del genere sono difficili da immaginare. Gli Zingari erano degli ibridi, degli animali fastidiosi da eliminare, erano considerati impuri e lo stesso Josef Mengele selezionava bambini, in particolar modo gemelli, su cui condurre esperimenti di eugenetica.
È lunga da raccontare la storia dei martirii subiti da questo popolo per mano nazista.

Queste le parole del Dott. Hermann Lengbein, medico del campo di concentramento di Auschwitz:

Su un pagliericcio giacciono sei bambini che hanno pochissimi giorni di vita. Che aspetto hanno!
Le membra sono secche e il ventre gonfio. Nelle brande lì accanto ci sono le madri; occhi esausti e ardenti di febbre. Una canta piano una ninna nanna: “A quella va meglio che a tutte, ha perso la ragione!”

[…] l’infermiere polacco che ho conosciuto a suo tempo nel lager principale mi porta fuori dalla baracca. Al muro sul retro è annessa una baracchetta di legno che lui apre: è la stanza dei cadaveri. Ho già visto molti cadaveri nel campo di concentramento.
Ma qui mi ritraggo spaventato.
Una montagna di corpi alta più di due metri. Quasi tutti bambini, neonati, adolescenti. In cima scorrazzavano i topi.

Il numero esatto delle vittime non lo si conosce, ma si è provato a stimarlo. Lo storico dell'”Holocaust Memorial Museum”, Sybil Milton, propone una cifra compresa tra 220 mila e 500 mila, mentre Ian Hancock, direttore del programma di studi Rom presso l’Università del Texas, indica un’oscillazione tra i 500 mila e il milione e mezzo. All’appello del 17 gennaio 1945 nel campo di concentramento di Auschwitz risposero meno di 60, chi sostiene 4, chi 28, altri ancora 57, tra Rom e Sinti.

Un popolo abituato dalla storia ad essere perseguitato, cacciato, deriso, stappato dalla propria sa come rialzarsi ogni volta, ha imparato a vivere avendo come tetto l’intera volta celeste e lo dimostra la volontà di farsi conoscere dalla popolazioni che incontra sul proprio cammino.

Nel 1971 si è svolto a Londra il primo “Congresso Mondiale Rom”. In quella sede furono adottate ufficialmente la bandiera del popolo Rom, rappresentata dai due colori azzurro e verde – il cielo è la terra vista come una grande pianura erbosa – sovrastati da una ruota rossa di 16 raggi col doppio significato di chakra, in ricordo della possibile origine indiana dei popoli Romaní, e di ruota di carro per il continuo andare della sua gente; e “Gelem, gelem” come inno del popolo Rom, scritto all’indomani della seconda guerra mondiale da Jarko Jovanovic. “Gelem, gelem”, o anche “Jelem, jelem”, “Camminando, camminando”. Camminando, andando, percorrendo strade nuove e sconosciute cresciamo e impariamo, ritorniamo ad essere nomadi.

Autore Fabio Picolli

Fabio Picolli, nato a Napoli nel 1980, da sempre appassionato cultore della conoscenza, dall’araldica alle arti marziali, dalle scienze all’arte, dall’esoterismo alla storia. Laureato in ingegneria aerospaziale all'Università Federico II è impiegato in "Leonardo", ex Finmeccanica. Giornalista pubblicista. Il Viaggio? Beh, è un modo di essere, un modo di vivere!