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Foto tra la vita e la morte

morte


Vedo un’amica di mia madre farmi gesti ampi dall’altra parte della strada. È una gran seccatrice, ma non posso fingere di non averla vista. Mi preparo psicologicamente a trovare una scusa che renda possibile una fuga in un tempo di circa cinque minuti, so già che meno non è possibile. Ma non riesco a dirle nulla di tutto quello che mi sta passando per la testa, perché lei mi porge subito una foto del marito morto.

Intendiamoci nella foto il marito è vivo e vegeto, ma la foto è considerata una foto di morte perché è offerta nella messa in commemorazione del defunto e reca in sé una preghiera, qualche indicazione sulla vita del morto, nonché le date di nascita e morte dello stesso. Sapevo della morte del marito, avvenuta qualche mese prima, ed avevo pure fatto le mie sentite condoglianze, ma mi ero persa il trigesimo.
La piccola signora doveva aver tenuto questo conto e, dunque, ecco per me una opportuna “pagellina”. Lei ci tiene particolarmente. Ha disposto tutti i suoi defunti accanto al letto, sul suo comodino e da lì loro la “guardano”, come mi racconta, e la proteggono.

La foto del marito però è l’unica che porta anche con sé nella borsa, quando esce.
Non è superstizione: è bisogno d’amore, è rito nel rito, è convinzione che dal “contatto” con un oggetto che si ritiene “magico” si produca una protezione per chi lo indossi.
Il termine magia ha qui il senso che assume per De Martino e per le discipline antropologiche, ovvero di un rituale potenziato dall’intenzione e dal pensiero di chi lo mette in atto.

D’altra parte una tradizione della foto di morte esiste da quando esiste la fotografia.

Non solo per Ferdinando II, re delle Due Sicilie, ma anche per gente comune, ed in special modo negli anni Cinquanta, l’attestazione dell’avvenuto decesso era certificata da una foto del malcapitato sul letto di morte.

Ferdinando II Re delle Due Sicilie
Luogo e data della ripresa: Milano (MI), Italia, 1950 Materia/tecnica: gelatina bromuro d’argento/vetro Misure: 10 x 15 Collocazione: Milano (MI), Regione Lombardia, fondo Studio Tollini, TLI_144_LS_DQ Genere: ritratto Soggetto: biografia / ritratto; morte Compilatore: Ginex, Giovanna (2001) Referente scientifico: Ginex, Giovanna Funzionario responsabile: Minervini, Enzo

Nel corso di una ricerca svolta in Campania agli inizi degli anni Novanta, per conto della cattedra di Storia delle Tradizioni Popolari, trovai insieme all’antropologa Silvana Chianese, una quantità di fotografie relative al letto di morte, ma pure interi album fotografici che venivano dedicati alla morte come al matrimonio.
Si trattava di raccolte che rendevano conto del letto di morte, del corteo funebre, della bara in chiesa e di un vero e proprio corredo di prefiche e parenti piangenti. Tra gli album ritrovati ce n’erano diversi risalenti anche alla fine degli anni Ottanta.
Il senso di queste raccolte fotografiche? Rendere omaggio alla memoria dello scomparso, ma pure certificare l’importanza che per la famiglia aveva quella morte.

Il tiro a otto, il tiro a sei, ovvero il numero di cavalli che portava la carrozza con la bara nei tratti casa/chiesa/cimitero, la qualità e il numero delle corone, la presenza di notabili nel corteo, di prefiche, di familiari disperati… tutto era attestato nelle foto degli album e rimarcato ogni volta che una pagina lasciava il posto alla successiva da chi ci raccontava la storia di quel funerale. Sì, perché sostanzialmente gli album fotografici servono a raccontare la storia.

“Questo è il vedovo… guardate nel corteo c’è anche l’amica della moglie che avrebbe sposato qualche anno dopo…”; “Quello è il vecchio parroco, quello che fece suonare la banda quando morì il bambino del fattore sotto l’aratro…”
E via così.

Anche oggi assistiamo ad una spettacolarizzazione della morte, l’esibizione continua e costante della morte, nelle sue rappresentazioni mediatiche (il continuo mostrarsi di cadaveri di poveri morti per terremoti, terrorismo, incidenti apocalittici) ci ha resi più abituati all’esposizione della morte come evento. E pure oggi la esorcizziamo con il sensazionalismo: funerali in pompa magna, discorsi di vescovi, organizzazione di orchestrine che accompagnano il defunto pure in provincia di Napoli, non solo a New Orleans.

Ma appena l’evento funerale ha termine, spente le luci come il trapassato, si è da soli ad affrontare l’horror vacui che rimane.

Gli esiti della ricerca cominciata negli anni Novanta hanno dimostrato proprio come la foto di morte, in quanto rito nel rito, si imperni attorno al paradossale desiderio di mantenere il legame di fronte alla morte e di assicurare il predominio della volontà di vita sulla tendenza a disperdersi.

Il rito permette ai sopravvissuti non solo di gestire l’evento morte, ma di risollevarsi da quel senso di generale disorientamento in cui la morte li ha fatti precipitare.

Io e Silvana avvertivamo un certo disagio a “sezionare” le foto, a parlarci attorno, ad estrapolarne informazioni, considerato che erano foto di morti e di loro parenti disperati… ci sembrava di violarne “l’intimità”, di rubare qualcosa che apparteneva ad altri, al loro dolore, al loro cordoglio. Anche le domande che ponevamo agli intervistati, di regola parenti prossimi dei protagonisti delle foto, ricevevano risposte infastidite, spesso stringate.

Ad ascoltare oggi l’amica di mia madre discorrere così diffusamente dei dettagli della morte, mi sono chiesta quanto ancora oggi incontreremmo questo riserbo.
In ogni caso di tutte le foto che scattiamo, e sono davvero tante se paragonate all’era che ha preceduto il digitale, e che finiscono in memorie digitali, le uniche che stampiamo sono quelle per la pagellina del congiunto morto.

Abbiamo bisogno di ripristinare un contatto fisico… non importa quanto sia ben definita l’immagine sullo schermo, è una figura che è necessario toccare. Necessario toccare.

Autore Barbara Napolitano

Barbara Napolitano, nata a Napoli nel dicembre del 1971, si avvicina fin da ragazza allo studio dell’antropologia per districare il suo complicato albero genealogico, che vede protagonisti, tra l’altro, un nonno filippino ed una bisnonna sudamericana. Completati gli studi universitari si occupa di Antropologia Visuale, pubblicando articoli e saggi nel merito, e lavorando sempre più spesso nell’ambito del filmato documentaristico. Come regista il suo lavoro più conosciuto è legato alle dirette televisive dedicate a opere teatrali e liriche. Come regista teatrale e autrice mette in scena ‘Le metamorfosi di Nanni’, con protagonisti Lello Arena e Giovanni Block. Per la narrativa pubblica ‘Zaro. Avventure di un visionauta’ (2003), ‘Il mercante di favole su misura’ (2007), ‘Allora sono cretina’ (2013), ‘Pazienti inGattiviti’ (2016) ‘Le metamorfosi di Nanni’ (2019). Il libro ‘Produzione televisiva’ (2014), invece, è dedicato al mondo della TV. Ha tenuto i blog ‘iltempoelafotografia’ ed ‘il niminchialista cinematografico’ dedicati alla multimedialità.

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