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Filosofia della cucina in lattina

Filosofia


Per secoli la filosofia e i suoi protagonisti, influenzati dal pensiero platonico, e poi, tra il resto, con la cristianizzazione, hanno posto l’attenzione esclusivamente sull’anima, cercando di far tralasciare all’uomo di avere un corpo materiale, che, nel tempo, è stato bistrattato e umiliato, e così il lato ‘carnale’ dell’essere è stato limitato e sottomesso alla supremazia dello spirito.
Blasfemia il corpo che mangia, se non per lo stretto necessario, con la dispensa di specifici momenti di festa per celebrazioni consentite. L’ideologia imperativa della fremente riunione dell’anima all’Onnipotente sottoponeva tutto, tra cui il piacere del cibo, la gola, espresso come peccato e accostato, non in modo accidentale, ad un altro dei 7 peccati capitali, la lussuria.

Contrapposto c’è, invece, il pensiero aristotelico, per il quale l’uomo nella sua totalità non è scomponibile in parti indipendenti, ma un insieme, intelligente, unico, articolato complesso di corpo, mente, anima e sentimenti, emozioni ed energia, che, al massimo della sua funzionalità, manifesta espressione di equilibrio ed euritmia.

Il punto di vista olistico considera difatti tutte le sfere dell’azione umana e aggiungo: anche in cucina e a tavola.

Da un certo punto di vista casalingo, la tavola, come pure il letto, è luogo di filosofia e di ricerca di consapevolezza, tanto quanto lo scrittoio o la libreria.

Nietzsche più degli altri ha sottoscritto il ruolo fondamentale del corpo fisico nell’elaborazione del pensiero perché, tramite i sensi, è fonte di esperienza e conoscenza.

Era persuaso che ciò che accede nel corpo e, quindi, anche in forma di cibo, modifichi le connessioni formanti il pensiero, lo stato d’animo, ecc…

Il centro della questione è che il piacere per idealisti e religiosi è concepito con l’accezione negativa in terra, in attesa della beatitudine celeste, e questa loro concezione ha condizionato una buona parte della cultura e del pensiero, pervaso il mondo di moralismo, special modo in Occidente.

Ancora ai giorni nostri il tema è spinoso e produce effetti puritani, ammonimenti salutistici e critiche di superficialità. Il piacere è inteso ancora quale analogo di eccesso, libertinaggio e fastosità, privilegio concesso a pochi. In generale lo si considera ancora fortemente come artificiale e costoso, mentre si concepisce naturale il sacrificio, il dovere, il lavoro.

Prima il dovere e poi il piacere!

Progressivamente, nelle case, anche in Italia, abbiamo assistito al rimpiazzo dei tavoli da pranzo con moderne penisole provviste di sgabelli, come allestimenti da bar, con la conseguente perdita del senso intimo dello stare a mangiare assieme ad intavolare conversazioni, alla pari della perdita del valore della cucina e del cucinato.

Il modello s’è trasformato via via in un’espressione frettolosa e superficiale, adottando cibi già preparati e pronti al consumo, ma privi di sentimento e di anima, con un significato recondito di semplificato, ininfluente ed effimero.

Oramai in lattina fanno di tutto, pure la carbonara! A sottolineare da un lato la ‘cittadinità’ estremizzata e globalizzata del cibo che fu contadino – nel caso specifico il ‘cacio e ova’ di origine abruzzese – e dall’altro la definitiva sottomissione della natura e i passi perduti di ‘irrintracciabilità’ del tragitto svolto dalle materie prime fino alla bocca.

Ne ravvedo una progressiva disumanizzazione, avvilimento e denaturalizzazione, perché, in realtà, si nascondono tutti i processi produttivi e si annullano gli aspetti rituali e conviviali del mangiare.

L’uomo è ciò che mangia.
Ludwig Feuerbach

Il ‘pane quotidiano’ da mangiare in comune è avvilito e disperso nell’abbondanza e nella disponibilità di un certo tipo di alimenti di scarsa qualità e la relativa valorizzazione viene meno, così nuove abitudini nascono senza carattere simbolico e rituale del mangiare, spegnendone il significato più profondo.

Tutto ciò, peraltro, a spaccare il tradizionale ingranaggio concettuale della famiglia e i conseguenti concetti di affetto e di regole, oltre che a confermare la velocità vorticosa della vita moderna e la conseguente mancanza di tempo necessario ai propri bisogni e ai propri desideri, incastrati in ciò che, molto spesso, pur risultando stretto e disprezzato, è bonariamente accettato in modo lassista.

Nel film del 1936 di Charlie Chaplin, ‘Tempi moderni’, una macchina alimentava degli operai che non dovevano staccarsi dal loro lavoro a catena in fabbrica.

Sto parlando, quindi, per la maggior parte, di individui in sostanziale solitudine, inconsapevolmente dissociati dal quotidiano rito sociale, ma connessi costantemente alle reti sociali virtuali.

La ricerca dei riti di socializzazione sono per lo più praticati nelle bevute serali fuori casa o nel diffusissimo e ‘dozzinalizzato’ apericena – da Milanese o meglio ‘Navigliese’ per nascita ne ho avuto lunga esperienza – in cui ormai è diventato simbolo del carattere consumistico sociale corrente e di mero intrattenimento provvisorio dove, seppur per la maggior parte di scarsissima qualità, il consumo veloce, comodo ed economico, solleva la preparazione solitaria del pasto a casa e, quindi, priva i piaceri di prendersi cura di sé e degli altri.

Al riguardo, mi toccherà ampliare l’argomento ‘solitudine alimentare’ nel prossimo articolo.

Come ho cercato di dimostrare nella maggior parte degli pezzi pubblicati fino ad ora in questa rubrica, il gusto, la tavola e la cucina dovrebbero essere fonti di significato profondo e di intenso piacere socio-culturale, che, a mio parere, è slegato dai concetti che vedremo dopo relativi al costo o alla prestigiosità del protagonista ingrediente: puoi mangiare la cosa più deliziosa del mondo, ma se la mangi ogni santo giorno, diviene annoiante routine e così decade il suo ricco compito di varietà, sorpresa e stimolo dei sensi e, perciò, di apprezzamento di piacere.

Puoi arrivare a mangiare caviale tutti i giorni; per carità pregiato e prelibato, ma vuoi mettere ogni tanto una bella pasta al burro?

Per motivi un po’ diversi, così diceva un vecchio amico di cui ho perso le tracce.

Probabilmente, in un certo momento e condizione quella pasta al burro, se ben eseguita, potrebbe superare la bontà dell’ipotetico caviale quotidiano. Non è una blasfemia o un disprezzo, si tratta semplicemente di una legge matematica: l’unità marginale decrescente.

Il cibo è una delle più grandi gioie della vita. Siamo arrivati a un punto davvero triste dove stiamo trasformando il cibo in un nemico oltre a qualcosa di cui aver paura.
Jamie Oliver

Trovo curiosa la storia della presentazione del cibo dai banchetti ai simposi con le elaborazioni degli alimenti ostentatamente ragionate per creare effetti visivi strabilianti, passando dai ricevimenti barocchi pantagruelici e teatrali, tronfi d’abbondanza, intenzionalmente sorprendenti, che giocavano, insomma, con la funzione primaria per l’appagamento nutrizionale e con quella secondaria di esibizione per il godimento intellettuale.

E oggi?

In certi ambienti rilevo uno sbilanciamento nei confronti di una predominanza dell’aspetto estetico-psichico su tutti gli altri: ora le piccole porzioni, che caratterizzano i risultati di movimenti culinari – originati cinquant’anni fa dalla francese nouvelle cuisine – sono enfatizzate nel loro attento studio, che parte da uno schizzo, e la presentazione, servite geometricamente su piatti spesso non convenzionali nella forma e appositamente larghi per incorniciare ed evidenziare l’esiguità del pregiato preparato presentato, esposto, in cromaticità alla pietanza, che, molto raramente, emerge dal bordo, al fine di evidenziare il confine tra vuoto e pieno, per dichiarare, invece, infine, l’assenza della funzione basilare e naturale del cibo, supportata dalla premessa di rigore morale e di distanza dal grezzo stimolo della fame, permettendo anche l’impossibilità di ingrassare e mantenendo salubri promesse salutistiche.

L’artista chef gastrosofo multidisciplinare ha come ingrediente principale un certo tipo di cultura; investigando sulla comunicazione delle conoscenze culinarie e combinando le 4B: Buono, Bello, Bilanciato e Buon umore, è alla costante ricerca dell’effetto che fa, col fine di fare tendenza e lasciare il segno.

Nella cosiddetta società dei consumi, perduta la sacralità dei concetti e dei riti dai significati ancestrali relativi al cibo, l’eccesso / spreco degli alimenti, in ossimoro alla scarsità di certe risorse, è incline al minor consumo a predilezione della forma, sfociando per alcuni ambiti nel design e in elaborate tecniche e procedimenti.

L’odierna propensione alla magrezza potrebbe essere interpretata anche come disposizione sociale verso un alleggerimento della corporeità?

Allontanati così dai bisogni primari, si palesa, paradossalmente, l’abbondanza raggiunta individualmente e socialmente. Cibi intenzionalmente costosi per affermare o confermare lo status economico-sociale, che per sottolineare bellezza e bontà non devono rivestire la loro funzione tradizionale, anzi, ricusarlo.

Talvolta i modelli progettati di presentazione dei cibi si atteggiano a fonti di consapevolezza: per i vincenti della società è finita l’ignobile epoca dei bisogni e allora la fame, fra tutte, risulta anacronistica e volgare e, come tale, va nascosta e tenuta lontana, aristocraticamente.

L’uomo civilizzato ed evoluto, nel suo percorso di raffinamento, non deve essere uno smodato affamato, ma deve ostentare la liberazione degli istinti animaleschi primordiali, laddove la negazione delle pulsioni fa emergere l’attestazione dell’essenza dell’essere.

Abbiamo già parlato nell’articolo dedicato al fuoco della rimozione dalla bestialità umana per mezzo della cottura del cibo ad evoluzione dello stato primitivo.

La scoperta di un piatto nuovo è più preziosa per il genere umano che la scoperta di una nuova stella.
Anthelme Brillat-Savarin

Si dà privilegio all’offerta istruttiva del cibo come esperienza sensoria, legata al gusto eccentrico e stravagante, di meditati contrasti e accostamenti creativi, magari azzardati, finalizzati alla costruzione di isotopie percettive, come percorsi lessicali basati sui sensi che guidano la percezione e la cognizione del reale.

In certi luoghi e in certe situazioni vige la minimalità dei pasti e i cibi si degustano: si assaporano e non si mangiano; si sorseggiano e non si bevono. Ossia il mangiare e il bere si esauriscono nell’assaggio.

Peraltro, le porzioni parsimoniose impongono l’ingerimento lento di ciò che si ha davanti con l’ulteriore fine di poter sentire, con dovuta calma e profondit, il ricercato gusto offerto, per un’autentica esperienza di piacere cerebrale.

È chiaro che stiamo vivendo un passaggio di transizione da gastronomia a ‘gastrosmania’, con un cibo oggetto, succube di atteggiamenti ossessivi e genuflessi alla frenesia video-fotografica di una produzione di ‘foodporn’ in un rapporto di intimità, che in quell’istante non appaga il senso del gusto, ma solo quello della vista, per una condivisione di una tavola virtuale online.

L’arte culinaria come maestria d’attimo prima del consumo per compiacimento esclusivamente psico-intellettuale, nella quale il cibo è asservito a lettura, analisi, visione e registrazione.

Dopo il passaggio decisivo dalla cucina quotidiana femminile all’alta cucina maschile, vedo in questi tempi percorsi di studio innovativi e mansioni lavorative originali, associate alla moda, fashion e design come il food blogger, il food design, il food storytelling, il food craving advisor, ecc…

Quest’estetica alimentare spesso fa il paio con l’apparire senza essere, con l’assenza di sostanza dell’uomo globale postmoderno e il suo smarrimento d’identità, piegata sempre più all’immagine sociale che sta portando alla costruzione di un mondo immaginale, sorretto da un modo di esistere permeato dall’immaginario dell’immateriale.

Da mangiare con gli occhi!

L’estetizzazione è interpretabile come ulteriore sintomo della sottrazione di valore delle sostanze?

Quanto è vero, invece, che attraverso l’atto del mangiare incorporiamo il mondo. Il mondo entra dentro di noi, diventa noi; e così edificando la nostra soggettività.

Il cibo ha virato la sua frequenza vibrazionale nel tempo, lasciando il contatto con la sua destinazione vera: nutrire, soddisfare i sensi, armonizzare il corpo, gustare la presenza dell’attimo sociale.

Convengo con Plutarco:

non ci invitiamo l’un l’altro semplicemente per mangiare e bere, ma per mangiare e bere assieme

e trovo necessario ritrovare e promuovere il piacere gastronomico e la convivialità attraverso un approccio al cibo fondato sul beneficio edonistico della conoscenza approfondita, dell’educazione sensoriale e del convivio armonioso.

Convivio, che deriva dal latino cum vivere, vivere insieme, coesistere, indica il patto tra l’atto di mangiare e quello di vivere, tra alimento e vita; cibo sostanza di vita.

È necessario mangiare insieme per ritrovare il significato della comunicazione che sta celata nel cibo, attraverso il suo diretto significato umano.

Le persone, al giorno d’oggi, si identificano con ciò che hanno e tendono ad anelare fortemente ciò che non raggiungono, vedendo come limite ciò che, invece, è solo il riflesso degli occhi di chi li guarda.

È nostra responsabilità darci una forma e diventare ciò che siamo, accorgendoci e liberandoci delle scusanti prima di assumere le sembianze di ciò che vuole farci prendere il mondo.

Dovremmo modellare l’esistenza in modo tale che assomigli il più possibile alla nostra vera essenza ed esteriorizzarla, esprimendo armonia, serenità ed empatia di contatto.

Comunione con il Tutto, ma in legame con la propria individualità che, oltre ogni parvenza, rimane unica e inimitabile e, per questo, preziosa ricchezza.

Il percorso dove ci porterà?

Stay tuned! Restate sintonizzati e direi anche sincronizzati!

Autore Investigatore Culinario

Investigatore Culinario. Ingegnere dedito da trent'anni alle investigazioni private e all’intelligence, da sempre amante della lettura, che si diletta talvolta a scrivere. Attratto dall'esoterismo e dai significati nascosti, ha una spiccata passione anche per la cucina e, nel corso di molti anni, ha fatto una profonda ricerca per rintracciare qualità nelle materie prime e nei prodotti, andando a scoprire anche persone e luoghi laddove potesse essere riscontrata quella genuina passione e poter degustare bontà e ingegni culinari.

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