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‘Felici i felici’. Felicità, illusione o nulla?

'Felici i felici'


Lorena Leone mette in scena al Nouveau Théâtre de Poche uno splendido adattamento del romanzo di Yasmina Reza

La pandemia ci ha tenuti lontani dal teatro per lunghi mesi. Per chi ne fa una passione, quasi una droga, può diventare un’astinenza al limite della sopportazione.

Non potevamo considerare tale un ritorno alla normalità senza riassaporare le impagabili emozioni di una serata vissuta assistendo ad una pièce; ovviamente di qualità, di quelle che lasciano il segno. Che ti fanno uscire fantasticando, mettendo a posto i pezzi di un puzzle mentale che prova a riprendere l’intenzione autoriale, l’impronta registica.

E per tornare a sognare non potevamo che scegliere un’eccellenza come quella del Nouveau Théâtre de Poche, realtà alla quale siamo legati artisticamente ed emotivamente non solo per la qualità di quanto viene messo in scena, ma anche per il rapporto personale con meravigliose anime che fanno del teatro il mezzo di massima espressione, la ragione di vita.

Quando quasi per caso, ma il caso non esiste, dal un profilo social, veniamo a conoscenza dello spettacolo, ci proiettiamo con spirito ed immaginazione a quel luogo magico dove abbiamo assistito a rarissimi gioielli di quella impareggiabile forma d’arte che è il Teatro.

Per quello che in qualche modo è il nostro ritorno non possiamo accontentarci.

Ci serve qualcosa di autentico, che ci faccia lasciare la sala galleggiando, con un sorriso semi idiota stampato sul viso.

Gli ingredienti ci sono tutti.

Una drammaturgia ispirata al testo di un’autrice intensa e profonda come Yasmina Reza, il romanzo ‘Felici i felici’, pubblicato nel 2013, che prende spunto da una frase di Borges:

Felici gli amati e gli amanti e coloro che possono fare a meno dell’amore. Felici i felici.

Ogni capitolo dedicato ad un personaggio, che si mette a nudo, con le sue debolezze, insicurezze, manie, sofferenza, con il suo senso di profonda solitudine.

L’adattamento teatrale e la regia di Lorena Leone, che stimiamo come donna e come artista.

Aggiungiamo che sul palco troveremo i migliori allievi dell’accademia del de Poche, per cui è forte in noi la voglia di scoprire gli ultimi volti di questa immensa fucina di talenti.

Arriviamo, dunque, con una forte aspettativa, che sappiamo non sarà tradita.

Ci godiamo anche la breve attesa del buio completo prima della scena, come momento iniziale di infinite possibilità da cui scaturisce la vita.

Scegliamo di non leggere prima le note di regia, un po’ come evitiamo accuratamente le prefazioni dei libri, per non correre il rischio di essere influenzati nella nostra interpretazione dei testi che ci prepariamo a fruire, qualunque siano i canali di espressione.

Ad incollarci sulla sedia troviamo quattro storie, quattro personaggi.

Vissuti diversi, anche profondamente.

Diversi i personaggi, che trovano diverse sedute, diverse luci, diversi colori. Il tutto sapientemente reso anche grazie alle scelte scenografiche di Rosita Vallefuoco e Mariateresa D’Alessio, ai costumi di Fabiana Amato, e al disegno luci di Nino Perrella.

Per tutti loro un filo conduttore, l’insoddisfazione, la frustrazione, il senso di inadeguatezza.

Coppie in modo diverso, ma sostanzialmente soli come individui.

La solitudine, coniugata in tutte le sue sfaccettature: spleen, male di vivere, malinconia, dolore, presagio, ricordo.

Si tratta di Odile e Robert, una coppia consumata da mille screzi e ripicche.

Giornalista lui, avvocato lei.

Lui perennemente in preda alla voglia di scappare, verso luoghi e situazioni non meglio definite, che molto ci ricordano il Kundera de ‘La vita è altrove’, autore di riferimento della Reza. Che vorrebbe continuamente lasciare sua moglie, vestendosi in piena notte nell’intenzione di andare verso quel vago altrove che resterà solo una proiezione del suo disagio.

Interpretato da un Gennaro Madonna per il quale prevediamo uno splendente futuro, se solo deciderà di continuare nel pur complicato percorso della carriera di attore. Che ci ha profondamente impressionato, nel migliore dei modi possibili.

Lei, inguaribilmente in bilico, tra la carriera e la famiglia, tra Robert, suo marito, e Rémi, l’amante, tra l’aggressività e la tenerezza, che dopo ogni discussione la spinge ad avvicinarsi al consorte nel letto. Che sembra avere un atteggiamento duro nei confronti dei figli, Simon e Antoine, ma che poi diventa preda delle sue irrisolte insicurezze, che la spingono a preoccuparsi dell’attaccamento di suo figlio ad un pupazzo di stoffa o del fatto che non dorma. Interpretata Niamh McCann, incredibilmente matura dal punto di vista tecnico e assolutamente padrona della scena, che abbiamo particolarmente apprezzato per la grande capacità di gestione del corpo, della comunicazione non verbale.

Troviamo, poi, i coniugi Hutner, di cui vediamo sul palco solo la strepitosa Irene Latronico, nei panni di Pasqualine, madre di Jacob, che crede di essere Céline Dion, una passione per la cantante che sfocia in un disturbo psichiatrico. Un segreto che dilania l’apparente perfezione della coppia. Un disturbo della personalità troppo a lungo volutamente ignorato, che esplode in modo devastante nella loro vita.

Impeccabile, la Latronico, nell’espressività facciale, nell’alternare i registri drammatici a quelli ironici.

Ed infine, ultimo solo per ordine di apparizione, Rémi, individuato genericamente come il consulente, ma non si sa esattamente di cosa. Personaggio equivoco, fondamentalmente egocentrico, amante di tante donne, oltre che di una Odile di cui non riesce ad ammettere di essere innamorato. Per paura di soffrire, di ricadere in un’altra storia dal finale doloroso. Interpretato da un ottimo e preciso Flavio D’Andrea.

In effetti, ad essere oggetto dello sguardo impietoso dell’opera della Reza e dello straordinario adattamento della Leone, che ne lascia preziosamente intatto lo spirito, è la coppia borghese.

Sostanzialmente ipocrita nei suoi tradimenti, scontenta, litigiosa, ligia nelle apparenze, ma spietata nell’intimo. Individui isolati, piuttosto che autenticamente coppia.

E non è difficile identificarsi nelle manie, fobie e ritualità del quotidiano, che vediamo reificarsi sul palco.

Le esasperazioni nei supermercati, code infinite e carrelli che si riempiono di prodotti che l’altro non sceglierebbe. Gli atteggiamenti degli altri attori di una ritualità consumistica, che finiscono per irritare, per diventare bersaglio di aggressività represse, di istinti omicidi cui non daremo mai soddisfazione.

Ma, soprattutto, ci si riconosce nelle proprie insoddisfazioni, nelle proprie paure.

Nella propria voglia di evadere da una realtà che a volte ci sembra soffocante.

Di scappare, di andare lontano, come recita una celeberrima canzone di Baglioni.

Riflessioni crude, certo. Ma anche tante risate, anche se frutto di autoironia, di una tensione ad alleggerire, che poi lasciano in bocca un inteso retrogusto amaro.

Dopo lo spettacolo abbiamo scambiato qualche battuta con Lorena Leone, cui abbiamo chiesto il perché di questa scelta.

Si tratta di un mio collage drammaturgico, che prende spunto dall’omonima opera di Yasmina Reza, che si compone di 18 capitoli di cui ne ho scelti 4. È un’autrice che anche nella prosa, ha una scrittura molto teatrale e che quindi si presta bene all’adattamento.

È molto potente come espressione, per cui ho semplicemente preso le sue parole, ovviamente nella versione tradotta, senza giocarci più di tanto, ma mettendo solo dei pezzi.

Ho scelto quattro delle prospettive in cui vedevo delle relazioni di fondo, dei punti in comune, e ho costruito una messa in scena essenziale al massimo.

Sono quattro sguardi sul mondo, ma le cui sfaccettature si riconducono alla stessa dimensione. Anche se ognuno, in qualche modo, trova la sua soluzione nella sua seduta, per questo le sedute sono tutte diverse. Così come ognuno è illuminato dalla sua luce.

Mi piace la varietà del testo, sono racconti che hanno mille colori. Potrebbero essere interpretati tra vent’anni ritrovandone altri diecimila. Si tratta di un’opera, quella della Reza, estremamente stratificata, dalle tante facce.

Come nella vita ci sono malinconia, strazio. Poi molto dipende anche dallo spettatore, da quello che ci vede da quello che proietta, da come interpreta attraverso il suo vissuto. C’è molto dramma, tanta forza ma anche tanta ironia.

Volevo far emergere proprio la vastità di certe dimensioni e situazioni, che riescono ad essere anche leggere, che fanno ridere. Ma anche sottolineare come spesso diamo importanza a cose in realtà inutili, senza peso reale. Ci perdiamo. Divaghiamo. Quando poi ci sono vere tragedie.

Di contro, anche chi vive una situazione realmente drammatica, come i disturbi della personalità di un figlio, può trovare compensazione, anche semplicemente in un ordine di facciata.

Pasqualine, che è l’unica che affronta una situazione veramente critica, poi trova un equilibrio nel rapporto con il marito. Non ci interessa sapere quanto sia reale, il punto è che arriva ad una soluzione.

Anche Odile e Robert trovano delle ragioni per stare assieme, anche se lei altalena, oscilla, vive stati d’animo che vanno dalle sue sicurezze di donna in carriera alla fragilità di moglie che ha bisogno del marito. Finisce per agganciarsi a lui, sempre, così come lui ritrova, in fondo, la tenerezza. Si riscopre bambino, sogna di andare chissà dove, ma sono viaggi che poi ci fanno restare sempre allo stesso posto.

Resta da definire il concetto di felicità.

Felice i felici.

Quali dei quattro protagonisti è realmente felice?

Nessuno? Qualcuno? Tutti?

Cosa è realmente la felicità?

Una condizione esistenziale?

Un attimo?

L’attimo in cui in macchina, tornando dal supermercato, si ascolta una canzone in cui ci si rivede?

Quando si ascolta il figlio cantare un brano della Dion, spellandosi le mani nell’applaudire come quando era bambino?

Stringersi a lui nel letto alla fine dell’ennesima schermata, dopo un tempo infinito passato a fissare le parete opposte?

Recuperare la propria leggerezza dopo la spinta a far diventare più profondo un rapporto che dovrebbe essere di solo sesso?

Tutte queste cose, nessuna di queste.

Alla fine, come precisato nelle note di regia, non importa realmente sapere chi è felice. Quale possa essere la scelta migliore. L’intenzione è quella di raccontare delle storie. E la Leone ci riesce, nel migliore dei modi possibili.

In fondo, la felicità potrebbe essere nulla.

Come potrebbe esserlo il disagio che tutti i protagonisti provano.

Invitiamo caldamente alla visione dell’ultima replica dello spettacolo, stasera 26 giugno, ore 19:00, al Nouveau Théâtre de Poche di Napoli in via Salvatore Tommasi n.15. Ne vale davvero la pena.

Autore Lorenza Iuliano

Lorenza Iuliano, vicedirettore ExPartibus, giornalista pubblicista, linguista, politologa, web master, esperta di comunicazione e SEO.

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