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Fantozzi, è lei?

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Fantozzi


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Il lavoro non mi piace, non piace a nessuno, ma a me piace quello che c’è nel lavoro: la possibilità di trovare se stessi.
Joseph Conrad 

Nello spazio lasciato dai fatti che ci raccontano la cruenta verità dell’animo umano nella sua deriva violenta in un Paese lontano assai e in quel che resta di ostile e di pauroso di un virus che non smette di riempire i nostri giorni di angoscia e preoccupazione, è riuscita ad inserirsi anche una notizia che ci ha strappato un sorriso, ma ci ha concesso anche una sana riflessione su cosa siamo quando lasciamo le mura domestiche e cominciamo a confrontarci con certe realtà come quella del lavoro.

Sono anni, almeno dal marzo del 2020, che si è presentata con una certa veemenza nel nostro lessico quotidiano il termine smart working. Sappiamo che esso è definito anche lavoro agile, ovvero una modalità di lavoro senza vincoli di spazio e orari che si basa su un’organizzazione per progetti e obiettivi.

Si distacca dalla modalità “normale” di attuazione, quindi, per il fatto che non devono solitamente rispettare orari prestabiliti dal proprio datore di lavoro e non ci si deve recare fisicamente o con regolarità nella sede aziendale.

Pur essendo una modalità di esecuzione già prevista dalla legge, la diffusione dello smart working ha avuto una forte crescita in Italia a causa della pandemia da Covid-19, che ha costretto diverse, se non tutte le imprese e le Pubbliche Amministrazioni, a mutare l’attività lavorativa permettendo di lavorare da remoto ad un numero sempre più ampio di dipendenti.

Se infatti prima della pandemia in Italia si contavano appena 600.000 “lavoratori agili”, che avevano pattuito lo svolgimento della prestazione professionale sulla base di accordi individuali con la propria azienda, le ultime stime contano oggi oltre 4 milioni di persone che usufruiscono di forme più o meno diffuse di lavoro da remoto, mentre l’89% delle grandi imprese prevede di continuare con il lavoro agile anche dopo la pandemia, mentre molti più dubbi ci sono nelle piccole imprese.

La notizia non risiede in questi dati, ma in un caso avvenuto tra i corridoi di uno dei palazzi più importanti di una grande azienda italiana conosciuta da tutti noi: la Rai con protagonista una giornalista, Dania Mondini, che ha accusato i suoi capi di averla demansionata e quindi spostata a svolgere le sue mansioni nello stesso ufficio di un collega affetto da aerofagia.

Il reprobo non sarebbe in grado di trattenere neppure le emissioni aeree orali, obbligando la malcapitata ad una sorte di girone dell’inferno dove chi entra e si siede in quella stanza respira odori nauseabondi e le sue orecchie sono costrette a subire molestie tali da acutizzare una sofferenza fantozziana.

Quel genio di Paolo Villaggio a cui il nostro Paese dovrebbe riconoscere meriti degni di un grande sociologo o psicologo aveva delineato nel suo personaggio più famoso l’impiegato italiano medio: un subdolo ma sognatore uomo, metà schiavo metà padrone, privo di spina dorsale ma capace di grandi slanci di personalità subito abortite dallo sguardo del mega direttore di turno.

Nella sua goffaggine e nella sua semplicità risiedeva il tortuoso mondo del dipendente fallito: stimato e non amato in casa, ultima ruota del carro, condannato a perdere e indirizzato alla sconfitta perenne sotto un’umiliante accettazione di ogni torto possibile. Quello che si evince è che Fantozzi vive pieno di nevrosi in una società nella quale a nessuno importa di lui.

Quanti di noi, nel buio della loro intimità, si è ritrovato in quello sguardo basso, in quelle movenze impacciate e in quel balbettio privo di ogni capacità di concludere un discorso in un confronto leale? Credo in molti.

Nei suoi film, soprattutto i primi, il padrone non ha nemmeno un’identità precisa. Lo stesso Villagio ammetteva che non era una persona fisica e che il suo ragioniere Ugo viveva in una dimensione piramidale dove al vertice della piramide, forse, non c’era proprio nessuno.

La notizia ha visto la Rai catapultarsi tra le pagine dei nostri giornali non per i prodotti che vengono sfornati ma per un caso tra il grottesco e il divertito, tra la parodia e lo sconcerto.

Oggi più che mai, il lavoro occupa un posto di rilevo all’interno dell’abitare umano nel mondo: ogni città e ogni esistenza umana sono il manifesto evidente della sua centralità.

Il lavoro, infatti, da un lato abita e struttura la convivenza cittadina, i suoi luoghi e i suoi ritmi, e dall’altro abita l’esistenza dell’uomo, il suo tempo, le sue possibilità, la sua realizzazione, la sua dignità. Esso, dunque, si ritrova immediatamente annodato alla socialità e all’umanità stessa.

Ergo, quello che succede in quella realtà è vita della vita stessa in ogni declinazione: il disturbatore appartiene al concetto dell’uomo, capace di essere carnefice e, contemporaneamente anche vittima.

Ognuno di noi è stato molestatore e molestato: colorando il grigiore aziendale con vivaci atteggiamenti, rumori – è il caso di dirlo -, pettegolezzi, memorie di ogni tipo che hanno reso il livello della tolleranza spesso molto labile.

Vizi igienici, tecniche più o meno controllate del corpo, usanze disinvolte, vestiti inappropriati, storpiature e apparizioni che rendono la casistica del molestatore infinita. Cari fottutissimi colleghi, storpiando immeritatamente il titolo di un film di Mario Monicelli.

Il caso in questione non tocca, ovviamente e soprattutto, l’ingannevole ma divertente tema olfattivo, ma quello dello stalking: infatti, la Mondini nella sua denuncia tira in ballo cinque persone, giornalisti – dirigenti del telegiornale dell’ammiraglia.

Nel 2018 questi avrebbero progettato un piano per ridimensionare la giornalista con la decisione di metterla in stanza con un collega che non riesce a “trattenersi”. Una mossa che ha provocato la reazione di Monini, che ha opposto un rifiuto “motivato all’ordine di servizio”, ovvero non si sistema in stanza con il collega.

Da quel momento al mezzobusto del TG1 sono stati affidati servizi breve e definiti banali; inoltre, la stessa ha denunciato una serie di violente aggressioni verbali a causa di piccoli errori durante la conduzione del telegiornale.

Tornando al collega molestatore, non possiamo non pensare che per chi è ancora in ufficio sta per arrivare il momento fatidico dello scontro: il termostato del condizionatore.

Lo scompiglio dell’estate tra calura e ricerca del refrigerio porta spesso a liti: forse, Putin ha risolto un problema, “condizionandoci” a regolare la temperatura su una gradazione precisa.

E poi si litiga per il cibo mangiato in stanza, per il cattivo odore dell’alito, perché qualcuno si porta la scia di una sigaretta addosso e permea i muri e le scrivanie, per il parlare troppo acceso e con toni alti a telefono, perché qualcuno fa troppo e qualcun altro non fa nulla.

Insomma, il teatro del lavoro non conosce soste, anche se il canovaccio è sempre lo stesso. Si dice che ci si scontra in ufficio almeno 7 ore a settimana. Quasi un’intera giornata lavorativa da full time. Lo ha riportato un’indagine condotta da Robert Half, società di recruiting specializzato. I dipendenti, ogni settimana, passano più di due ore a litigare, con il risultato che ogni lavoratore, nella propria vita, trascorre ben 385 milioni di giorni sommerso dalle discussioni.

E oggi in smart working si continua a litigare comunque in call, in video, su Zoom o Teams, su WhatsApp magari molestando l’altro con vocali che vanno oltre una normale partita di padel.

Alla fine, il collega è il nostro contraltare: quello che non vorremmo essere ma che, in fondo allo specchio della nostra esistenza, siamo per una mera questione di sopravvivenza.

Quel genio del Villaggio aveva capito bene, magari non prima di tutti, ma aveva reso in maniera emblematica la lobby del collega molestatore subissandolo in una pantomima di orrore e nefandezza quotidiana, allegoria perfetta dell’arrendevole inchino del servo al suo padrone e ai suoi subdoli cari pari livello.

Verrebbe voglia di fare una pernacchia per difenderci da questi omologhi delle nostre ombre, dei nostri “insopportabili” fantasmi, ma sappiamo bene che ci sarà sempre qualcuno dall’altra parte del telefono che ci risponderà indispettito “Fantozzi, è lei?””.

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Autore Massimo Frenda

Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.