Sovrano è chi decide sullo stato d’eccezione.
Carl Schmitt
La pandemia che ci sta colpendo non è certa la prima e, con molte probabilità, non sarà l’ultima.
Essa è riuscita ad evidenziare una serie di criticità le cui soluzioni non sono attuabili nel breve tempo ma richiedono una struttura e una programmazione coerente alle urgenze, al fabbisogno e, soprattutto, alle risorse economiche di cui si è in possesso.
Va da sé che la soluzione di qualunque problema obbliga una tenuta di umiltà nell’identificazione dei limiti e delle competenze per consentire di approfondire le cause e facilitare una focalizzazione completa oltre che l’individuazione degli enti, delle organizzazioni e delle persone che possano facilitare l’adeguato e doveroso rimedio e, allo stesso tempo, seguirne gli sviluppi e le ideali soluzioni da adottare.
La ricaduta dell’epidemia sulla nostra società politica ed economica rappresenta una variabile non prevista tra quelle che potevamo tenerne in conto: guerra, conflitti sociali, rovesciamenti delle democrazie fino anche a crack finanziari derivanti da bolle economiche esponenziali.
Questa lista la si poteva allungare abbracciando diversi compartimenti ma, immagino, pochi avrebbero individuato in un virus un elemento disturbatore atto a complicare, se non a ribaltare, il già complesso quadro geo-politico ed economico.
Per quanto la diffusione ora paia sotto controllo, è lapalissiano che il meccanismo sia saltato e, oggi, ci troviamo a fronteggiare un post-epidemia che merita più che approssimazione un contributo e una partecipazione ampia di tutte le classi, affinché avvenga una ricostruzione – rinascita della vita pubblica e delle attività economiche quanto più rapidamente ma, soprattutto, quanto più coerente alle reali necessità.
Sono state revocate molte restrizioni ma la parola normalità è ancora, a mio avviso, una conquista. È una sfida che richiede paziente abnegazione e una valutazione del proprio operato individuale anche perché stiamo accedendo ad una nuova fase della crisi che colpisce senza alcuna disuguaglianza tutti i Paesi.
Il cocente rischio di una destabilizzazione del sistema economico mette a dura prova ogni tentativo di investimento sul sistema sanitario e sui processi di digitalizzazione.
Per riprendersi è necessaria l’introduzione di una notevole quantità di denaro pubblico che non trova riscontri nel passato. Parallelamente, come è stato più volte sottolineato, il gettito fiscale dei nostri si sta riducendo gravemente in conseguenza della crisi.
In questi momenti occorre che l’intento comunitario sia quanto più efficacemente proiettato ad un allineamento sulla strada da intraprendere, una mancanza di unità di intenti comporterebbe scenari di elevata criticità con un drammatico indebolimento della governance e un possibile annebbiamento delle direttive da fornire. Crescerebbe la sfiducia e il fervore bieco-populista avrebbe una sferzata di sopravvivenza e di sopravvento.
Oggi la politica dell’Unione Europea è poco reattiva ma, sicuramente, attendista. Le logiche di supervisione collimano con il parere democratico delle istituzioni ma si scontrano, perdendo forza ed elasticità, con il furore ideologico della massa che vede nella cieca visione populista un filo su cui riavvolgere il nastro delle proprie speranze.
In discussione non c’è l’Unione Europea ma il sistema e l’idea stessa dell’Europa. A pensarci bene, il Covid-19 ha rovesciato le poche certezze, gli schemi e i riti a cui eravamo abituati o sottoposti da anni.
Oggi è poco plausibile, sebbene forzatamente cercato, che questa disgrazia si muti in una concreta opportunità.
Questa Europa, vale la pena raccontarlo, dovrebbe disporre mille miliardi per finanziare investimenti pubblici e privati per i prossimi dieci anni, stimolando, soprattutto, quelli nel settore cosiddetto “green” che combatta i cambiamenti climatici; altri cinquecento sessanta miliardi diventeranno contributi a fondo perduto per i danni generati dalla pandemia, recovery fund.
Teniamo conto che a livello mondiale abbiamo perso novemila miliardi di dollari circa del PIL, il 2%, con una previsione del meno 3%, il peggiore insieme a quello avvenuto nella recessione del 1930. Solo l’Italia potrebbe chiudere con un – 9,5% dell’incidenza sul PIL.
E così che dentro al Parlamento Europeo è nata un’alleanza globale composta da Ministri di 11 Paesi, eurodeputati, amministratori delegati, associazioni di imprese o confederazioni sindacali, e le più grandi ONG per il rilancio dell’economia con un modello più sostenibile e vicino al nuovo versante verde. Non basta, ovviamente.
Pur muovendoci con tempestività ed incisività, nel corso dell’anno l’economia dell’UE subirà una recessione a causa del grave shock economico. Secondo le previsioni economiche di primavera, l’economia dell’UE dovrebbe contrarsi del 7,5% nel 2020 e crescere di circa il 6% nel 2021. Le proiezioni di crescita per le economie dell’Unione Europea e l’area dell’euro sono state riviste al ribasso del 9% rispetto alle previsioni economiche dell’autunno 2019.
L’epidemia ha colpito tutti gli Stati membri dell’Unione ma, secondo le ipotesi, sia il calo della produzione nel 2020, dal -4,25 % in Polonia al -9,75 % in Grecia, che l’ampiezza del rimbalzo nel 2021 saranno marcatamente diversi.
La ripresa economica di ciascuno Stato membro dipenderà dall’evoluzione della pandemia a livello nazionale, nonché dalla struttura dell’economia e dalla capacità dello Stato di rispondere con politiche di stabilizzazione.
L’Europa è chiamata a scongiurare ogni atteggiamento irresponsabile che possa generare l’aumento delle imposte per battere il debito; un rischio che non va trascurato, almeno per l’immediato.
Qualcuno, a giusta ragione, ha osservato che molto della necessaria liquidità potrebbe essere rintracciata negli atolli liberi della criminalità finanziaria, nella ricerca scrupolosa e infinita di chi froda lo stato non pagando i tributi previsti o sfruttando logiche e cavillosi deturpamenti normativi per raggirare la legge fiscale ed ottenere il massimo con il minimo e deplorevole sforzo.
Una politica fiscale dura ed uniforme in tutti i Paesi contribuirebbe molto al recupero delle risorse utili e consentirebbe ad una pletora di farabutti in giacca e cravatta di truffare. Un piano efficiente per circoscrivere i proventi derivanti da attività criminali farebbe crescere la sicurezza dei cittadini e delle aziende oneste.
Combattere il riciclaggio di denaro genererebbe maggiori entrate pubbliche. Per ottenere questo l’Europa dovrebbe lavorare sulla cooperazione degli Stati, promuovere una regolamentazione e una vigilanza autoritaria, autonoma e giuridicamente riconosciuta da tutti.
Tutto il resto diverrebbe distorsione pura. La trasparenza e l’antiriciclaggio sono alla base di una politica decisionale ma, al contempo, multilaterale. È una delle soluzioni praticabili ma, ovviamente, non è la panacea dei mali.
Le risorse non sono sfruttate al meglio: i modelli di business che ci hanno sedotto per anni si sono rivelati, gioco-forza, fragili o confusionari, mettendo a repentaglio il portafoglio di famiglia prima che quello dell’impresa.
Anche in questa visione la chiave di lettura sta nella progettazione e nella organizzazione: trattati e accordi fiscali devono sviluppare la difesa del reddito non il suo indebolimento, disciplinare regimi speciali permetterebbe la conservazione e il progresso delle minoranze e/o dei Paesi in via di crescita e/o in difficoltà.
Servirà un codice di condotta irreprensibile, garantendo l’adeguamento ed il livellamento, non esasperando un progetto di meritocratico sviluppo, galvanizzando una strategia di interesse che dia risalto anche alle microeconomie locali che hanno il pedigree della sostenibilità.
L’attivazione di strumenti dal carattere emergenziale non può essere a lungo performante e, chiaramente, è tendente al breve tempo. Nessun Paese può permettersi il lusso di ricostruire senza una solida programmazione, sperimentando alternative e modalità di finanziare le proprie casse finora risultati infruttuosi o poco lucidi.
Vanno affrontati i problemi strutturali che sono alla base delle criticità perenni e va affidata la dinamica delle produzioni alle imprese in grado di investire e rendere pieno il sostegno all’occupazione e alla promozione della competitività.
L’emergenza Covid-19 ha, con molte probabilità, modificato radicalmente le nostre prospettive e aspettative sul futuro; quello che temiamo oggi, forse più di un aumento dei contagiati, è lo tsunami economico che possa semplicemente annientare l’economia.
Nell’ordine di questa tragica spada di Damocle, l’intero corpus dell’UE si sta muovendo sotto i riflettori con il terrore dell’equilibrista che sotto non vede la rete.
La risposta fornita, in prima istanza, ha visto una piena flessibilità delle norme di bilancio, con la volontà di rivedere le proprie leggi per aiutare gli Stati. Sono misure di ampia portata, come sono state definite, per mobilitare ogni euro del bilancio dell’UE per proteggere vite umane e tutelarne il sostentamento. Ma la flessibilità che si attende è quella che consentirebbe ad ogni Paese di introdurre regimi di garanzia e sistemi di liquidità supplementare.
Una libertà che non va intesa come uno “scialapopolo” di caratura bieca e atta a far mangiare al popolo “la brioche”. Una liquidità alle imprese colpite dalla crisi per un risanamento di risposta, oltre che contribuire a sostenere i redditi delle famiglie e a preservare la capacità produttiva e il capitale umano delle aziende.
Da quest’azione alla salvaguardia della occupazione, azzerando il precariato e facilitando la qualificazione, il passo non è assolutamente né breve né facile.
Vanno fatti investimenti mirati in tutti i campi: la crisi, ad esempio, ha fortemente sottolineato l’urgenza di investire nei servizi pubblici e nel sistema di protezione sociale. Vanno promosse iniziative che rendano più innovative le forme di lavoro assicurando opportunità occupazionali eque, sicure e con salario adeguato ai costi della vita.
Teniamo conto anche del quadro pre-Covid in Italia: l’occupazione era in frenata ed il ricorso alla Cassa integrazione guadagni in forte crescita già prima dell’emergenza sanitaria. Nei mesi iniziali dell’anno in corso, prima che il virus dilagasse, gli occupati erano diminuiti, -0,4 per cento nel bimestre gennaio – febbraio rispetto al quarto trimestre del 2019, per effetto della caduta sia del numero dei dipendenti permanenti, -0,3 per cento, per la prima volta dal terzo trimestre del 2018, sia degli autonomi.
Uno dei passaggi chiave è la stabilizzazione dei lavoratori e dei contratti a tempo determinato, vincolando l’azienda che potrebbe ricorrere ai benefit di integrazione e supporto economico per l’estensione. Una compensazione che consentirebbe occupazione e investimento contemporaneamente. Magari favorendo quelle imprese che hanno visto colpito il proprio settore, tipo quelle turistiche e culturali, di ristorazione, tessili e agroalimentare, oltre che quello delle esportazioni.
L’UE non può tirarsi indietro, soprattutto in un momento politico che sente il furoreggiare dei movimenti populisti e nazionalisti che, inneggiando alla Brexit, promuovono ed inneggiano all’uscita del loro Paese dall’Unione, spesso vista come copertura dei grandi poteri occulti.
Tacciata di oscurantismo austero, sotto il quale si celerebbe una politica ammazza-stati capeggiata dagli stati padroni e pappaeciccia come la Germania e la Francia.
Fautrice di una politica di assedio, colpevolizzata di aver tagliato o promosso o indirizzato il taglio dei servizi sanitari nazionali per scongiurare ulteriori deficit, immobilizzata da un metodo salva-bilanci e vissuta da un incolto popolo senza approccio ideologico e impolitico che coltiverebbe una sbiadita idea dell’Europa Nazione di Mosley e Strasser, morta Giovane con il movimento di Jean Thiriart.
Vista come schiava delle lobby a struttura capitalistica, confusa nello schema cinico dei suoi regolamenti poco consapevoli della loro stessa vulnerabilità.
Non si può discutere solo di Eurobond e MES, non si possono solo fornire centinaia di suggerimenti agli Stati membri in favore del rispetto virtuoso del Patto di stabilità, bisogna spingersi oltre, per scongiurare che lo stato di indecisione di Bruxelles si riveli una bomba ad orologeria già innescata e pronta a deflagrare. Perché la fine di questa Europa sarebbe la fine di qualsiasi altra concezione dell’Europa.
Autore Massimo Frenda
Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.