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Estate

estate


In quelle estati che hanno ormai nel ricordo un colore unico, sonnecchiano istanti che una sensazione o una parola riaccendono improvvisi, e subito comincia lo smarrimento della distanza, l’incredulità di ritrovare tanta gioia in un tempo scomparso e quasi abolito.
Cesare Pavese

Guardiamo a questa estate così diversa, così intrisa di attese: combattuta tra un ribelle mai adattarsi alla dormiente stagione e la voglia di abbandonarsi ad una letargia voluttuosa.

L’estate non fa mai rima con la parola rivoluzione, l’estate è il periodo del dolce dimenticarsi. È un riposizionamento dell’anima: quel trasversale vedere fuori il mondo da un intimistico viaggio che ci porta lontano da chi siamo veramente. Sorge il presentimento e mai la consapevolezza.

Tutto sale in estate verso il cielo: l’acqua che evapora, gli spiriti di natura; gli stessi aneliti degli uomini si elevano al cielo come fiamme che si liberano da un rogo. La terra nella sua parte estiva si apre come un fiore agli spazi siderali. Il mondo è rinascita e voglia di scoprirsi.

Pare assurdo ma dietro ad un esercizio, poco flessibile, di auto-impegni che ci siamo creati vi è il caos: vorremmo e potremmo ma l’estate è la stagione dell’addio facile ad ogni missione che ci hanno affidato e ad ogni desiderata che ci siamo imposti. Eppure, è il periodo dell’anno dell’abbondanza, della forza di volontà. La terra si rigenera, assorbiamo le energie dal sole che ci sovrasta e camminiamo scalzi per sentirci selvaggi e per vivere le profondità del terreno.

Se portiamo il nostro sguardo in meditazione verso il basso, avvertiamo le divinità celate: la dea madre di ogni esistenza, Demeter, la chiamavano gli antichi. È la divinità buona che rinsalda la materia sulla quale l’uomo nasce, cammina, opera e alla fine depone il suo corpo. Quando il grano biondeggia nei campi, anche gli uomini moderni possono rammentare della feconda madre di ogni esistenza.

Tornando ai nostri tempi, ricordiamo che Gesualdo Bufalino era innamorato dell’estate: uno dei suoi personaggi più famosi, Argo il cieco, rivela di essere stato felice in una estate, salvo poi ricordare che «la quinta stagione», con un sole che è «un occhio di Dio», è «un responso di vita e di morte, metà estasi, metà spavento; il senso di una riconquistata fedeltà alla terra, ai suoi violenti e leggendari succhi di madre».

Niccolò Ammaniti la descrive che ti senti il formicolio del calore nelle ossa:

Il calore entrava nelle pietre, sbriciolava la terra, bruciava le piante e uccideva le bestie, infuocava le case. Quando prendevi i pomodori nell’orto, erano senza succo e le zucchine piccole e dure. Il sole ti levava il respiro, la forza, la voglia di giocare, tutto. E la notte si schiattava uguale.

Una canicola letteraria che ti fa estraniare, diventa un panico termico che procura sensazioni poco gentili. Tanto vero che i greci parlavano di ora “panica”, facendo riferimento a quell’atmosfera di sospensione che accompagna l’ora meridiana, nella quale essi avvertivano la manifestazione del dio Pan.

Altro autore, Pier Vittorio Tondelli la racconta così:

… Faceva caldo, probabilmente attorno ai trentacinque-trentasette all’ombra. E questo caldo appiccicoso e denso, un caldo sporco, praticamente nient’altro che la traspirazione evaporata nell’atmosfera di quelle decine e decine di migliaia di bagnanti che in quello stesso momento prendevano il sole sulla striscia di sabbia della riviera, ecco, un caldo umano, non un caldo puro, e per questo già istintivamente insopportabile…

L’estate è un luogo musicale, filmografico, artistico, letterario, dalla consistenza liquida non più solida del fumo e dell’amore, ma che tanto peso ha nella vita quotidiana.

La stagione inizia in un giorno che è detto “solstizio”, cioè da sol– e -sistere, o da stare, che preferisco, in pratica il giorno in cui il sole si ferma: nel suo moto apparente.

Questa apparenza è il corpus della stagione: la sua precaria odiosa felicità quasi forzata, dovuta, tenacemente pretesa. Come se la vita aprisse una parantesi nella quale far sparire tutto di sé per quei mesi di calura assassina.

Al contempo, dobbiamo virtualizzare una verità: quando contempliamo il cielo infuocato dell’estate e l’incantevole armonia delle stelle si assicura nelle menti la percezione di quella grande intelligenza cosmica che regola le leggi di natura e rivela il suo potere creativo nelle infinità di forme vegetali, animali che fioriscono sulla terra, crescono, si ramificano.

E durante una estate Friedrich Nietzsche ha l’intuizione dell’eterno ritorno nel 1881: mentre passeggia, Nietzsche ha questa immagine del tempo che lo spaventa e lo attrae, l’immagine dell’eterno ritorno, visto che il mondo è composto da un numero infinito di elementi che non si creano e non si distruggono, poiché si parte dall’ipotesi che Dio non esista, e allora per forza di cose questi elementi dovranno riaggregarsi nella stessa maniera per un numero infinito di volte.

E così che il filosofo si innamora del proprio destino fino ad accanirsi e sfidarlo, riesumando l’intollerabile ipotesi dell’eterna ripetizione, come una conquista che avvicinava l’uomo non alla verità ma alla realtà del suo passaggio terreno.

L’estate è spirito: denso annullamento della materialità e paradossalmente ricerca affannosa dell’avere sfruttando il solo essere. Sembra fondersi con la natura: è un meccanismo di riflessione interna che pervade l’animo umano, sembriamo tanti Frankestein che cercano di sfuggire al controllo del suo creatore. Ci scopriamo indifesi e ci arrochiamo in schemi confusi in preda a regole che sovvertono ogni meccanismo che ci siamo costruiti nel tempo.

L’estate è questa follia passeggera, dove si ha bisogno di cogliere il mistero e il fascino di ogni cosa: in questo girotondo di yang e ying dove l’equilibrio è danzante tra le due opposte polarità. Un cammino esoterico che l’estate spesso ci consente consentendoci di abbandonare la deviazione egoistica che ci permea e ci distrugge.

Un’intuizione che ci apre le porte del cielo e della dimensione soprannaturale: sentiamo il bisogno di emanciparci e di percepire misticamente di essere circondato da entità e forze che vanno oltre i confini della nostra conoscenza biecamente razionale. Questa è l’estate che viviamo quando non è ostaggio di convinzioni sterili e quando ci abbandoniamo a ritrovarci.

È una purificazione inattesa ma che ci permette di rivedere il quadro della nostra vita con maggiore nitidezza: un confronto urgente che facciamo con la nostra esistenza, senza abusare di intollerabili processi a chi siamo e senza perdere l’identità che ci siamo inventati. Ecco, l’estate che odora di miti, leggende e culti.

E non a caso questa è una condizione sia fisica sia psicologica insieme, la si avverte nei giorni in cui si consuma e muore la primavera con il suo carico di fiori sfatti e deflagra l’estate nel trionfo della morbidezza dei frutti, quasi a voler esprimere anche la crescita, lo sviluppo ed il cambiamento dell’essere umano nella sua freschezza e nella conquista dell’esuberanza matura, a dimostrazione che la natura ha un’anima e che c’è sinergia/sintonia tra uomo e natura e che varia con il variare delle stagioni.

Un viaggio nel proprio tempo, diventiamo Ulisse nel suo percorso iniziatico verso il nuovo ciclo che la vita ci riserva nel cosmo che diviene il nostro nuovo tempio. Per molti, ma non per tutti, è d’obbligo correre attraverso i segni della natura e dell’universo nel quale la stessa è contenuta, percorrere metafore e letture in chiave simbolica di tutto ciò che a lui si appalesa in fenomeno.

Questo è il periodo dell’anno che colleghiamo al mare e allo svago: errore grave ridimensionarlo in questa stereotipata immagine. È un banale luogo comune che rapporta questa stagione all’amore breve, ai tradimenti, al relax e al sole. Comune degrado di un senso della cultura nazional-popolare che ci sta tutta se non lo facciamo diventare il perno del nostro discorso e del nostro pensiero. Va perimetrata questa banalizzazione festivaliera.

L’estate può rivelarsi un’operazione maieutica, dove possiamo cominciare a vivere il cosmo in una simbiosi genuina e possedere i riverberi celesti con maggiore assiduità e direi anche cupidigia.

Il valore dell’estate ce lo portiamo dentro: quando ci appartiamo mentre il sole cala avvistando all’orizzonte la nostra barca muoversi dalla riva verso il mare aperto in cerca di qualcosa che ci apra il cuore. Diventa il desiderio di un’unione più intima con l’io che non deve smettere mai di investigare, come affermava Aristotele.

In questo processo di dimensionamento l’uomo è tutto nel suo universo e arriva ad essere più consapevole della bellezza del ciclo della natura, traducendo in uno studio riservato le sue contemplazioni e, perché no, anche i suoi fantasmi. In questo periodo facciamo, paradossalmente, ritorno alla nostra origine: cercando da dove siamo partiti la verità del futuro e accorgendoci che spesso il mondo reale e spirituale sono fuori alla nostra porta ad attenderci. Non servono chilometri per arrivare alla destinazione attesa.

Di fronte a questo miracolo che rincomincia, che si manifesta nella sua potenza, tutto inaspettatamente si ridimensiona, tutto prende nuove proporzioni; ciò che appariva significativo diventa superfluo, ciò che si era bistrattato diventa essenziale, ma ciò non deve mutare o cambiare la nostra prospettiva, siamo e restiamo sempre nelle stesse dimensioni di prima nel bene e nel male. Solo più consapevoli che il miraggio è diventato un viaggio vero e proprio.

In estate si diventa giovani perché, pur appassendo nel tempo che ci è donato, riusciamo a rinvigorire approfondendo chi siamo con maggiore voracità. Senza abbandonarsi alla nostalgia e senza trascurare mai l’urgenza di ricordare quel viaggio dove e quando è cominciato. Ecco, questa è l’estate che non sa di trenini e karaoke, di flirt scomposti e di balli sfrenati.

L’estate è anche ricerca dell’ombra per sfuggire alla troppa luce che non sappiamo sopportare e che la nostra anima, invece, riflette per consentirci di riprendere in mano il filo della nostra esistenza, spesso sbiadita dagli inverni che le costringiamo a vivere, rincorrendo una felicità precaria e mai teneramente vera.

Luce diffusa, splendore. L’estate è essenziale e costringe ogni anima alla felicità.
André Gide 

Autore Massimo Frenda

Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.

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