Vivere per se stessi o per gli altri?
Nel 1976 Erich Fromm individuò un’alternativa tra avere ed Essere.
L’aut-aut tra avere ed essere non è un’alternativa che si imponga al comune buon senso. Sembrerebbe che l’avere costituisca una normale funzione della nostra esistenza, nel senso che, per vivere, dobbiamo avere oggetti. Inoltre, dobbiamo avere cose per poterne godere. In una cultura nella quale la meta suprema sia l’avere – e anzi l’avere sempre più – e in cui sia possibile parlare di qualcuno come una persona che «vale un milione di dollari», come può esserci un’alternativa tra avere ed essere? Si direbbe, al contrario, che l’essenza vera dell’essere sia l’avere; che, se uno non ha nulla, non è nulla.
Erich Fromm – Avere o essere?
Fromm pone una domanda molto importante; quali sono le modalità attraverso le quali l’uomo si realizza, o almeno crede di farlo?
Il sociologo tedesco individua due strade, un aut-aut tra essere ed avere appunto.
Un dualismo che ben fotografava la società che a metà degli anni ’70 era ancora immersa nel flusso del consumismo.
La citazione di Fromm dall’incipit di ‘Avere o Essere?’ è palese. ‘Aut-aut’ è l’opera in cui Søren Kierkegaard pone una contrapposizione tra due modalità di vita, quella estetica e quella etica.
Ma cosa vuol dire vivere esteticamente e cosa vuol dire vivere eticamente? Cosa è l’estetica nell’uomo, e cosa è l’etica? A ciò risponderò: l’estetica nell’uomo è quello per cui egli spontaneamente è quello che è; l’etica è quello per cui diventa quello che diventa. Chi vive tutto immerso, penetrato nell’estetica, vive esteticamente.
Søren Kierkegaard – Aut-aut
Nell’opera del filosofo danese il concetto di divenire è centrale. L’uomo che realizza l’essere è quello che dubita e attraverso il dubbio diviene.
Per dubitare occorre del talento, ma per disperare non ne occorre affatto. Ma il talento come tale è una differenza, e quello che per farsi valere esige una differenza, non sarà mai l’assoluto; perché l’assoluto può solo essere l’assoluto per l’assoluto.
Søren Kierkegaard – Aut-aut
Un parallelismo tra i due autori sembra scontato, la vita estetica come avere, la vita etica come Essere.
La maggior parte degli uomini vive per avere il pane quotidiano; quando l’ha avuto vive per avere un buon pane quotidiano; e quando ha ottenuto anche questo, muore.
Søren Kierkegaard – Aut-aut
Anche per Kierkegaard la modalità prevalente è quella dell’estetica – avere.
Un altro interessante parallelismo lo potremmo senza dubbio ritrovare in Friedrich Nietzsche, che individua in due divinità, Dionisio e Apollo, altrettante strade di vita.
Interessante perché, apparentemente, Nietzsche, nel suo sbilanciarsi verso il dionisiaco, sembra propendere per una modalità estetica di esistenza.
I Greci, che esprimono e in pari tempo nascondono nei loro dèi la dottrina segreta della loro visione del mondo, hanno eretto a duplice scaturigine della loro arte due divinità: Apollo e Dioniso. Questi due nomi rappresentano, nel regno dell’arte, due stili opposti. Essi procedono l’uno accanto all’altro, quasi sempre in lotta tra loro, e solo una volta, nel momento della fioritura della «volontà» ellenica, appaiono fusi: nell’opera d’arte della tragedia attica. In due diversi stati, in effetti, l’uomo raggiunge il sentimento estatico dell’esistenza: nel sogno e nell’ebbrezza. La bella parvenza del mondo del sogno, in cui ogni uomo è pienamente artista, è la madre di ogni arte figurativa e, come vedremo, anche di una metà importante della poesia. Noi godiamo della comprensione immediata della figura, tutte le forme ci parlano; non c’è niente di indifferente e di non necessario. Ma anche nella vita più fervida di questa realtà di sogno, abbiamo ancora una sensazione balenante della sua illusorietà; solo quando questa cessa cominciano gli effetti patologici, in cui il sogno non ristora più e la forza risanatrice naturale di quello stato viene meno.
Friedrich Nietzsche – La visione dionisiaca del mondo
Il pensiero di Nietzsche è molto complesso, e non ci interessa approfondirlo in questa circostanza. Ci limitiamo a dire che nell’apollineo il filosofo individua una spinta alla razionalizzazione che tenta di rendere ordinata una realtà che, in definitiva, sarebbe caos, sfociando nella sofferenza, nel pessimismo, sottraendo l’uomo dall’immergersi nel flusso della vita.
Siamo ignoti a noi medesimi, noi uomini della conoscenza, noi stessi a noi stessi: è questo un fatto che ha le sue buone ragioni. Non abbiamo mai cercato noi stessi – come potrebbe mai accadere che ci si possa, un bel giorno trovare? Non a torto è stato detto: «Dove è il vostro tesoro, là è anche il vostro cuore»; il nostro tesoro è là dove sono gli alveari della nostra conoscenza. A questo scopo siamo sempre in cammino, come animali alati per costituzione, come raccoglitori di miele dello spirito, e soltanto un’unica cosa ci sta veramente a cuore – «portare a casa» qualcosa. Del resto, per quanto riguarda la vita, le cosiddette «esperienze» – chi di noi ha anche soltanto una sufficiente serietà per queste cose?
Friedrich Nietzsche – Genealogia della morale
La conoscenza come tesoro che porta all’oltre uomo.
Il mondo vero lo abbiamo eliminato: quale mondo è rimasto? quello apparente, forse?… Ma no! Col mondo vero abbiamo eliminato anche quello apparente!
Friedrich Nietzsche –
Il crepuscolo degli idoli
Giochiamo con questa citazione del filosofo tedesco, la prendiamo in prestito per giungere ad un ulteriore dualismo, quello tra essere e apparire.
Nel mondo del tempo reale, di internet, dei social e dell’immagine, è secondo noi il nuovo aut-aut di fronte al quale si trova l’uomo contemporaneo, laddove l’apparenza si contrappone all’essere come in passato e nei diversi autori troviamo l’estetica, l’avere.
Ci sono individui composti unicamente di facciata, come case non finite per mancanza di quattrini. Hanno l’ingresso degno d’un gran palazzo, ma le stanze interne paragonabili a squallide capanne.
Baltasar Gracián
L’importante diventa non più avere, ma l’apparenza dell’avere. Non più l’essere, ma l’apparenza dello stesso.
Il mondo è governato più dall’apparenza che dalla realtà ed è meglio far mostra di sapere qualcosa che saperlo.
Daniel Webster
Contrapposizione già posta in passato, se si considera che Webster è vissuto a cavallo tra XVIII e XIX secolo.
Stava bevendo in modo avido la realtà che lo circondava, e cercava di trattenerla, di afferrarla, di intrappolarla per sempre nelle foto che stava scattando. Si proponeva di fissarla per sé e per le persone che facevano parte della sua vita. Si rendeva conto che però nessuna foto avrebbe mai potuto catturare quello che lo circondava nella sua complessità. Nessuna foto avrebbe mai conservato l’aria fresca che veniva dal lago e che gli sfiorava il viso, gli odori che quell’aria gli portava, di una primavera che quell’anno era arrivata in anticipo, dei ristoranti che si preparavano ad accogliere i primi clienti, oppure il verso delle anatre. Nessuna foto avrebbe mai conservato l’animazione di quello che lo circondava, l’ondeggiare dei rami degli alberi che circondavano il lago, il volo degli uccelli che lo sorvolavano, il sole che piano scendeva ad occidente colorando tutto di incredibili sfumature di rosso. Quando prese a rivedere le foto che aveva scattato attraverso il display della fotocamera si accorse che anche quello che avrebbe voluto cogliere di visivo, anche quello che si aspettava di fermare era ridotto ad una copia sbiadita di quello che aveva visto.
Ripose la macchina fotografica nella custodia.
Erano i suoi sensi quelli che solo potevano cogliere in modo compiuto ciò che lo circondava, era la sua coscienza che poteva conservare con il massimo della fedeltà possibile l’esperienza.
Alzò la testa nella brezza perché il suo viso potesse sentirla con ogni suo poro, respirò profondamente, per poter cogliere ogni sfumatura degli odori che gli arrivavano, sgranò gli occhi a voler abbracciare una parte quanto più ampia possibile di quanto lo circondava.
Pietro Riccio – La stanza bianca
Non è questa, forse, una tendenza diffusa? Fissare qualcosa quasi che sia l’unico modo per renderla reale. Prima dell’avvento dei social senza foto da mostrare agli amici una vacanza, un evento sembrava che non fossero esistiti. La foto testimoniava che c’eravamo stati. Che eravamo in quel momento, in quel posto, in compagnia di qualcuno.
Ma c’eravamo veramente stati? O ci stavamo solo preoccupando di fissare l’apparenza, di cristallizzarla nelle foto piuttosto che vivere davvero l’hic et nunc, come stava capitando al protagonista della citazione precedente.
Dalla foto ai social il passo è breve. La foto il cui sviluppo si attendeva a volte per settimane adesso è amplificata dal tempo reale. Adesso possiamo dire che siamo, in quel momento, in quel posto, con quelle persone che magari tagghiamo in una spasmodica ricerca di un falso essere che si estrinseca nell’apparire e nell’apparenza.
Il primo eroe dell’apparire è stato l’imbecille che andava a mettersi dietro agli intervistati e agitava la manina. Ciò gli consentiva di essere riconosciuto la sera dopo al bar (“Lo sai che ti ho visto in TV?”), ma certamente queste apparizioni duravano lo spazio di un mattino. Quindi gradatamente si è accettata l’idea che per apparire in modo costante ed evidente occorresse fare cose che un giorno avrebbero fruttato la cattiva reputazione. Non che non si aspiri anche alla buona reputazione, ma è faticoso conquistarla, dovresti aver compiuto un atto eroico, aver vinto se non il Nobel almeno lo Strega, aver passato la vita a curare i lebbrosi, e non sono cose alla portata di ogni mezza calzetta. Più facile diventare soggetto di interesse, meglio se morboso, se si è andati a letto per denaro con una persona famosa, o se si è stati accusati di peculato.
Umberto Eco
E perdiamo l’attimo, ci preoccupiamo di apparire, dell’apparenza, e nel tentativo di cristallizzarlo in qualcosa di esterno, di estetico, ci dimentichiamo di viverlo.
La domanda di questo scorcio di terzo millennio diventa Essere o apparire?
Ci interessa l’esperienza piena del presente o il simulacro che ne proponiamo agli altri?
Ci interessa essere felici, e magari tenercelo per noi stessi, o dimostrare una felicità fasulla fatta di sorrisi ipocriti e di emozioni fotoritoccate?
Anche una felicità reale, fatta spesso di attimi, ci sembra completa se è per noi stessi, o dobbiamo necessariamente condividerla con chi non è parte di quella felicità?
Dunque, siamo per noi stessi o per gli altri, per quello che gli altri pensano o debbano pensare di noi?
Non sono, le apparenze, in definitiva finzioni, illusioni?
Le illusioni, in quanto non autentiche, non rischiano di lasciarci con un senso di vuoto, per quanto sia stato gratificante esibirle dando loro una parvenza di reale?
Cadono,
uno per uno,
gli ambigui veli
di apparenze fallaci,
come malinconiche foglie
che più non coprono
le imbarazzate intimità
di disadorni rami.
Cadono infranti,
come attese deluse,
ormai consunti
da gesti incolori,
al fine logorati
da perenni tedi,
lacerati e smessi
da futili realtà.
Nuda,
l’essenza
desolata appare,
come gelide emozioni
private dell’anima,
inutile specchio
che solo riflette
frammenti
di assenza.
Autore Pietro Riccio
Pietro Riccio, esperto e docente di comunicazione, marketing ed informatica, giornalista pubblicista, scrittore. Direttore Responsabile del quotidiano online Ex Partibus, ha pubblicato l'opera di narrativa "Eternità diverse", editore Vittorio Pironti, e il saggio "L'infinita metafisica corrispondenza degli opposti", Prospero editore.