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Elogio dell’oblio

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Oblio


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«Vede Watson», spiegò Sherlock Holmes, «secondo me, in origine il cervello umano è come un attico vuoto che uno deve riempire con i mobili che preferisce.

Uno sciocco assimila ogni sorta di ciarpame gli viene a tiro, così che le nozioni che potrebbero essergli utili vengono spinte fuori o, nella migliore delle ipotesi, accatastate alla rinfusa insieme con un’infinità di altre cose, di modo che ha difficoltà a ritrovarle. Un operaio abile, invece, sta molto attento a ciò che immagazzina nel suo attico – cervello. Non vi metterà altro che gli strumenti che possono aiutarlo nel suo lavoro, ma di questi strumenti ne ha un vasto assortimento, e tutti in perfetto ordine. È sbagliato pensare che quella piccola stanza abbia pareti elastiche che possono allargarsi a piacimento. Creda a me, viene sempre un giorno in cui ogni nozione in più gliene fa dimenticare un’altra che aveva prima. È estremamente importante, quindi, che le nozioni inutili non estromettano quelle utili».
Sir Arthur Conan Doyle – Uno studio in rosso

L’Arte della memoria è un’arte molto antica e già Cicerone, nel De oratore, si diffondeva sull’argomento, muovendo dalla leggenda del suo inventore, il greco Simonide di Ceo il quale, scampato al crollo di una sala dove molti invitati consumavano un banchetto, seppe ricostruire l’identità di tutti i corpi resi irriconoscibili dalle lesioni riportate, sulla base della loro posizione.

L’arte della mnemotecnica consiste appunto nell’associare luoghi e immagini, preventivamente memorizzati, a ciò che si vuole ricordare. Questa tecnica conduceva a risultati prodigiosi e lo stesso Cicerone riferisce che chi la padroneggiava, dovendo assistere a un processo della durata di alcune ore, avrebbe saputo ripetere con precisione tutte le parole pronunciate da imputati, avvocati e accusatori, sia nell’ordine in cui erano state dette, sia nell’ordine inverso.

Del resto, alcuni cultori di quest’arte sono in grado ancora oggi di prodursi in simili prodezze.

L’arte della mnemotecnica venne ripresa, con qualche modifica, nel XIII secolo da Raimondo Lullo, che mise a punto la sua Ars Magna, il cui fulcro erano la matematica e la logica combinatoria poi, nel XVI secolo, dal teatro elisabettiano e, soprattutto, da alcuni filosofi neoplatonici tra i quali spicca Giordano Bruno, che utilizzò la mnemotecnica anche in senso neoplatonico, come mezzo per giungere dalle realtà sensibile a quella soprasensibile, al mondo delle Idee, in particolare nel suo De Umbris Idearum.

Ricordare, per Bruno, significa, nel senso più profondo, cambiare stato di coscienza ed elevarsi verso stati più sottili dell’essere, scorgere quello che è invisibile agli occhi del senso comune, grazie all’azione combinata di alcune immagini e della loro disposizione spaziale “archetipica”.

Una lamina orfica prevede che i trapassati, nel varcare il confine con il regno dei morti, debbano compiere una scelta:

Di Memnosine questo è il sepolcro. Quando ti toccherà di morire andrai alle case ben costruite di Ade: c’è alla destra una fonte e accanto a essa un bianco cipresso diritto; là scendendo si raffreddano le anime dei morti. A questa fonte non andare neppure troppo vicino; ma di fronte troverai fredda acqua che scorre dalla palude di Mnemosine, e sopra stanno i custodi, che ti chiederanno nel loro denso cuore cosa vai cercando nelle tenebre di Ade rovinoso. Dì loro: sono figlio della Terra e di Cielo stellante, sono riarso di sete e muoio, ma date, subito, fredda acqua che scorre dalla palude di Mnemosine. E davvero ti mostreranno benevolenza per volere di sottoterra e davvero ti lasceranno bere dalla palude di Mnemosine; e infine farai molta strada, per la sacra via che percorrono gloriosi anche gli altri iniziati e posseduti da Dioniso.
Cfr. Colli, La Sapienza Greca, Milano 1980, Vol.1, pag. 173

C’erano quindi una fonte che dava l’oblio e un’altra che assicurava la memoria delle vite passate.

Potremmo quindi dire che, nella sua forma più elevata, l’arte della mnemotecnica si ponesse l’obiettivo di elevare le coscienze al di sopra della dimensione sensibile per avvicinarle al sacro, al divino. Ai vari aspetti della mnemotecnica la storica inglese Frances Yates ha dedicato il suo bel libro L’arte della memoria.

Dai tempi più remoti è stato messo in dubbio che l’arte del ricordare sia sempre un bene e che sia sempre opportuno ricordaci quante più cose possibile.

Platone, nel Fedro, riferisce la risposta che il saggio faraone Thamus dette a Thoth, che gli stava proponendo l’invenzione della scrittura come “farmaco per la memoria e per la sapienza”:

O ingegnosissimo Thoth, c’è chi è capace di creare le arti e chi è invece capace di giudicare quale danno o quale vantaggio ne ricaveranno coloro che le adopereranno. Ora tu, essendo padre della scrittura, per affetto hai detto proprio il contrario di quello che essa vale. Infatti, la scoperta della scrittura avrà per effetto di produrre la dimenticanza nelle anime di coloro che la impareranno, perché fidandosi della scrittura si abitueranno a ricordare dal di fuori mediante segni estranei, e non dal di dentro e da sé medesimi: dunque, tu hai trovato non il farmaco della memoria, del richiamare alla memoria.

Della sapienza, poi, tu procuri ai tuoi discepoli l’apparenza e non la verità: infatti essi, divenendo per mezzo tuo uditori di molte cose senza insegnamento, crederanno di essere conoscitori di molte cose, mentre come accade per lo più, in realtà, non le sapranno; e sarà ben difficile discorrere con essi, perché sono diventati portatori di opinioni invece che sapienti.

Detto tra parentesi, questo passo del Fedro ha spinto alcuni studiosi di Platone a ipotizzare che la parte più importante dei suoi insegnamenti fosse tramandata oralmente e soggetta al segreto iniziatico.

Da ultimo citeremo il Wittgenstein del Tractatus logico philosophicus, che, dopo aver esplorato a tentoni i confini del rapporto tra linguaggio e coscienza, tra forma delle proposizioni e verità, conclude il suo trattato così:

Le mie proposizioni fanno chiarezza in questo modo: colui che mi comprende, infine le riconosce sensate, se è salito per esse – su di esse – oltre esse. (Egli deve, per così dire, gettar via la scala dopo che vi è salito).

Ogni verità, ogni proposizione, ogni acquisizione della mente è utile finché può servirci a salire di livello nella nostra comprensione del mondo, dopodiché l’uomo che si propone la conoscenza come fine ultimo deve comportarsi come gli sciamani di Castaneda e disfarsi di ciò che gli è stato utile in passato, senza trasformarlo in feticcio:

I veggenti fanno l’inventario perché non possono disobbedire. Però una volta che lo hanno fatto lo buttano dalla finestra. L’Aquila non ci ordina di adorare il nostro inventario: ci ordina di farlo, ecco tutto.
Carlos Castaneda – Il fuoco dal profondo

Questo antichissimo dubbio, che esista una memoria utile all’evoluzione della coscienza e una memoria che invece costituisce un ostacolo a tale evoluzione, perché non è che scudo contro la trasformazione, attaccamento ai propri schemi di interpretazione, al passato, alla convinzione che ciò che già si conosce già esaurisca i misteri che ci circondano, è un dubbio più che legittimo, in particolare se non lo rivolgiamo soltanto ai singoli individui, ma all’umanità nel suo complesso, in seguito al cambiamento radicale del nostro rapporto con la memoria determinato dalla rivoluzione informatica.

Il 19 dicembre del 1974 è stato messo in commercio il primo personal computer della storia, l’Altair 8.800 e il mondo è cambiato più da allora di quanto non sia cambiato dal medioevo al 1974.

I primi personal computer del 1974 hanno introdotto una straordinaria capacità di memoria e di calcolo, la possibilità di immagazzinare una quantità enorme di informazioni sempre a portata di mano e di comunicarle con sempre maggiore facilità. Attraverso varie innovazioni tecnologiche, siamo arrivati ai cellulari di ultima generazione, dei veri e propri Mercuri portatili, che ci sono divenuti indispensabili perché ci connettono con il resto del mondo, tengono conto dei nostri appuntamenti e scadenze, ci guidano mostrandoci la strada per raggiungere luoghi sconosciuti, immagazzinano libri, musica, video, fotografie, ricordi, ci permettono di comunicare verbalmente e di vedere chiunque in qualsiasi parte del mondo in tempo reale.

Costituiscono, per alcuni, lo strumento della loro identità sociale, collegandoli con l’universo dei social network, con i loro “amici” reali e virtuali presenti e futuri, possono accedere a qualsiasi informazione sul web, dove sono stivati praticamente tutti i libri mai scritti e le informazioni mai prodotte e hanno un numero virtualmente infinito di utilizzazioni, che vanno dall’individuare le costellazioni nel cielo notturno, all’apprendimento di lingue sconosciute, al riconoscimento di brani musicali ignoti, a molteplici altre applicazioni, come imparare a guidare un aereo di linea senza mai salire a bordo o prendere parte a conferenze dialogando con molte persone sparse ai quattro angoli della Terra.

Oltre a ciò il sistema binario e i computer hanno reso possibile realizzare modelli, matematici e di altro tipo, che hanno dato un gigantesco impulso a tutte le scienze e alla tecnologia: le simulazioni del computer permettono di “verificare” in un istante le implicazioni di ipotesi scientifiche che, in altre epoche, avrebbero richiesto anni di lavoro, di esaminare tutte le varianti di un modello tecnologico, di progettare l’inimmaginabile in architettura, in medicina, in biologia, in fisica, in chimica.

Modelli che consentono anche di controllare la realtà: dal traffico alle rivolte nelle carceri, da una operazione complessa su un paziente affetto da gravi patologie alle previsioni del tempo, dai terremoti all’incremento demografico. Inoltre, i programmi di realtà virtuale e di realtà “aumentata” stanno per modificare completamente la nostra percezione di ciò che è o non è “reale”, come se uno stregone tibetano ci avesse insegnato a mandare in giro come tulpa le nostre forme – pensiero.

Le riflessioni di Walter Benjamin sulla perdita dell’aura, degli oggetti di uso comune o delle opere d’arte, generata dalla scoperta della fotografia e del cinema, sembrano oggi i primitivi suoni gutturali di un uomo delle caverne.

Immagini, suoni, corpi, intelligenze, musica, oggetti: tutto è ormai riproducibile a volontà, indefinitamente. Tutto è mercificato, fantasmatico, simbolicamente inconsistente, perché praticamente nulla riposa più sull’autorità dell’hic et nunc, del “qui ed ora”.

Ma, da soli, i personal computer non avrebbero mai potuto innescare una rivoluzione della portata di quella che stiamo vivendo. È stato il Web, la Rete, ad operare la magia, annullando le barriere dello spazio e del tempo.

I messaggi culturali, semplificati e sottratti al contesto che li ha prodotti, rischiano di svilirsi e di essere strumentalizzati a fini politici o commerciali. Inoltre, la possibilità di entrare istantaneamente a contatto con ciò che accade in tutto il mondo rischia di produrre assuefazione e di renderci insensibili di fronte alle tragedie che colpiscono popolazioni molto lontane da noi: disastri, carestie, genocidi di massa, calamità naturali, delitti.

Le “amicizie” stabilite attraverso i social network nascono e muoiono con un “click”. Questo produce una deresponsabilizzazione nei rapporti umani e l’illusoria impressione che gli altri non siano veramente “reali”. C’è allora il rischio che gli altri vengano trattati come “merci”, come prodotti di facile consumo e che la stessa vita umana venga percepita come qualcosa di effimero e virtuale, sostituibile come il pezzo avariato di un meccanismo complesso.

Attraverso i motori di ricerca chiunque ha accesso istantaneo al Sapere Universale – si pensi a un fenomeno come Wikipedia – inoltre, le conoscenze non vengono più assimilate in modo lineare, come avverrebbe nella lettura di un libro, ma hanno piuttosto la struttura di un ipertesto e possono essere scomposte e ricomposte in modo creativo ed interattivo, come le figure di un caleidoscopio. Questo rende enormemente più efficiente e veloce il processo del conoscere e consente di modellare i documenti su cui si lavora secondo le esigenze di chi naviga.

C’è tuttavia il grave rischio che documenti di grande levatura e scritti sottoculturali, fatti provati e “boatos”, verità scientifiche e menzogne superstiziose, vengano mescolati in modo inestricabile, che la logica del “copia e incolla” prenda il sopravvento sulle ricerche serie e fondate, con il risultato di un impoverimento del linguaggio e della qualità delle teorie. Inoltre, il mito del “Sapere Universale” veicolato da Internet assomiglia, in modo inquietante, all’inutile elenco di conoscenze affastellate da Bouvard e Pécuchet nell’omonimo romanzo di Flaubert.

La rete del web offre la possibilità di aggirare i divieti e le limitazioni poste all’informazione: le notizie attraverso Internet possono circolare liberamente, se si eccettua il caso dei Paesi governati da regimi autoritari, come la Cina e alcuni Paesi arabi, in cui è vietato navigare liberamente e vengono oscurati alcuni motori di ricerca, ed è perfino possibile organizzare azioni coordinate a distanza per rovesciare dittature e regimi militari.

Il pericolo è però che attraverso i social network si diffonda un populismo semplificatorio, che sintetizza le spiegazioni dei fenomeni sociali e politici in brevi formule o tweet, in grado di infiammare gli animi. Slogan e invettive non spiegano nulla, se non il bisogno di esprimere rabbia e frustrazione. Spesso questo modo di semplificare i fatti conduce all’emersione di “uomini della provvidenza” e a dittature. Combattendo un male, Internet rischia dunque di produrne uno maggiore.

È presto per concludere se la rivoluzione di Internet e l’onnipresenza del web potrà tradursi alla fine in un accrescimento o in un ottundimento della consapevolezza umana. Ma un monito severo arriva, a chiunque sappia scorgerlo, dai relitti del Web: scorre attraverso la Rete un fiume di cadaveri ancor più impetuoso del Lete, ancor più foriero di oblio della fonte sotto il pioppo bianco citata nella lamina orfica, un fiume di notizie e informazioni morte e obsolete, di cronache di fatti ormai irrilevanti, di profili social di persone defunte da anni, che navigano nel nulla come navi fantasma, di annunci di eventi, conferenze e ricorrenze passate di cui non importa più a nessuno, di immagini, pagine scritte, suoni e video, niente viene più dimenticato e tutto viene ricordato dal Web.

I motori di ricerca navigano in questo mare magnum, cercando di esaudire i desideri di chi li interroga, ma spesso pescano detriti fangosi del passato e non distinguono l’utile dall’irrilevante, l’immondizia dal gioiello, la verità dalla fake news, l’idiozia e la sottocultura dalla genialità.

In conclusione: stiamo assistendo alle doglie di un parto: il nostro modo convenzionale di concepire la memoria è entrato in crisi e, allo stato attuale delle cose, dipende dalle nostre scelte se la “rivoluzione di Internet” aumenterà il livello di consapevolezza generale, oppure se si trasformerà in una forza disgregante, al servizio dell’ottundimento delle coscienze e del nostro impoverimento culturale.

Autore Alessandro Orlandi

Alessandro Orlandi (1953) matematico, museologo, curatore per 20 anni dell'ex museo kircheriano, musicista, saggista ed editore della Lepre edizioni, è autore di numerosi articoli e libri riguardanti la matematica, la museologia scientifica, la storia delle religioni, la tradizione ermetica, l’alchimia, le origini del Cristianesimo e i Misteri del mondo antico.