Tra la prima e la seconda guerra mondiale non era facile sbarcare il lunario, nelle famiglie numerose il primogenito, anche se ancora adolescente, doveva industriarsi per aiutare, affinché i fratelli più piccoli avessero di che sfamarsi e, magari, potessero andare anche a scuola.
Ci si accontentava dei lavori più disparati, i più intraprendenti si proponevano come aiuto in qualche fabbrica, magari introdotti da un parente e, sgomitando e sudando, riuscivano ad affermarsi.
A Napoli, in quegli anni, vi era la Cristalleria Nazionale, discendente diretta di quella voluta da re Carlo III di Borbone, con sede nell’edificio precedentemente destinato al vecchio Ufficio giudiziario e che occupava parte dell’arenile di Castellammare di Stabia.
L’ubicazione del nuovo stabilimento, inaugurato nella prima metà del ‘700, fu determinata dalla qualità della sabbia del litorale in quanto, secondo gli esperti dell’epoca, risultava essere di un tipo più fine rispetto addirittura a quella di Venezia, il che avrebbe permesso di eguagliare i prodotti provenienti dalla Boemia. L’industria diventò molto fiorente e, nei secoli seguenti, fu spostata nel capoluogo.
Oltre ai maestri vetrai, vi era bisogno di un numero cospicuo di ragazzi, il cui compito consisteva nell’alimentare il fuoco nella fornace e la cui aspirazione era assumere ruoli di sempre maggiore rilevanza e responsabilità. Fu in questo modo che mio padre, appena quindicenne, cominciò il suo percorso fatto di sveglie ad orari improponibili e lunghe pedalate notturne per raggiungere la sede.
Tra gli oggetti a me più cari vi è una ceneriera di cristallo molata, uno dei rari pezzi rimasti di quando lui, giovane apprendista, si cimentava nell’arte del vetro.
Mia nonna, da buona massaia e madre amorevole, si levava anzitempo per poter preparare la gavetta e, sulla soglia, salutare e formulare un favorevole auspicio a quel suo primo figlio che, instancabile lavoratore, contribuiva ai bisogni quotidiani della famiglia:
Va’, ʹa Maronna t’accumpagna
e rientrava in casa pregando.
Questo modo di dire nacque nella seconda metà del ‘700. Ferdinando IV, figlio di Carlo, durante il suo regno constatò che gli atti di microcriminalità notturni erano dovuti, in massima parte, all’assenza di illuminazione nel dedalo di stradine dei quartieri popolari come quelli ai margini di Largo lo Palazzo, attuale piazza del Plebiscito, soprannominati, appunto, Spagnoli.
Qui, la sera, i delinquenti avevano un metodo più che sperimentato; nei vicoli stretti si tendeva una corda da un capo all’altro in modo che il passante, ignaro, inciampasse e diventasse facile preda. Naturalmente, voler sradicare il problema significava affrontare una spesa non indifferente, oltre a dover organizzare la manutenzione; accendere e spegnere un numero così cospicuo di lampioni ad olio non era cosa facile.
In quegli anni un monaco domenicano, Gregorio Maria Rocco, era allo stesso tempo tenuto in gran conto dai sovrani e amato da tutto il popolo per l’aiuto che offriva, senza lesinare, a chi ne avesse bisogno. In particolare, la sua opera si rivolgeva ai ragazzi che toglieva dalla strada, per poi introdurli nel mondo del lavoro.
Aveva una particolare inclinazione per l’organizzazione e le grandi realizzazioni, fu sua l’idea della costruzione di una casa enorme che riuscisse a dare rifugio a tutti i poveri della città: il reale Albergo dei Poveri, di cui ho trattato in un precedente articolo.
L’industrioso padre, conoscendo la devozione dei popolani e soprattutto dei malfattori, facendo leva su un antico retaggio di epoca greca, quello di costruire altarini accanto agli ingressi delle case come ossequio verso gli dei protettori, convinse facilmente molte famiglie a ricavare delle nicchie nei muri di tufo in cui porre un’icona sacra, generalmente una madonna.
In quegli spazi, in ricordo di un caro estinto, trovavano posto anche statuine, generalmente con le mani rivolte verso l’alto e avvolte dalle fiamme, fabbricate a mano dagli artigiani di San Gregorio Armeno, noti per la loro maestria che raggiungeva l’acme nella manifattura dei pastori.
Appena le ombre calavano, ecco la padrona di casa che, con grande rispetto e dedizione, si affrettava ad accendere lumini di cera o lampade ad olio per illuminare l’edicola votiva. Era un momento di forte coinvolgimento, poiché, in quell’istante, veniva aperto un varco tra il mondo terreno e quello Divino.
Ci si industriava affinché il vento non la smorzasse. Solo alle prime luci dell’alba la capostipite iniziava il pregnante rituale di spegnimento. La cosa determinante è che fosse ancora accesa, altrimenti preannunciava sventura!
Si procedeva, quindi, ad osservare la fiamma: se era molto alta era segno di risoluzione rapida e favorevole di una situazione che destava preoccupazione; bassa, invece, segnalava difficoltà da affrontare e superare.
Parimenti, il fumo bianco indicava l’accoglimento di una richiesta, quello nero, invece, l’esigenza di adoperarsi affinché le forze opposte potessero attenuarsi, vi erano ancora negatività da bruciare.
La nostra operatrice passava quindi ad invocare il buon auspicio per tutti i membri della famiglia, rivolgendo le proprie intenzioni alle anime pezzentelle, quelle che essendo nel Purgatorio avevano bisogno di preghiere per poter espiare i propri peccati e giungere in Paradiso. Al termine, inumidiva il pollice e l’indice e, stringendo lo stoppino, spegneva il cero.
Mai usare lo spegnimoccolo!!! Si rischiava di soffocare le intenzioni!
La fiamma, la luce doveva essere rispettata affinché potesse accompagnare lungo il cammino, ma, soprattutto, essere da supporto nel momento di passaggio. L’insieme delle azioni, compiute in rigorosa sequenza, era una liturgia che trascendeva il gesto, perché riusciva a coniugare il forte legame tra la vita e la morte.
In pochissimo tempo tutti i meandri del centro abitato avevano, anche se fioca, la propria illuminazione che accompagnava il viandante lungo il percorso, facendolo sentire protetto.
Solo nel 1837, grazie al Cavaliere Giovanni De Frigiere, con il benestare di re Ferdinando II di Borbone, Napoli, al pari di Parigi e Vienna, fu la prima città d’Italia ad avere una rete di lanterne o fanali a gas ricavato dall’olio d’oliva. Nacquero le squadre di accenditori o lampionari, che avevano l’onere di far scintillare l’abitato.
Di sicuro il progresso non è riuscito a sradicare la tradizione, ancora oggi le edicole votive vengono tenute in ordine con fiori e luci e le giovani mamme, sull’uscio, non smettono di salutare i propri cari facendo appello alla protezione della Vergine.
Il loro dire, se inizialmente può sembrare una semplice invocazione sacra, contiene un messaggio che va ben oltre, è un’esortazione a seguire la retta via, un sentiero illuminato che consenta alla persona di allargare i propri orizzonti, ma, contemporaneamente, sottende il rientro al proprio focolare.
Autore Rosy Guastafierro
Rosy Guastafierro, giornalista pubblicista, esperta di economia e comunicazione, imprenditrice nel campo discografico e immobiliare, entra giovanissima nell'Ordine della Stella d'Oriente, nel Capitolo Mediterranean One di Napoli. Ha ricoperto le massime cariche a livello nazionale, compreso quello di Worthy Grand Matron del Gran Capitolo Italiano.