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Eccezionale messa in scena de ‘Il fu Mattia Pascal’

Tato Russo


Tato Russo: il non tempo e non spazio del teatro

Confrontarsi con un classico è sempre difficile, a maggior ragione se nel caso in questione si tratta di un autore della levatura di Pirandello, di un’opera immortale, quale ‘Il fu Mattia Pascal’, semplice e complessa al tempo stesso, poiché ha al suo interno tutti gli strumenti interpretativi: pensieri, sottotesti. Teoricamente non bisognerebbe aggiungere nulla, ma resta la difficoltà di dover condensare un romanzo lunghissimo in meno di due ore, cosa ancora più ardua considerando che quest’opera non era stata scritta per il teatro, come ci aveva sottolineato lo stesso Tato Russo durante la nostra seconda intervista.

La messa in scena ha richiesto, dunque, un immane lavoro di adattamento, nell’obbligo di essere all’altezza dell’originale, di non tradirne lo spirito, di non svilirlo.

Il paragone è obbligatorio e rischia di essere penalizzante, se non si è davvero grandi.

E Tato Russo ci ha abituati a performance di questa natura. Del resto, se non si è grandi non si resta tanto a lungo sul palco, non si fanno pienoni in tutta Italia, non ci si confronta con Plauto, Shakespeare, Dostoevskij, Manzoni senza uscirne massacrati; in una Napoli dalla tradizione teatrale immensa non si riesce a non rimanere schiacciati da passato e presente, preservando la propria personalità e la propria originalità, se non si ha tanto talento.

Viste le premesse, il risultato è tale che anche chi, come noi, ama Pirandello, non ne resta deluso, anzi. Ritroviamo l’essenza del Mattia Pascal già dall’inizio. La voce narrante fuori campo fa da degno contraltare a quella del romanzo. Intensa, profonda, evocativa, ipnotica; io monologante perso nel ricordo, episodi e volti che si fanno confusi, si sovrappongono.

Personaggi che sono maschere illuminate sapientemente da un suggestivo gioco di luci, mentre dal buio appare poco a poco anche la scenografia, essenziale ma estremamente efficace, di un allestimento non milionario perché non ha bisogno di esserlo.

Ed emerge anche il carisma del Russo attore. Mattia Pascal è apatico, indolente, si lascia scivolare addosso tutto, non riesce ad opporsi alle manovre di Batta Malagna, il disonesto amministratore delle fortune che il padre aveva lasciato a lui e alla madre, non riesce a pretendere la donna che ama, portatagli via dallo stesso Malagna che gli impone di sposare Romilda, una donna che non ama. L’unica arma di Mattia è il sarcasmo, nei confronti di tutti, anche di se stesso, perso in una vita che non sente sua, ironicamente ridotto a insignificante granello dalla teoria copernicana che, nello sconfessare la centralità della terra nell’universo, finisce per cancellare il ruolo tolemaico dell’uomo nel creato.

Ma anche nei panni di Mattia Pascal la straordinaria presenza scenica di Russo è scintillante, cattura, rapisce.
Come risultano straordinari anche tutti gli altri attori, impegnati in più ruoli, ennesime maschere che ruotano attorno al protagonista, in un sapiente gioco di specchi, di ombre e di luci.

Russo è abile anche in questo; coinvolge il pubblico quando nel cambiare gli elementi della scenografia, mentre viene spostato lo specchio sul palco, fa sì che questo possa riflettere la luce sugli spettatori, ribalta lo stesso quando prende atto dell’ennesimo fallimento, quello di Adriano Meis che ricade negli identici errori di Mattia Pascal.

Il personaggio principale prova a dare una svolta, a ricominciare dopo aver vinto una fortuna al casino di Montecarlo e aver letto per ‘caso’ che al suo paese, Miragno, lo danno per morto, attirato dalla possibilità di essere tutto ciò che non era stato, finalmente libero dai vincoli e dalle maschere che lo opprimevano.

Ma è tutto vano. La nuova vita è impietosamente sovrapponibile a quella da cui era fuggito; non può avere la donna che ama, Adriana, non può opporsi a chi gli ruba parte della vincita di Montecarlo, a chi lo offende. Non importa che almeno formalmente il motivo sia diverso, che Adriano Meis, non esistendo veramente, non possa rivendicare nulla dal punto di vista legale e formale; pur vivendo a Roma o cambiando maschera è l’essenza ad essere intrappolata, a non riuscire ad evadere dal proprio destino, dagli schemi che inesorabilmente si ripropongono.

Mattia – Adriano è di nuovo prigioniero di una vita che non gli appartiene, che subisce impotente. Non basta cambiare nome e città, lasciarsi crescere la barba o avere una differente disponibilità economica per essere diversi. Quello che emerge, sopra ed oltre tutto, è il vissuto, il carattere.

Si può sfuggire a tutti e a tutto, non a se stessi.

Adriano Meis, mai nato e mai davvero esistito, paradossalmente deve morire, ormai perso all’interno di un nuovo labirinto senza uscita, terribilmente simile a quello precedente.

E ci sovviene Michael Ende, quando scrive “Soltanto chi lascia il labirinto può essere felice, ma soltanto chi è felice può uscirne”.

‘Suicidato’ Adriano, non resta che il ritorno a Miragno, all’esistenza dalla quale il protagonista era fuggito, dove almeno poter contare su una ‘realtà formale’, sancita dalla legge e da qualche certificato ufficiale.

Ma la vita è andata avanti. Trova il suo amico Pomino sposato con Romilda, dal quale ha avuto una figlia. Potrebbe rivendicare i suoi diritti, rendere nullo il secondo matrimonio, ma si lascia convincere a non farlo.

La sconfitta è totale: messa alle spalle la parentesi romana, non può più rientrare nei vecchi panni, nelle precedenti consuetudini.

Vivo in morte, morto in vita, costretto a vagare tra la sua gente che non lo riconosce e tristemente a portare ogni giorno un fiore sulla propria lapide.

Commovente, amaro, malinconico, come l’originale, Tato Russo, nel raccontare il suo Pirandello, non ha bisogno di essere pindarico, gli è sufficiente essere “onesto”, nel senso migliore del termine.

Tanto gli basta per essere struggente, illuminante, per far sì che dello stesso autore siciliano emerga la parola, la poetica, il sublime contrasto di opposti; essenza ed apparenza, verità e finzione, morte e vita, in modo tale che si definiscano reciprocamente, si fondano e si confondano.

E lo fa in modo straordinariamente “leggero”. A nostro parere si tratta una pièce che è possibile rivedere più volte, senza annoiarsi, rimanendo affascinati ad ogni visione nello scoprire qualcosa di nuovo, lasciandosi cogliere da ulteriori epifanie di quanto ci regala la genialità di Russo.

Restiamo incollati alla poltrona, nello scorrere di quella che è senza dubbio la migliore performance cui abbiamo assistito negli ultimi anni. Le due ore sono volate. Ci alziamo per salutare gli attori nel camerino, ancora piacevolmente ebbri di arte e di teatro.

Ad affiancare Tato Russo ne ‘Il fu Mattia Pascal’ che impersona entrambi i protagonisti, ricordiamo, i bravissimi Renato De Rienzo, Salvatore Esposito, Marina Lorenzi, Peppe Mastrocinque, Adriana Ortolani, Carmen Pommella, Francesco Ruotolo, Caterina Scalaprice, Massimo Sorrentino, Lorenzo Venturini.
Le scene sono di Tony Di Ronza, i costumi di Giusi Giustino, le musiche di Alessio Vlad.

Le prossime tappe:

Budrio (BO) dal 9 al 10 dicembre 2015 presso il Teatro Consorziale.
Pavullo (MO) 16 dicembre 2015 presso il Cinema Teatro Mac Mazzieri.
Scandiano (RE) 17 dicembre 2015 presso il Teatro Boiardo.
Forlì dal 7 al 10 gennaio 2016 presso il Teatro Diego Fabbri.
Russi (RA) 11 gennaio 2016 presso il Teatro Comunale.
Trento dal 14 al 17 gennaio 2016 presso il Teatro Sociale.
Brescia dal 20 al 24 gennaio 2016 presso il Teatro Stabile.
Teramo dal 27 al 28 gennaio 2016 presso il Teatro Comunale.

Autore Lorenza Iuliano

Lorenza Iuliano, vicedirettore ExPartibus, giornalista pubblicista, linguista, politologa, web master, esperta di comunicazione e SEO.

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