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È morto il Re, viva il Re

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Diego Armando Maradona


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Era il 3 novembre del 1985, a Napoli pioveva. Lo stadio San Paolo era una bomboniera enorme, affollata, fradicia.

I bianconeri sono i nemici per antonomasia, vengono da otto vittorie nelle prime otto partite di campionato. Poi, sono ombrosi, sono freddi, sabaudi, ci hanno chiuso il Regno. E poi sono da sempre il potere, sono la FIAT di Agnelli e ci hanno rubato Zoff, Altafini…

Mancano quindici minuti alla fine della partita, punizione dentro l’aria.
La barriera è un muro invalicabile. Troppo vicini Scirea e Cabrini sembrano due Golem. Lui, li guarda e il genio diviene fantasia. A Pecci chiede di passargliela di poco indietro. Eraldo è un gran giocatore ma è un uomo normale, non ha intuizione né un estro smisurato. Lo guarda stranito, incredulo ma comprende che deve obbedire.

Eccolo il tocco leggero, la palla è sul suo piede, lui le parla e anche lei obbedisce. Parabola dolcissima, una curva che supera la barriera dei giocatori zebrati ma surclassa anche la fisica. Siamo a meno di dodici metri dalla porta e i bianconeri sono davanti a lui a circa sei o sette metri. Tacconi si inarca, ci prova e si arrende. La palla scende come una pennellata, entra all’incrocio, gonfia quella rete, lascia aperte le bocche.

Per un attimo il tempo si sospende, c’è un silenzio divino, poi il boato. Sotto il diluvio l’incendio dell’anima. I tifosi cacciano un urlo che azzera anni e anni di tormentata rabbia e di impaziente senso di inferiorità verso quei colori così odiati. Il Napoli vincerà quella partita grazie al quel capolavoro ancora oggi inarrivabile.

La notizia è arrivata come una lastra di ghiaccio sulle teste di tutti. Non è vero ma devi crederci. Amici e nemici si sono stretti in uno stato di dolore evitabile. È morto il Calcio. Se ne è andato quel bambino che sussurrava al pallone, quel funambolo inventato da Dio un giorno di fine ottobre del 1960.

Cosa è stato per questo sport se non una icona, lo spot più splendido, il delirio di un gesto infinito, l’assedio alla bellezza. Lo è stato per chi ha visto e vede questo sport come un gioco, quello che ostiniamo a chiamare il più bello del mondo. È stato sfruttato, compiaciuto troppo, raggirato, denigrato, odiato più dal potere che dal popolo, più dai colletti bianchi che dai tifosi stessi.

Poi è stato anche uomo. La pena e il declino di un corpo e di una mente che non erano in sintonia con le gambe. Il Genio che combatteva contro il suo inferno. L’uomo che smentiva il divino. Vederlo imbolsito, delirante, opaco era una gogna a cui ci si voleva svincolare perché la memoria voleva strapparsi da quella realtà così brutale. È un inganno degli occhi, è il sale su una ferita.

Ha vinto da solo anche se c’erano altri 10 intorno a lui. Ha perso da solo, lasciato solo nonostante un amore di parole e di buone intenzioni. Ma il Genio è così, non si regola, non lo puoi meritare se non conosci il dolore.

Lui è stato l’ira e il riscatto degli ultimi, la voce del tuono, il tango sensuale del piede sinistro con una palla donna che lo seguiva ovunque andasse.
Ha giocato inseguendo fantasmi e paure che inconsciamente si sono ripresi le gioie che costruiva ogni domenica. Brillava e il firmamento era suo ma sapeva essere anche la luna nera. L’eclissi di ogni infallibilità.

Stasera Napoli piange ancora e qui non c’entra la maglia della squadra di calcio per cui tifi. È morta un’epoca, è morto il migliore. Le parole si staccheranno e saranno tutte da incorniciare, si scriverà a fiumi, si elogerà, ci si dispererà, si griderà al peccato, al come sarebbe stato e cosa potevamo fare.

Si dirà che solo il 2020 poteva regalarci questa altra dannata beffa. Sento il fetore delle parole dei politici che si improvvisano gestori del dolore, che promettono banalità a cui oggi non ci deve fare caso nessuno. Qualcuno acclama che lo stadio deve portare il suo nome come se poi fosse più importante questo che aggiustare due – tre strade. Come se questo ce lo restituisse, riddasse indietro l’immortalità immaginata.

Ma io guardo la mia città, inchinata davanti ad un suo figlio venuto da molto lontano. Una città straziata che piange il Mito. È stato, alla fine, la voce più importante degli anni Ottanta e Novanta. Un simbolo di rinascita, la volontà che non si piega, la più grande bellezza di ogni maledetta domenica.

Quelle sue giocate non hanno dato solo scudetti e coppe, hanno provocato un terremoto nella città terremotata, hanno offuscato il Nord e le sue certezze, hanno sublimato la meraviglia e confuso l’impossibile con la perfezione.

Napoli ha ritrovato Masaniello, ha resuscitato la sua Repubblica, ha fuso l’ingegno del Principe di Sansevero con la più bella poesia di Libero Bovio. Lui ha amato questa gente, la sua imperfezione che era in simbiosi con l’ingratitudine che aveva verso il destino.

Napoli si è accasciata e si è ritrovata in uno stadio modellino fatiscente e muto. Le luci sono accese ma c’è tanto buio nell’anima, la folla si raduna, abbiamo un nuovo santo che ha sciolto già troppe volte il sangue nelle vene. E non c’era bisogno di pregarlo. Napoli ora ha un nuovo martire e il martirio in queste strade è pura professionalità.

Cala il sipario su un calcio che non c’è più, che correva di meno, che amava prendersi in giro, che cambiava casacca ma non ammainava le bandiere. Un calcio che si copiava per strada con due mattoni o due zaini a fare da porta e un Super-Santos rubato al fratello più grande.

Oggi nessuno più gioca per strada, si è più comodi sul divano davanti al videogame. Eppure, da quella polvere, da quei campetti stracciati dal cemento e quasi sempre in periferia nascevano i più grandi, gli inarrivabili.

Lanús, Buenos Aires, Barcellona, Napoli, Città del Messico, le tappe dove un piccolo grande uomo ha deciso di dire con i piedi quello che non riusciva a dire con le parole.

Quella sera d’estate di giugno del 1984 me la ricordo: ricordo i clacson e le bandiere già stampate, i tifosi assiepati nelle auto, le urla, la gioia e una cassetta a nastro con incisa una canzone che avrebbe anticipato i timori di un piccolo omino come me, il titolo era ‘Maradona è meglio ‘e Pelé‘.

Fino alla fine ho sperato che la notizia dell’acquisto del Napoli delle future prestazioni di Diego Armando Maradona non arrivasse mai. Aveva un sentore che si rivelò fatale.

25 novembre 2020, ecco una altra notizia che non avrei voluto ricevere mai. Questa tragicamente seria e devastante per il mondo dello Sport e non solo.

Era il 3 novembre del 1985, quella punizione l’ho odiata. Io tifoso juventino ma nato a Napoli. Ora sento le lacrime scendere e capisco che è morto con lui il mio nemico amatissimo. Perché è stato il Calcio, quello vero.

È morto il Re, viva il Re.

Autore Massimo Frenda

Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.