Il simbolo non è né allegoria né segno ma l’immagine di un contenuto che per la massima parte trascende la coscienza.
Carl Gustav Jung
Icona, simbolo e immagine sono parole che nell’uso odierno hanno smarrito il loro profondo significato originario.
Eppure, in questo mondo, tutto è simbolo, immagine, riflesso di qualcosa che non sta affatto altrove, che è qui, proprio qui, ma è invisibile.
Perdere il contatto con l’invisibilità significa smarrire le chiavi d’accesso alla realtà e perdersi nell’inganno dei sensi. D’altra parte, rifiutare i sensi e affidarsi unicamente ad un principio invisibile vuol dire ugualmente restare privi del principio della realtà e della consapevolezza della propria dimensione di esistenza.
Partiamo dal simbolo: esso è quella regione ontologica, nel senso più comune, in cui presenza e rappresentazione, immagine e concetto, sono congiunti secondo nessi temporali stratificati in cui si articolano sia i corpi invisibili sia le corporeità storiche, concrete e presenziali.
Analizzare il simbolo come modo per cogliere l’essenza di una ‘scienza della cultura’ significa descrivere territori in cui si incontrano, nella temporalità dello sguardo e dell’oggetto, le prospettive dell’occhio e quelle dei sensi, insieme a forze che non possono vedere, o che vedono secondo successioni temporali stratificate e che, dunque, hanno nell’invisibile la loro possibilità.
Tuttavia, a partire da questa base, ci si può anche interrogare sui modi del visibile, consapevoli che la loro ricca e stratificata complessità, che è la stessa dell’occhio che gira intorno alle cose rendendo temporale il sentire e il suo movimento, è la medesima trama su cui si innesta la loro simbolicità, cioè la ricerca di ciò che, nel visibile, non può essere visto, eccedendone gli spazi.
Tale capacità simbolizzatrice, la sua capacità spirituale e trascendentale, è una cosa stessa con gli occhi e con il corpo e con il loro vivere temporale, origine di ogni percezione possibile e reale.
Vi è qui la necessità di una presenza, che non sia brandita come un vessillo o uno spauracchio, apparendo, invece, come un punto di partenza per analizzare i sensi del sensibile, quei sensi che vivono nel rappresentato e possono mostrarne le soglie e i livelli espressivi, esibendo anche, al di là del visibile, il significato delle molteplicità sensoriali da cui è attraversata la nostra esperienza.
La fenomenologia del simbolico che si può articolare, attraverso teorie e figure e figure di teorie, sfugge così alle dicotomie astratte e accetta un semplice punto di vista descrittivo, quello in virtù del quale
il mondo non è davanti a me, bensì intorno a me:
il mondo, per usare parole di Merleau-Ponty, è un orizzonte di reversibilità, ed è questo orizzonte il piano che il simbolico intende esibire, reversibilità che è sempre imminente e mai realizzata di fatto.
Come possiamo trovare l’invisibile?
Le chiavi d’accesso alla realtà sono nella grande terra di mezzo, la zona liminale che a me piace definire immaginale, là dove il visibile e l’invisibile s’incontrano.
In effetti, la parola ‘simbolo”’ ci rimanda proprio al significato di ‘mettere insieme’, ‘unire’. Dire che tutto è simbolo in questo mondo significa affermare che ogni cosa, ogni gesto, evento, luogo o persona è un’immagine evidente che rimanda a qualcosa di non visibile.
L’invisibile è ciò che descrive il visibile e ci trasmette il significato di ciò che è visibile. In altre parole, senza il primo l’uomo non potrebbe approcciare il secondo.
E il simbolo diventa l’esigenza per cambiare. Trasformare il reale in mito e viceversa. Difatti, un profondo e reale cambiamento interiore e sociale, che parta dalle nostre teste, deve essere una trasmutazione dei miti e dei simboli che manifestano e incessantemente rigenerano il nostro samsara, la nostra illusione di realtà, facendo sì che anche i migliori tentativi di innovazione si scontrino con l’inerzia e la ripetitività.
Se non rinnoviamo i miti e i simboli non possiamo generare alcun cambiamento reale. Questo vuole dire innanzitutto rendere noi stessi consapevoli dei miti che stanno dietro i nostri comportamenti e li determinano e ciò può essere fatto osservando attentamente le immagini, cioè gli eventi della nostra vita, tracciando le nostre immagini.
È necessario, poi, riportare il mito alla sua forma originaria, cioè naturale. Allora mi rammento di quel capolavoro de ‘Il Piccolo Principe’. In esso, l’essenziale, invisibile agli occhi del primo, visibile solo parzialmente agli occhi del secondo, diventa chiaro al cuore intelligente del terzo, non come illusione o emozione ma come orizzonte di senso che trasforma la mera fatica in lavoro e vita.
Senza l’ordine simbolico prevale quello «diabolico» – diabolon: separare, è il contrario di symbolon – l’esistenza diventa un dato muto, che rende impossibile elaborare un lutto, un fallimento, o semplicemente trovare un senso alla ripetizione dei giorni.
Oggi la cultura del tutto, del totale, del pieno e del benessere ci spinge a essere ininterrottamente colmati, pieni, soddisfatti, per sentirci amati, mentre per esserlo abbiamo bisogno di riconoscerci la metà visibile di una storia più ampia.
Chi impara realmente a vedere si avvicina all’invisibile.
Paul Celan
L’essenziale è perciò anche visibile agli occhi, ma come metà incompiuta. La perdita del simbolo rende muta la metà invisibile delle cose ed inevitabile si apre il deserto di senso. Educare è proprio costruire il simbolico davanti al pane duro della realtà.
Quando ho letto la fine del capolavoro di Antoine de Saint-Exupéry ho provato un forte ma autentico dolore delle verità complicate ma ineludibili. Egli per ‘riabbracciarsi’ alla Rosa si lascia mordere dal serpente proprio nell’anniversario della sua caduta sulla terra: insomma, va incontro alla morte perché anche la morte è la metà visibile dell’invisibile, una porta stessa sulla Rosa, non un muro come verrebbe da pensare di istinto.
E allora possiamo affermare che grazie al simbolo l’uomo riempie le cose del suo spirito e lascia da parte l’illusorio tentativo di strappare lo spirito dalle cose. Riempire le cose di spirito comporta dar loro un senso che le oltrepassa.
La vita interiore ha il compito di «simbolizzare», trovare la metà mancante, per vivere. Ammazzarsi di fatica o costruire una fortezza si riferiscono alla stessa azione, ma la prima, senza oltre, schiavizza, l’altra, invece, avendo un senso, libera. Sembra un paradosso ma è una insaziabile verità.
Di tutte le cose visibili e invisibili l’uomo è stato circondato senza chiave ermeneutica alcuna. E tra i due feudi, vita e morte, respiro e silenzio, la sua esistenza si consuma, avendo del secondo solo qualche sentore in sogno, presso quella membrana sottilissima dove questo universo si assottiglia e l’altro inizia a prendere corpo.
Riattraversando il velario del mondo terreno, l’unico tentativo possibile per preservare il ricevuto è produrlo in immagini simboliche, in un’opera d’arte: esperienza dello spirito che tenta di prender corpo e materia e trasdurre senso.
Ogni simbolo è un segno concreto che evoca, mediante un rapporto naturale, l’invisibile, cioè qualcosa che è al di là di se stesso. Il significante, sempre visibile, apre al significato, che è una realtà assente la quale sfugge alla dimensione spazio – temporale.
Quella simbolica è un’attività specifica dell’uomo, la carta d’identità dell’Homo sapiens, diretta dall’immaginario, parte essenziale della psiche, la quale è creatrice del pensiero simbolico, regolatrice dell’insieme delle immagini e delle relazioni tra di esse, che formano la ricchezza dell’individuo.
Il simbolo è da sempre rivelatore dell’invisibile e del mistero; è ispiratore, si apre, quindi, sulla creatività; è mediatore e creatore, perché stabilisce un’alleanza tra due mondi. Quello visibile e quello invisibile.
Scopri l’invisibile attraverso ciò che vedi.
Hryhorii Skovoroda
Autore Massimo Frenda
Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.