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Dell’impossibilità di comunicare

impossibilità di comunicare


Lettera a se stesso di un parolaio pentito

Uno dei pochi vantaggi dell’invecchiare è che ti vengono perdonate le imprecisioni nelle citazioni.

Qualche parola sbagliata, l’incapacità di attribuire con certezza la fonte o di contestualizzare.

Quando il tempo che hai alle spalle comincia a diventare tanto, i ricordi cominciano a confondersi, a sbiadirsi, a sovrapporsi.

Lo spirito, dopo aver avuto bisogno di volti, luoghi, date, nomi, dopo aver preso da questi le possibili o dovute esperienze, si fa da parte; come un leone sazio del pasto, lascia gli avanzi alla memoria, i simulacri alla materia.

Fatta eccezione per qualche sprazzo.

Momenti di Luce. Abbaglianti.

Eterni, anche nell’effimero dell’esistenza.

Epifanie, che si elevano oltre lo spazio e il tempo.

Immersi in un rumore di fondo che tende ad attenuarsi; vagamente fastidioso, dal retrogusto nostalgico.

Il dolore, anche quello si affievolisce, per fortuna; restano aghi di sofferenza, che a volte graffiano la coscienza, a cui stillano gocce di malinconia.

Poi, tanta insignificanza.

Come le migliaia di parole di un libro che fanno da supporto a quelle poche frasi veramente importanti; anche una sola, a volte.

Necessarie e inutili allo stesso tempo.

Necessarie, perché altrimenti non ci sarebbe il libro.

Inutili, perché assolutamente intercambiabili.

Ci sono romanzi in cui tutto sembra costruito per precipitare verso un solo concetto, una sola frase.

Mi viene in mente uno dei capolavori di Saramago.

Secondo me non siamo diventati ciechi, secondo me lo siamo, Ciechi che vedono, Ciechi che, pur vedendo, non vedono.
José Saramago – Cecità

Leggendolo, rileggendolo, a volte mi è venuta l’impressione che tutto sia in funzione di questa affermazione, che l’autore vi abbia costruito attorno la storia per poter arrivare a scriverla nel finale.

Ma i casi sarebbero tanti.

Da qualche settimana mi gira nella testa una citazione che però non riesco ad afferrare.

Anche i tentativi di ricerca in rete sono stati infruttuosi.

Ricordo vagamente di averla sentita in televisione, probabilmente come presentazione di un ciclo cinematografico.

Non saprei dire se fosse originale o se citasse a sua volta qualcuno.

Ci ritorno perché è in qualche modo attinente ad una serie di riflessioni di questo periodo.

Ci sono uomini che non parlano perché non hanno nulla da dire. Altri che non lo fanno perché avrebbero troppo da dire.

Sono quasi certo non sia precisa. O comunque non punterei un soldo bucato sulla possibilità che sia esente da errori.

Ad ogni modo, il senso era quello.

Credo.

Altre volte, per casi del genere, ho invitato i lettori a segnalarmi la frase giusta, l’autore corretto.

Non lo faccio adesso.

Fa parte di quel contorno.

Potrei averla immaginata, o potrebbe far parte di un altro contesto.

Cosa importa?

A volte le cose più reali succedono solo nell’immaginazione. Ricordiamo solo quello che non è mai accaduto.
Carlos Ruiz Zafòn – Marina

Cosa esiste davvero?

Domanda che potrebbe trovare risposta nella frase di un sofista, questa esatta, come formulazione.

Nulla esiste; se alcunché esiste, non è comprensibile all’uomo; se pure è comprensibile, è per certo incomunicabile e inspiegabile agli altri.
Gorgia da Leontini – Del non essere o Della Natura

Torniamo alle riflessioni che collegavo alla citazione misteriosa.

Perché si scrive?

Ovvero.

Perché scrivo?

Me lo sono chiesto diverse volte, nel corso degli anni.

Altra citazione che non riesco ad attribuire, di cui non assicuro la precisione.

Non so cosa scrivere. Non perché scrivere. Ma so che devo scrivere.

Devo. Parola forte, prefigura un obbligo.

Perché devo scrivere?

Scherzando, ma non troppo, qualche volta ho affermato che scrivere ha per me una funzione terapeutica e mi permette di non andare in analisi.

Questa motivazione, però, non porta ad una scrittura che sia necessariamente un atto comunicativo.

Come momento catartico, che lo si voglia intendere come ritualmente purificatorio o psicoanaliticamente come l’elaborazione di un trauma o di un conflitto, potrebbe anche non avere un destinatario diverso da me stesso.

Posso lasciare in un cassetto virtuale quello che scrivo.

O cancellare quello che ho scritto dopo aver raggiunto l’effetto desiderato su me stesso.

In una comunicazione, il ricevente può coincidere con l’emittente, risolvendo la presenza dell’aspetto relazionale?

Ovvero, il mio inconscio può avere come destinatario la mia coscienza?

La condizione del contenuto è comunque soddisfatta.

Anzi. Se la ammettiamo come comunicazione, sarebbe l’unica possibilità in cui il messaggio trasmesso sia esattamente quello ricevuto.

L’utopia di una comunicazione perfettamente simmetrica.

Affrancata dal codice, fatta di puri significati, senza significanti, considerando come mero espediente la traduzione scritta.

Ipotesi che potrebbe, da sola, giustificare la lapidazione da parte dei puristi delle scienze della comunicazione, e che riportiamo come mera speculazione teorica.

Perché la questione di fondo resta un’altra.

Se la funzione della scrittura è terapeutica, non esiste giustificazione per la sua divulgazione.

Perché pubblico quello che scrivo?

Per una spinta narcisistica?

Arrivare alla conclusione che possa essere questo l’unico motivo sarebbe essa stesso motivo per smettere di farlo.

Per trasmettere un messaggio a qualcuno?

Ad un non meglio definito lettore?

Sì, perché, se il destinatario ha un nome ed è in qualche modo raggiungibile non ha senso usare un giornale, un social o un qualsiasi altro canale pubblico.

Se devo dire una cosa qualsiasi a Tizio, lo chiamo, lo vado a trovare, senza infliggere ad altri il contenuto.

Anche in questo caso, rendere pubblico quello che scrivo non avrebbe senso.

Torniamo ad ipotizzare che il destinatario possa essere un ipotetico lettore.

I fattori giustificativi dovrebbero essere almeno due.

Innanzitutto, dovrei considerare utili le informazioni che sto veicolando.

Magari a strappare un sorriso, anche senza avere la pretesa di far riflettere.

Se non sono utili, abbastanza tautologicamente, è inutile comunque scrivere.

Posto, per assurdo, che io abbia qualcosa di utile da scrivere, la seconda condizione sarebbe quella di poter trasferire il mio pensiero a tale sciagurato lettore.

Mentre nell’ipotesi dell’autocomunicazione il problema del codice non esiste, adesso si pone in modo forte.

In questo caso bisogna scegliere tra uno o più linguaggi naturali, nel caso in cui, come spesso mi capita, decida di citare in lingua originale e senza traduzione.

Scelgo delle parole piuttosto che altre, un preciso registro linguistico, in base a chi decido potrebbe essere il mio target.

E, come direbbe Totò, qui casca l’asino.

Questo comporta il doppio processo di codifica e decodifica.

Ho dei significati da trasmettere, lo faccio attraverso la scelta di significanti.

Chi mi legge deve compiere l’operazione inversa, deve partire dai significanti che ho scelto io e li deve riconvertire in significati.

Che non corrispondono mai esattamente a quelli che erano nella mia intenzione.

Più il messaggio ricevuto somiglia a quello trasmesso, più è possibile che reazione sia quella che desidero.

Far sorridere o riflettere, per tornare al nostro esempio.

Se ci riesco, la mia comunicazione è stata efficace.

Se non ci riesco è motivo valido per non scrivere.

Per cui, resta una domanda fondamentale.

È possibile avere una asimmetria comunicativa accettabile?

Che possiamo riformulare in maniera più brutale.

È possibile comunicare?

O almeno, oggi è ancora possibile comunicare?

Non si tratta tanto di una questione filosofica, di nichilismo o di pensiero debole.

Di disquisire circa l’esistenza di una verità o della possibilità di raccontarla, di esprimerla, di trasferirla; anche le tradizioni iniziatiche, nella ricerca della consapevolezza, pongono il vero nell’ambito di un’intuizione non trasmissibile.

Il nodo si pone ad un livello esistenziale, quello del soggetto sempre più condannato ad essere un’isola, con buona pace del John Donne di No man is an Iland.

Esta soledad que llevamos todos
Islas perdidas
Victor Heredia – Razón de vivir

Se nell’antichità Gorgia è una voce isolata, la modernità porta con sé un concetto di solitudine senza precedenti.

Solitudine che si traduce soprattutto in una sostanziale perdita da parte dei codici della possibilità di fare riferimento a significati profondi, che porta ad un corto circuito nel meccanismo di decodifica.

Possiamo provare ad analizzare la questione in base ai livelli di decodifica aberrante teorizzati da Umberto Eco.

Sicuramente non si tratta di una mancata o parziale condivisione del codice o di sottocodice.

Le persone possono anche parlare apparentemente la stessa lingua.

Tantomeno si tratta di un tentativo di delegittimazione dell’emittente.

Almeno a prima vista, si potrebbe ricadere in una disparità di codice.

Gli attori dell’interazione usano dei significanti che fanno riferimento a significati diversi.

Ma il contesto dell’analisi di Eco è culturale.

Il riferimento è, ad esempio, ai sottocodici.

In un linguaggio specialistico un termine può essere usato in una accezione diversa da quella del senso comune.

Così come, in culture diverse lo stesso colore può avere una connotazione diversa.

Nel mondo orientale il colore del lutto è il bianco, a differenza dell’occidente, dove, invece, è il nero.

La valenza che vogliamo dare, invece, non rientra in questa classificazione.

Abbiamo già analizzato le teorie di Bauman e Donskis in un altro articolo, cui rimandiamo chi volesse approfondire.

Riassumiamo i tratti che ci interessano.

Le entità sacre sono sostituite dall’uomo, che diventa misura delle cose, non più creatura a cui è stato concesso il libero arbitrio, ma egli stesso arbitro.

Con la conseguenza che, senza regole, culturalmente definite come universali e necessarie, la separazione tra bene e male si frammenta in tante morali individuali e relative.
Pietro Riccio – Perché la Massoneria fa tanta paura

Assistiamo, dunque, alla fine di una dimensione morale unificante.

Il perverso processo di individualizzazione della modernità che porta, in modo paradossale, ad un progressivo annullamento del valore dell’individuo.

Le regole del consumo si estendono ai rapporti personali. Le amicizie, gli affetti, i sentimenti sono vissuti in maniera utilitaristica, a prescindere dalla possibile mutua soddisfazione.
Pietro Riccio – Ibidem

In nome di una presunta libertà l’uomo occidentale diventa solo, in balia della paura, di favole vuote.

In una società senza riferimenti etici e privata di divino e spiritualità arriviamo al depotenziamento dei codici che non riescono più a definire dei significati esistenziali.

Le parole smettono di essere segni, restano gusci vuoti, sopravvivenze di cui si è smarrita la funzione.

Le parti di codice che subiscono questo processo sono soggette ad una profonda trasformazione.

In assenza di un significato condiviso, subiscono un’assoluta frammentazione.

Un’arbitrarietà oggettivizzata viene sostituita da una completamente soggettiva.

Ognuno riempie il vuoto con surrogati individuali.

Sebbene tutti parlino la stessa lingua, è come se ognuno ne parlasse una diversa quando si va oltre lo strato superficiale.

Una Babele di codici deboli ed impotenti, utilizzati da esseri senza anima.

La disparità di codice di Eco si sposta dalla dimensione culturale a quella personale.

Questo porta alla totale impossibilità di comunicare.

Di comunicare qualcosa che vada oltre concetti banali e materiali.

Ho sonno.

Ho fame.

Una pizza margherita, per favore.

Impossibilità di comprendersi anche con le persone più vicine, in una serie di rapporti sempre più vuoti e superficiali.

Le persone diventano intercambiabili, come la marca di un dentifricio o il modello di smartphone.
Pietro Riccio – Ibidem

Ogni uomo diventa un’isola persa.

Every man a lost island,
closed in on itself;
every man is alone in the world
A part of modern nothingness.

E può restare solo il silenzio.

Autore Pietro Riccio

Pietro Riccio, esperto e docente di comunicazione, marketing ed informatica, giornalista pubblicista, scrittore. Direttore Responsabile del quotidiano online Ex Partibus, ha pubblicato l'opera di narrativa "Eternità diverse", editore Vittorio Pironti, e il saggio "L'infinita metafisica corrispondenza degli opposti", Prospero editore.

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