Il ruolo dello stato nello sviluppo del benessere individuale
Ogni anno il 20 marzo, dal 2012, ormai, si celebra la giornata mondiale della felicità.
Questo rimanda, inevitabilmente, alla Dichiarazione di indipendenza dei nascenti Stati Uniti, che la definiva quale diritto dell’essere umano.
Suggestivi i richiami a Benjamin Franklin e al napoletano Gaetano Filangieri, da cui il pensatore statunitense ha ripreso il concetto.
Come al solito, in queste occasioni, ci sono tanti proclami, tante dichiarazioni di principio, alcune profonde, altre di una banalità disarmante, peraltro esibite orgogliosamente da filosofi e poeti da baci perugina o da biscotti della fortuna.
Con tutto il rispetto per baci e biscotti, che adoriamo.
Lasciandoli cuocere nel brodo delle loro certezze da menti deboli, preferiamo, piuttosto, far riferimento a riflessioni più acute, come quella del fraterno amico Vittorio Dublino, fra le altre cose, collaboratore di ExPartibus, o, tuttalpiù, lasciarci andare ai nostri dubbi.
E partendo dal principio… ma questa felicità a cui tutti avremmo diritto… in sostanza… cos’è?
Come prima cosa, andiamo a controllare la definizione da una buona enciclopedia online, la Treccani:
Stato d’animo di chi è sereno, non turbato da dolori o preoccupazioni e gode di questo suo stato. L’aspirazione alla f. è caratteristica dell’etica classica, che la chiamò eudaimonia (➔ eudemonismo). Trascurata nella filosofia moderna in seguito alla posizione rigoristica assunta da I. Kant, la nozione di f. è rimasta viva nella tradizione culturale anglosassone, ispirando il pensiero filosofico, sociale e politico. A questa tradizione si ricollega la difesa che del concetto compie B. Russel nel suo The conquest of happiness (1930).
Già questo ci porta alle domande.
Stato d’animo di chi è sereno.
Sereno… sempre Treccani, stavolta vocabolario.
2. agg., fig. In generale, l’opposto di turbato, ma con accezioni partic. secondo l’oggetto cui viene attribuito: a. Tranquillo, non agitato da timori, da gravi pensieri e preoccupazioni, non sconvolto da passioni: animo s.; coscienza, mente s.; più genericam., una letizia, una gioia s., pura, senza turbamento. b. Che esprime, che denota una tranquillità interiore: viso, sguardo s.; avere un aspetto s.; una bellezza s.; conservare un atteggiamento s. anche di fronte alla morte. c. Libero da gravi preoccupazioni, da dolori, mali e fastidî; tranquillo e lieto: una vita s.; avere un’esistenza s.; abbiamo passato una vacanza s.; ricordiamo le s. giornate trascorse insieme a voi. d. Non offuscato da passioni, non influenzato da preconcetti; obiettivo, imparziale: un giudizio s.; una valutazione s. dei fatti. 3. s. m. a. Cielo sereno, tempo sereno: guarda che bel s., stasera; talora, il cielo in genere: Torna azzurro il s., e tornan l’ombre Giù da’ colli e da’ tetti (Leopardi).
Non agitato da timori, da gravi pensieri, da preoccupazioni, non sconvolto da passioni.
Come può, una qualsiasi forma di stato, garantirmi l’assenza di preoccupazioni?
Se mio figlio ha la febbre o il mal di pancia, che deve fare lo stato?
Curarlo? Ovviamente.
Ma nel frattempo, come fa ad allontanare il mio turbamento?
Ma poi, le passioni?
Lo stato dovrebbe impedirmi di innamorarmi? Perché questo potrebbe turbare la mia serenità?
O di rodermi beatamente il fegato mentre faccio passionalmente il tifo per la mia squadra di curling?
Cioè. Lo stato dovrebbe rendermi praticamente anaffettivo?
Ma andiamo avanti.
Non turbato da dolori.
Dolori fisici? Dolori dell’animo?
Quindi, nel caso in cui io abbia una malattia cronica, non diciamo nemmeno grave, ma che comporta dolori fisici più o meno costanti, tipo un’artrosi, una sciatalgia, cosa deve fare lo stato?
Rimpinzarmi di Vicodin come Dr. House? Naturalmente senza potermi dare i neuroni del celebre diagnosta della fiction televisiva. O abbattermi per non farmi soffrire?
E quelli dell’animo?
Cosa deve fare lo stato se ho un lutto, se mi lascia la fidanzatina o se litigo con mio figlio?
Anestetizzarmi emotivamente?
Ovvero, rendermi anaffettivo, tornando alla domanda precedente?
Non ci siamo.
Se la lingua italiana non ci soccorre, allora proviamo a rivolgerci alla filosofia.
Una delle prime trattazioni, che poi diventa riferimento anche per la religione cattolica, è sicuramente quella di Aristotele.
Poiché i fini appaiono essere molti e di essi alcuni li vogliamo a cagione di altri (come la ricchezza, i flauti e in genere gli strumenti), è chiaro che non tutti sono perfetti; ma il sommo bene sembra essere perfetto.
(…) Dico più perfetto quello perseguito per sé in confronto di quello perseguito per altro; e quello che non è mai voluto per cagion di un altro, in confronto di quelli che possono essere voluti sia per sé e per cagion di altro.
E, insomma, perfetto senz’altro è quel fine che viene sempre voluto per sé e non mai come mezzo per un altro. E tale sembra essere soprattutto la felicità: la vogliamo infatti sempre per se stessa e mai per altro.
Aristotele – Etica Nicomachea
Quindi, la felicità come sommo bene, il bene ultimo.
Ma come lo si può perseguire?
Come faccio ad essere felice?
Come può lo stato aiutarmi in questo?
Lo stesso filosofo ci dice che non è la ricchezza.
La vita dedicata alla ricerca del guadagno, poi, è di un genere contro natura, ed è chiaro che non è la ricchezza il bene da noi cercato: essa, infatti, ha valore solo in quanto “utile”, cioè in funzione di altro.
Aristotele – Ibidem
Quindi, se anche lo stato dovesse riempirci di soldi, di più soldi di quanti riusciremmo mai a spenderne, non saremmo felici.
Peccato!
La felicità, per Aristotele, è quella che passa per una vita virtuosa.
Se è così, il bene dell’uomo è attività dell’anima secondo virtù, e, se le virtù sono molte, secondo la virtù più eccellente e perfettissima.
Aristotele – Ibidem
La forma più alta di virtù è quella che si fonda sulla conoscenza, sulla consapevolezza, ed è esclusivamente intellettuale.
Cosicché l’attività di Dio, che eccelle per beatitudine, sarà contemplativa: e, per conseguenza, l’attività umana che le è più affine sarà quella che produce la più grande felicità. Una prova, poi, è anche il fatto che tutti gli altri animali non partecipano della felicità, perché sono completamente privi di tale tipo di attività.
Per gli dèi, infatti, tutta la vita è beata, mentre per gli uomini lo è nella misura in cui loro compete una qualche somiglianza con quel tipo di vita: invece, nessuno degli altri animali è felice, perché non partecipa in alcun modo alla contemplazione.
Per conseguenza, quanto si estende la contemplazione, tanto si estende tanto si estende la felicità (…).
Per conseguenza, la felicità sarà una forma di contemplazione.
Aristotele – Ibidem
In questo caso, ci si chiede come lo stato possa fornire quelle capacità intellettuali per raggiungere tale condizione di grazia, oltre, ovviamente, ad educare al comportamento virtuoso.
Infine, lo stesso filosofo ammette che la felicità è uno stato raro.
Se così stanno le cose, mai potrebbe diventar miserabile l’uomo felice; ma neppure davvero beato se gli capitassero le disgrazie di Priamo.
Neppure sarà variabile e incostante, ché non lo smuoveranno facilmente dalla sua felicità neppure i casi avversi, tranne che siano straordinari e molti, tali da rendergli impossibile il ritornare felice in breve tempo, ma, caso mai, in tempo lungo e completo, durante il quale diventi capace di grandi e belle cose.
Aristotele – Ibidem
Testo fondamentale, così come è l’Etica Nicomachea che abbiamo più volte citato, è Lettera a Meneceo meglio conosciuta come Lettera sulla Felicità, di Epicuro.
La strada per la felicità, per il filosofo di Samo, è individuale, non dipende, dunque, da fattori culturali e sociali.
Ogni uomo, nella sua unicità, deve compiere una scelta di quei desideri che lo possano condurre a massimizzare il piacere e a minimizzare il dolore, ovvero, desideri catastematici.
Infatti, noi compiamo tutte le nostre azioni al fine di non soffrire e di non avere l’animo turbato.
Ottenuto questo, ogni tempesta interiore si placherà, perché il nostro animo non desidera nulla che gli manchi, né ha altro da cercare perché sia completo il bene dell’anima e del corpo.
Abbiamo infatti bisogno del piacere quando soffriamo perché esso non c’è. Quando non soffriamo, non abbiamo neppure bisogno del piacere.
Epicuro – Lettera a Meneceo
Nemmeno in questo caso sono utili gli appagamenti che si possono comprare con il denaro.
Infatti, non danno una vita felice né i banchetti né le feste continue, né il godersi fanciulli e donne, né il godere di una lauta mensa.
La vita felice è invece il frutto del sobrio calcolo che indica le cause di ogni atto di scelta o di rifiuto, e che allontana quelle false opinioni dalle quali nascono grandissimi mutamenti.
Epicuro – Ibidem
Per cui, la felicità diventa, anche in questo caso, l’assenza di dolore, il raggiungimento dell’Atarassia, ovvero di condizione di pace interiore.
Questa visione porta alcuni storici della filosofia ad individuare, paradossalmente, nel sistema epicureo i tratti dell’ascetismo.
Anche qui nulla che lo stato, in nessuna sua forma, possa garantire.
Se facciamo un salto avanti di un po’ di secoli arriviamo a Friedrich Wilhelm Nietzsche, che va un po’ a sovvertire la connessione tra benessere e felicità, fino a vedere queste due condizioni come contrapposte.
La felicità, per il filosofo tedesco non può essere l’assenza di emozioni, la contemplazione o uno stato ideale di pigrizia, stato effimero, ma la conquista della propria libertà, l’affermazione di se stessi, il vivere il presente.
È un miracolo: l’istante, eccolo presente, eccolo già sparito, prima un niente, dopo un niente, torna tuttavia come spettro, turbando la pace di un istante posteriore. Continuamente un foglio si stacca dal rotolo del tempo, cade, vola via – e rivola improvvisamente indietro, in grembo all’uomo.
Allora l’uomo dice “mi ricordo” e invidia l’animale che subito dimentica e che vede veramente morire, sprofondare nella nebbia e nella notte, spegnersi per sempre ogni istante. Quindi l’animale vive in modo non storico, poiché si risolve sempre come un numero nel presente, senza che ne resti una strana frazione.
[…] L’uomo invece resiste sotto il grande e sempre più grande carico del passato: questo lo schiaccia a terra e lo piega da parte; questo appesantisce il suo passo come un invisibile e oscuro fardello.
Friedrich Wilhelm Nietzsche – Considerazioni inattuali
In una logica di eterno ritorno, il segreto della felicità è quello di creare un presente che si possa desiderare rivivere.
Anche in questo caso, lo stato non può molto.
L’uguaglianza riduce la felicità del singolo, ma apre la strada all’assenza di dolore per tutti. Se giungesse al traguardo, certo, insieme all’assenza di dolore avremmo anche l’assenza di felicità.
Friedrich Wilhelm Nietzsche – Ibidem
Gli autori che potremmo citare ulteriormente sono innumerevoli, ci limitiamo a far riferimento solo ad un altro, sia perché era presente nella definizione iniziale della Treccani, sia perché ci sembra paradigmatico per il nostro discorso.
Presuppongo un reddito sufficiente a garantire il cibo e un tetto, uno stato di salute che permetta le attività fisiche normali. Non prendo in considerazione le grandi sciagure, quali la perdita di tutti i propri figli o una calamità pubblica.
Bertrand Russell – La conquista della felicità
Non solleviamo la questione su quanti figli si possano perdere per essere infelici, ce lo chiarisce lo stesso Russell.
Tutti.
Quindi se si ha un figlio la risposta è 1.
Avendone 10 se ne possono perdere fino a 9.
Per il resto, si tratta di un problema di visione del mondo.
Il mio intento è di suggerire un rimedio contro quel quotidiano, comune scontento del quale soffre la maggior parte della gente nei paesi civili e che è tanto più insopportabile in quanto, non avendo alcuna causa esterna evidente, sembra inevitabile.
Io credo che tale scontento sia dovuto in gran parte a un modo errato di considerare il mondo, a un’etica sbagliata, ad abitudini sbagliate, che portano alla distruzione di quel gusto e di quell’appetito naturali per le cose possibili dai quali alla fine dipende tutta la felicità, sia degli uomini che degli animali.
Bertrand Russell – Ibidem
Quindi, con una giusta visione del mondo anche gli animali possono essere felici, se si riscoprono filosofi.
Cosa fare allora?
Felice è l’uomo che vive obbiettivamente, che ha affetti liberi e vasti interessi, che si assicura la felicità mediante questi interessi e questi affetti e mediante il fatto che essi, a loro volta, fanno di lui un oggetto di interesse e di affetto per molti altri.
Bertrand Russell – Ibidem
Oltre ogni altra considerazione, affetti e interessi non sono cose che possano essere garantite da uno stato, da una costituzione o da una qualsiasi forma politica.
Da un punto di vista filosofico, dunque, la felicità ci sembra qualcosa di molto controverso, ma soprattutto di estremamente soggettivo.
Può essere l’immergersi nella vita, e suggerne il midollo.
Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, per affrontare solo i fatti essenziali della vita, e per vedere se non fossi capace di imparare quanto essa aveva da insegnarmi, e per non scoprire, in punto di morte, che non ero vissuto.
Non volevo vivere quella che non era una vita, a meno che non fosse assolutamente necessario. Volevo vivere profondamente, e succhiare tutto il midollo di essa, vivere da gagliardo spartano, tanto da distruggere tutto ciò che non fosse vita, falciare ampio e raso terra e mettere poi la vita in un angolo, ridotta ai suoi termini più semplici.
Henry David Thoreau – Walden. Vita nel bosco
O può essere il raggiungimento dell’atarassia. Oppure, secondo una concezione più prettamente iniziatica, bloccare il pendolo, sollevarsene oltre le oscillazioni.
Ogni cosa fluisce e rifluisce, ogni cosa ha fasi diverse; tutto s’alza e cade; in ogni cosa è manifesto il principio del pendolo: l’oscillazione di destra è pari a quella di sinistra: tutto si compensa nel ritmo.
I tre iniziati – Il Kybalion
Lasciamo la questione in sospeso. Magari la riprenderemo in un prossimo scritto.
Per il momento ci interessa appurare se sia possibile definire un diritto alla felicità, non definire cosa sia la felicità stessa.
Abbandoniamo, dunque la filosofia, e rivolgiamoci all’Indice di Felicità delle Nazioni, che citava l’ottimo Dublino nell’articolo di cui siamo partiti.
Posto che la felicità, anche dal punto di vista sociologico, non sia qualcosa di direttamente misurabile, andiamo a vedere quali siano gli indicatori presi in considerazione.
Il reddito, la speranza di vita, il sostegno sociale, la libertà di scegliere e prendere decisioni, la generosità e la percezione di corruzione.
Quanto guadagna mediamente una persona?
Quanti anni potrebbe vivere, secondo l’aspettativa di vita media del suo paese?
Quanto lo stato l’aiuta in caso di difficoltà?
Quanto è libera, di scegliere studi, lavoro, città?
La generosità si basa semplicemente sull’importo delle donazioni effettuate.
Quanto mi sembra corrotto il paese in cui vivo?
In effetti, si tratta esclusivamente di indicatori di benessere.
Ma il benessere non necessariamente coincide con la felicità.
Prendiamo in considerazione un altro indice, quello dei suicidi.
La nazione al primo posto in base all’indice di felicità ha un tasso di suicidio dell’1.56%, triplo rispetto all’Afghanistan, che occupa, invece, l’ultimo posto.
L’indice di suicidio più basso è in Grecia, 0,4%, e Indonesia, 0,5%.
Forse, più che diritto alla felicità, che può significare tutto e niente e si basa fortemente sulla percezione individuale, si dovrebbe parlare di diritto all’equità.
Ad ogni essere umano dovrebbe essere garantito la stessa opportunità di studiare, di accedere alle prestazioni sanitarie, di sviluppare le proprie attitudini, di avere gli stessi diritti di fronte al sistema giudiziario.
Uno stato può e deve garantire l’accesso alle migliori cure possibili, a prescindere dal reddito o dal premio assicurativo versato, e non può consentire l’accesso a diagnosi, terapie e prestazioni solo a chi può permettersi di pagare un privato.
La giustizia dovrebbe essere uguale per tutti, per il nome famoso, per il potentato di turno, come per chi svolge un lavoro normale.
Lo stato dovrebbe farsi carico di valorizzare chi ha una particolare attitudine per un campo di studi come per un’attività sportiva.
L’unica discriminante dovrebbe essere il merito.
Equità e pari opportunità non vuol dire regalare a chiunque titoli di studio, che altrimenti arrivano a perdere ogni valore selettivo.
Uno non vale uno.
Mai.
Il veleno della dottrina dei «diritti uguali per tutti» – è stato diffuso dal cristianesimo nel modo più sistematico; procedendo dagli angoli più segreti degli istinti cattivi, il cristianesimo ha fatto una guerra mortale ad ogni senso di venerazione e di distanza fra uomo e uomo, cioè al presupposto di ogni elevazione, di ogni sviluppo della cultura – con il risentimento delle masse si è fabbricato la sua arma principale contro di noi, contro tutto quanto v’è di nobile, di lieto, di magnanimo sulla terra, contro la nostra felicità sulla terra… Concedere l’«immortalità» a ogni Pietro e Paolo, è stato fino a oggi il più grande e il più maligno attentato all’umanità nobile. – E non sottovalutiamo la sorte funesta che dal cristianesimo si è insinuata fin nella politica! Nessuno oggi ha più il coraggio di vantare diritti particolari, diritti di supremazia, un sentimento di rispetto dinanzi a sé e ai suoi pari – un pathos della distanza… La nostra politica è malata di questa mancanza di coraggio! – L’aristocraticità del modo di sentire venne scalzata dalle più sotterranee fondamenta mercé questa menzogna dell’eguaglianza delle anime; e se la credenza nel «privilegio del maggior numero» fa e farà rivoluzioni, – è il cristianesimo, non dubitiamone, sono gli apprezzamenti cristiani di valore quel che ogni rivoluzione ha semplicemente tradotto nel sangue e nel crimine! Il cristianesimo è una rivolta di tutto quanto striscia sul terreno contro ciò che possiede un’altezza: il Vangelo degli «umili» rende umili e bassi.
Friedrich Wilhelm Nietzsche – L’Anticristo. Maledizione del Cristianesimo
Autore Pietro Riccio
Pietro Riccio, esperto e docente di comunicazione, marketing ed informatica, giornalista pubblicista, scrittore. Direttore Responsabile del quotidiano online Ex Partibus, ha pubblicato l'opera di narrativa "Eternità diverse", editore Vittorio Pironti, e il saggio "L'infinita metafisica corrispondenza degli opposti", Prospero editore.