Poche persone riescono a essere felici senza odiare qualche altra persona, nazione o credo.
Bertrand Russell
L’odio ha tante sfaccettature e si manifesta in maniera tagliente e, a volte, molto feroce, soprattutto quando siamo inabissati dalla tragicità della vita. Per alcuni neuroscienziati è considerato un’emozione complessa, sviluppata gradualmente dalla nostra psiche da sentimenti arcaici.
Gli viene riconosciuto il grado di sentimento ma, anche, quello di impedimento dell’affettività, con il profondo e costante desiderio di procurare male a qualcuno o a qualcosa. È un’emozione, sì, ma di tipo ostile, centrata sul disapprovare e sul reclamare.
L’odio provoca negazione, repulsione, contrarietà, intransigenza, rappresaglia. Può rivelarsi più freddo dell’ira, più ragionato, ma resta, comunque, un killer astioso, rancoroso che cova, nel disprezzo assoluto delle libertà altrui, il più bieco, potente, distruttivo piacere di provocare dolore praticando, operando con un’iniziativa malefica calcolata.
La prossimità, la persistenza, la profondità, l’intensità dei rapporti umani ad elevatissimo coinvolgimento emozionale ed intimo sono tutti “fattori di rischio”, comportanti possibili elevati livelli di aggressività negativa, violenza verbale e/o fisica.
L’odio potenzialmente risiede dentro ognuno di noi. Come nel famoso romanzo di Robert Louis Stevenson ‘Lo strano caso del dottor Jekyll e del signor Hyde’ vi è, da un lato, il buon medico che studia e cura e, dall’altro lato, il cattivo assassino. Entrambi, purtroppo, convivono nella fondamentale ambivalenza che caratterizza l’essere umano.
Il confine che separa queste due facce della stessa medaglia risulta sottile e, a volte, facilmente attraversabile: senza che ce ne rendiamo conto più di tanto, a causa del conflitto fra conscio e inconscio, come proprio la psicoanalisi ha scoperto e sottolineato.
La collera, dunque, prende il sopravvento sulla realtà, annientando le certezze, anche quelle a noi più familiari, quelle domestiche ad esempio, confondendoci in un gioco a spirale di frustrazione e fragilità interna. Proviamo a cercare vie per uscire da questo stato di tensione che ci serra: avere troppa contezza della realtà è drammatico e pericoloso, spesso non sufficientemente utile alla nostra razionalità.
Possiamo affermarlo con schiettezza che quello che stiamo provando in questi giorni non è esattamente terrore, ma un dilagante e profondo stato di angoscia, che tocca i nostri corpi, oltre che la nostra psiche e le nostre relazioni con il mondo. Alla paura di morire sembra subentrare ora la paura di vivere; al catastrofismo, dovuto ad un nemico invisibile e perturbante, si sta sostituendo un allarmismo tenebroso e riflessivo.
Il Covid ci ha dato un senso di precarietà che prima superavamo in diversi modi, alcuni banali altri meno: non pensandoci, sottostimandoli, prendendo ansiolitici, uscendo con amici, andando in cura da specialisti, correndo nelle braccia dell’amore o della mamma. Oggi questo spavento ci ha isolati ma uniti nel dolore: una specie di orco nero che è nei nostri incubi e che riusciamo ad allontanare solo stringendoci.
Tra di noi o provando a rafforzare la stima verso chi potrebbe sconfiggere questo spauracchio: mi vengono in mente la scienza e la medicina. All’applauso verso le ambulanze, ai cori da stadio sui balconi di casa, al profondo rispetto delle regole imposte, al silenzio e alla solitudine delle strade, quello che si sta prefigurando in questa nuova fase è la ricomparsa dell’odio. Nessuna illusione che fosse stato cancellato dai nostri cuori, né che, l’accumunarci alla stessa emozione di orrore, ci avesse aiutato a debellare, almeno, questo morbo per dedicarci al miglioramento del nostro pensiero.
L’odio è l’altro polo. Ci calamita e ci attrae, ci spinge e ci solleva. Ha la sua funzione: a volte somiglia all’orifizio dell’amore ma serve, serve comunque. Nei giorni propedeutici alla fase due ci siamo mossi con sospetto, guardandoci con diffidenza, impauriti del benché minimo contatto.
Quel “io resto a casa” poteva evocare un “teniamoci a distanza”. Richiamava slogan tipo “ognuno a casa nostra”, “aiutiamoci a casa nostra”, “fuori dalla mia vista”.
E quel meraviglioso “andrà tutto bene” poteva e può sottintendere “se tu non farai nulla di cui dovrò pentirmi io”?
Già all’inizio della epidemia, qualcuno voleva contenere le proprie paure annaffiando un virus che mieteva vittime con una banale influenza, lamentandosi poi delle misure di contenimento, definendole oppressive e dannose.
Le fake news, che sono balzate di cellulare in cellulare apparendo nella bustina dei nostri WhatsApp, hanno raccontato un mondo di negazionismo, virando verso il più bieco cospirazionismo e concludendo il loro percorso stimolando acrimonia e aggressività, almeno dialettica. Dalla malinconia alla paranoia. Il contagio era avvenuto.
Il Covid si è presentato come un rischioso predatore incontenibile che ha sfrenato atteggiamenti istintivi, frenetici e irragionevoli che, se avevano un senso ai tempi delle caverne, ora si presentano controproducenti. Si è passati spesso al panico o all’ansia generalizzata, per cui un pericolo contenuto è stato generalizzato percependo ogni situazione come rischiosa ed allarmante.
Abbiamo cercato il nostro capro espiatorio: la Cina, i pipistrelli, poi le multinazionali, le lobby, Bill Gates, Amazon, i virologi di turno, l’Islam, ovviamente gli ebrei. Ad ognuno il suo colpevole, la sua teoria da complottista raffinato, il suo guru dell’odio che getta infamia sul martire utile alla causa.
Proprio sulle accuse assurde al popolo ebraico, Moshe Kantor, Presidente del Congresso ebraico europeo, ha spiegato:
Dall’inizio della pandemia Covid-19, si è registrato un aumento significativo delle accuse secondo cui gli ebrei, sia come individui sia come collettivo o come stato ebraico, sarebbero dietro alla diffusione del virus o ne trarrebbero direttamente profitto.
Il linguaggio e le immagini utilizzate indicano chiaramente un revival delle ‘calunnie del sangue’ di stampo medievale, quando gli ebrei venivano accusati di diffondere malattie, avvelenare pozzi o controllare le economie.
Ecco che abbiamo cercato segnali di pericolo ovunque e imparando a tenere tutti a distanza. Così facendo abbiamo annullato la realtà, costruendo un mondo immaginario che voleva e vuole trovare un riparo alla paura, seminando odio, forzando la verità, devastando con prepotenza il sacrificio di molti, della maggioranza che, però, deve temere questo strisciante disagio che in maniera nevrastenica soggioga la società e l’avviluppa in una dimensione irreale e nefasta di inquietudine.
Eppure, di fronte a queste emergenze sociali, economiche e sanitarie, necessiterebbe una maggiore solidarietà e cooperazione piuttosto che speculare e vedere il prossimo come il nemico o l’altro. L’umanità così si inaridisce, assuefacendo la dialettica, comprimendo i confronti ad ostilità, svantaggiando le classi meno abbienti, privilegiando una cultura della differenza e della diffidenza.
Il rimbombo dei social, la vetrina che ospita, spesso e a malincuore, i peggiori orrori della peggiore collettività possibile, consente ai freaks del web o della TV o del giornalismo medio-borghese – l’accezione è puramente e volontariamente da intendere come offensiva – di spettacolarizzare i fantasmi e le ossessioni proprie ed ingovernabili, o falsamente pilotate, di offendere, denigrare, inventare e creare odio e paura verso il nemico del momento. Così si ovvia alla logica e all’equilibrio precario: si tende a cercare un colpevole per tenere sotto controllo la situazione, provando a castigarlo ed umiliarlo.
È un trauma collettivo che teme l’ignoto: già nel V secolo a.C. gli ateniesi accusavano gli spartani di aver avvelenato i pozzi, scatenando la peste. Manzoni, nel capolavoro de ‘I promessi sposi‘, dedica ampie pagine agli untori: perseguitati, infamati nella Milano della peste del 1630.
La pandemia di Coronavirus
sta continuando a scatenare una onda anomala di odio e xenofobia nel mondo.
Lo scrive il Segretario generale dell’ONU, Antonio Guterres, in un post pubblicato sul suo account Twitter e accompagnato da un video nel quale non fa riferimento a stati o Paesi precisi.
Il sentimento anti-straniero è aumentato online e nelle strade. Le teorie della cospirazione antisemita si sono diffuse e si sono verificati attacchi anti-musulmani relativi al Covid-19.
Guterres afferma che migranti e rifugiati sono stati
diffamati come fonte del virus ed è stato negato loro l’accesso alle cure mediche.
Si utilizza una retorica che raccoglie paure antiche e primitive. Quando la peste, o Morte Nera, demolì i popoli d’Europa nel XIV secolo, ebrei, stranieri e lebbrosi furono ampiamente accusati di averla diffusa e per questo, marchiati e condannati. Ci furono conseguenze mortali e a cadere, per prima, furono le minoranze sotto l’infuocata rabbia del popolo.
In effetti, è accaduto veramente di avere situazioni in cui le invasioni degli stranieri hanno contagiato le popolazioni con malattie, come è successo quando gli europei hanno portato il vaiolo, il colera ed il tifo ai nativi americani, che non possedevano un sistema immunitario atto a contrastare queste malattie infettive.
La tentazione di incolpare delle epidemie soggetti che non fossero pulci, ratti o altri portatori di virus mortali, ma etnie, popoli diversi da noi è sempre stata violentemente forte. Magari, diffondendo il verbo della religione: ovvero, indirizzando ogni evento come una volontà divina, pronta a stigmatizzare l’uomo per le sue colpe, distruggendo e generando orrore.
Ci sono state epidemie e disgrazie che sono state identificate da certi cristiani in Europa come una punizione divina per l’avidità umana, la fornicazione e la bestemmia. Anche se, di solito, la punizione avviene sui propri nemici: come il Dio che punisce gli egiziani con dieci piaghe perché si rifiutavano di liberare gli ebrei.
Prima di tutto vennero a prendere gli zingari, e fui contento, perché rubacchiavano.
Poi vennero a prendere gli ebrei, e stetti zitto, perché mi stavano antipatici. Poi vennero a prendere gli omosessuali, e fui sollevato, perché mi erano fastidiosi.
Poi vennero a prendere i comunisti, e io non dissi niente, perché non ero comunista. Un giorno vennero a prendere me, e non c’era rimasto nessuno a protestare.
Martin Niemöller
L’odio cavalca l’onda del razzismo, abbiamo detto. E nessuno ne è immune. Razzismo biologico: ci sono studiosi che ancora credono che le differenze razziali possono essere individuate scientificamente misurando le forme del cranio; razzismo eugenetico: si vuole purificare il mondo da persone ritenute fisicamente o mentalmente inferiori; razzismo sugli indifesi come gli anziani. In questi giorni, infatti, sono “girati” commenti e riflessioni in cui la vulnerabilità delle persone di una certa età veniva vista come un beneficio per la società e per l’apparato economico. Sono sacrificabili.
E poi attacchi su giornalisti, medici, operatori umanitari e difensori dei diritti umani: assaliti dai cosiddetti hater, con accuse spiacevoli, disgustose e voracemente ingiudicabili. Facebook, Twitter, YouTube e Microsoft hanno aderito ad un codice di condotta europeo contro l’incitamento all’odio.
La Commissione Europea annunciò che le aziende si erano impegnate ad adottare delle procedure chiare ed efficaci per esaminare le segnalazioni di messaggi xenofobi, razzisti o che contengono istigazioni all’odio e a rimuovere i commenti incriminati entro 24 ore. Era il 2016, oggi non molto è cambiato o migliorato.
Nonostante gli sforzi di questi colossi, l’odio si riverbera nei social e genera mostri insensibili ma sempre più forti. E se non hanno la veemenza di cui parliamo, sono comunque capaci di riprodursi velocemente.
La politica fa poco e quello che fa viene inesorabilmente disfatto da se stessa: leggiamo messaggi di noti uomini politici che si fondano necessariamente su una ideazione gerarchica degli uomini, dei popoli e delle etnie e su un’inevitabile classificazione di essi secondo i tradizionali criteri di “superiorità” e “inferiorità”.
Questa elaborazione che rappresenta il fondamento del razzismo e che essa sola giustifica il ricorso ad un termine così gravemente denotativo – razzista, appunto – raramente oggi viene così esplicitamente teorizzata ed adottata.
Va riconosciuto che l’odio è un sentimento potente e complesso, per Sant’Agostino è piuttosto una modalità degenerata dell’ira, la sua forma più incontrollata e distruttiva; per questo egli mette in guardia
affinché l’ira non diventi odio, e di una pagliuzza non se ne faccia una trave, rendendo l’anima omicida.
Non credo che l’odio sia una forma degenerata dell’amore perché dipende da dove nasce e l’iter che prende nel suo corso emozionale. Spesso siamo incapaci di cogliere le possibili sfumature che caratterizzano ogni persona e accadimento. È labile la separazione netta tra il bene e il male, senza riconoscere possibili attenuanti o la presenza di altri elementi. Ecco che l’odio è complesso e non si decifra con uno sguardo o con poche parole.
Oggi più che mai l’odio è un serpente che divora la nostra ambiguità e la nostra fragilità. Sembra quasi un automatismo che abbiamo incorporato per difenderci dal buio delle nostre anime, impaurite di scoprirsi realmente vulnerabili. E l’odio rischia di diventare un sentimento centrale in questo anno zero della nostra nuova era.
Autore Massimo Frenda
Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.