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Cos’è il TTIP?

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Il TTIP, Translatantic Trade and Investment Partnership o anche Partenariato Translatantico per il commercio e gli investimenti, è un accordo commerciale di libero scambio in corso di negoziato dal 2013 tra UE e Stati Uniti d’America. Obbiettivo dell’accordo sarebbe quello di integrare i due mercati, riducendo i dazi doganali e rimuovendo in una vasta gamma di settori le barriere non tariffarie. Il trattato è ancora in fase di discussione non solo tra le parti chiamate in causa, ma  si è allargata anche alla società civile e politica che  si è biforcata in due diverse linee di pensiero: per il fronte del no  alcuni questo trattato comporta che le legislazioni di Stati Uniti ed Europa si pieghino alle regole del libero scambio stabilite da e per le grandi aziende, mentre il fronte del si  elogia gli effetti positivi che si potranno avere in conseguenza alla facilitazione dei rapporti commerciali, partendo dalle esportazioni e dall’aumento dell’occupazione. Il trattato coinvolge i 50 stati degli Stati Uniti d’America e le 28 nazioni dell’Unione Europea, per un totale di circa 820 milioni di cittadini. La somma del PIL di Stati Uniti e Unione Europea corrisponde a circa il 45 per cento del PIL mondiale (i dati sono del Fondo Monetario Internazionale aggiornati al 2013). Si tratta dunque, non fosse altro che per il suo impatto globale potenziale, di un trattato di importanza storica.

Nel documento diffuso dalla UE, che è comunque l’unico ufficiale vista la segretezza che  è stata mantenuta attorno ai trattati,  il TTIP viene definito «un accordo commerciale e per gli investimenti». L’obiettivo dichiarato dell’accordo (piuttosto generico) è «aumentare gli scambi e gli investimenti tra l’UE e gli Stati Uniti realizzando il potenziale inutilizzato di un mercato veramente transatlantico, generando nuove opportunità economiche di creazione di posti di lavoro e di crescita mediante un maggiore accesso al mercato e una migliore compatibilità normativa e ponendo le basi per norme globali». L’accordo dovrebbe agire quindi in tre principali direzioni: aprire una zona di libero scambio tra Europa e Stati Uniti, uniformare e semplificare le normative tra le due parti abbattendo le differenze non legate ai dazi (le cosiddette Non-Tariff Barriers, o NTB), migliorare le normative stesse.

Il documento individua quindi tre principali aree di intervento:
1 – accesso al mercato
2 – ostacoli non tariffari
3 – questioni normative

1 – Accesso al mercato
L’accesso al mercato riguarda quattro settori: merci, servizi, investimenti e appalti pubblici. Si prevede l’eliminazione di tutti i dazi sugli scambi bilaterali di merci «con lo scopo comune di raggiungere una sostanziale eliminazione delle tariffe al momento dell’entrata in vigore dell’accordo». Sono previste misure antidumping – cioè per evitare la vendita di un prodotto sul mercato estero a un prezzo inferiore rispetto a quello di vendita dello stesso prodotto sul mercato di origine – e misure di salvaguardia «che consentano ad una qualsiasi delle parti di rimuovere, in parte o integralmente, le preferenze se l’aumento delle importazioni di un prodotto proveniente dall’altra parte arreca o minaccia di arrecare un grave pregiudizio alla sua industria nazionale». La liberalizzazione riguarda anche i servizi, «coprendo sostanzialmente tutti i settori», quindi anche  gli appalti pubblici, per «rafforzare l’accesso reciproco ai mercati degli appalti pubblici a ogni livello amministrativo (nazionale, regionale e locale);  in sostanza aziende europee potranno partecipare a gare d’appalto statunitensi e viceversa. C’è infine un capitolo sugli investimenti e la loro tutela: nel negoziato è previsto l’inserimento dell’arbitrato internazionale Stato-imprese (il cosiddetto ISDS, Investor-to-State Dispute Settlement). Si tratta di un meccanismo che consente agli investitori di citare in giudizio i governi ospitanti  presso corti arbitrali internazionali. Questa questione è molto contestata anche da parte di alcuni governi in quanto  prevede la possibilità per gli investitori di ricorrere a tribunali terzi in caso di violazione ,da parte dello Stato destinatario dell’investimento estero, delle norme di diritto internazionale in materia di investimenti. Un esempio è  quello della Philip Morris chenel 2011 ha utilizzato questo meccanismo contro l’Uruguay e l’Australia e le loro campagne anti-fumo. Le aziende, dice chi critica la clausola, potrebbero insomma opporsi alle politiche sanitarie, ambientali, di regolamentazione della finanza o altro attivate nei singoli paesi reclamando interessi davanti a tribunali terzi, qualora la legislazione di quei singoli paesi riducesse la loro azione e i loro futuri profitti. La soluzione portata al Parlamento Europeo è la creazione di un nuovo sistema giudiziario, soggetto a principi democratici, composta da giudici nominati pubblicamente ed indipendenti che  avranno il ruolo di giudicare la controversia senza pressioni esterne.

2 – Questioni normative e ostacoli non tariffari
L’obiettivo è «rimuovere gli inutili ostacoli agli scambi e agli investimenti ,compresi gli ostacoli non tariffari esistenti, mediante meccanismi efficaci ed efficienti, raggiungendo un livello ambizioso di compatibilità normativa in materia di beni e servizi, anche mediante il riconoscimento reciproco, l’armonizzazione e il miglioramento della cooperazione tra autorità di regolamentazione». Le barriere non tariffarie sono misure adottate da un mercato per limitare la circolazione di merci e che non consistono nell’applicazione di tariffe: quindi non si parla di dazi. I limiti quantitativi, per esempio, come i contingentamenti (che consistono nel fissare quantitativi massimi di determinati beni che possono essere importati) o barriere tecniche e di standard (cioè di regolamento). Un esempio tra quelli più citati dai critici è quello degli  Stati Uniti in cui è  permesso somministrare ai bovini sostanze ormonali mentre  nell’UE è vietato e infatti la carne agli ormoni non ha accesso a causa di una barriera non tariffaria al mercato europeo.

3 – Norme
L’ultimo punto prevede un miglioramento della compatibilità normativa ponendo le basi per regole globali. È piuttosto generico, ma si dice che sono compresi i diritti di proprietà intellettuale. Si dice poi che vanno favoriti gli scambi «di merci rispettose dell’ambiente e a basse emissioni di carbonio», che vanno garantiti «controlli efficaci, misure antifrode», «disposizioni su antitrust, fusioni e aiuti di Stato». Si dice che l’accordo deve trattare la questione «dei monopoli di stato, delle imprese di proprietà dello stato e delle imprese cui sono stati concessi diritti speciali o esclusivi», e le questioni «dell’energia e delle materie prime connesse al commercio». L’accordo deve includere «disposizioni sugli aspetti connessi al commercio che interessano le piccole e medie imprese» e «deve contemplare disposizioni sulla liberalizzazione totale dei pagamenti correnti e dei movimenti di capitali».

Diversi studi hanno avallato il fronte del si, calcolando che in seguito all’accordo ci sarebbe un aumento del volume degli scambi e in particolare delle esportazioni europee verso gli Stati Uniti (l’incremento sarebbe del 28 per cento, circa 187 miliardi di euro). Gli studi favorevoli al trattato hanno inoltre stimato che il PIL mondiale aumenterebbe (tra lo 0,5 e l’1 per cento pari a 119 miliardi di euro) e aumenterebbe anche quello dei singoli stati (si stimano 545 euro l’anno in più per ogni famiglia in Europa). Poiché ci sarebbe una maggiore concorrenza, si avrebbero anche benefici generali sull’innovazione e il miglioramento tecnologico.

images (1) Per quanto riguarda invece il fronte del no, questo è  composto da varie organizzazioni internazionali Attac, Green  Peace, Sloow Food ed altre associazioni  di vari paesi europei e  statunitensi, fino a studiosi ed economisti vari. Una delle  principali critiche ai negoziati è la loro segretezza ed  inoltre il fatto che ad aver condotto il principale e più citato  studio sui benefici dell’accordo sia il Center for Economic Policy Research di Londra, che questi gruppi non considerano credibile perché finanziato anche da grandi banche internazionali. I punti critici che sono stati individuati nelle analisi fatte e negli Stati Uniti e in Europa sono:

aumento della dipendenza dal petrolio; 

assoggettamento degli stati a un diritto fatto su misura per le multinazionali;

minaccia per i diritti fondamentali dei lavoratori visto che  i paesi dell’UE hanno adottato le normative dell’Organizzazione dell’ONU che si occupa di lavoro (l’ILO), gli Stati Uniti hanno ratificato solo due delle otto norme fondamentali;

-l’eliminazione delle barriere che frenano i flussi di merci renderà più facile per le imprese scegliere dove localizzare la produzione in funzione dei costi, in particolare di quelli sociali con la conseguente perdita di posti di lavoro;

l’agricoltura europea, frammentata in milioni di piccole aziende, finirebbe per entrare in crisi se non venisse più protetta dai dazi doganali;

Il trattato avrebbe conseguenze negative anche per le piccole e medie imprese che non riuscirebbero a reggere la concorrenza delle multinazionali;

-ci sarebbero anche rischi per i consumatori perché i principi su cui sono basate le leggi europee sono diverse da quelli degli Stati Uniti. In Europa vige il principio di precauzione (l’immissione sul mercato di un prodotto avviene dopo una valutazione dei rischi) mentre negli Stati Uniti per una serie di prodotti si procede al contrario: la valutazione viene fatta in un secondo momento ed è accompagnata dalla garanzia di presa in carico delle conseguenze di eventuali problemi legati alla messa in circolazione del prodotto (possibilità di ricorso collettivo o class action, indennizzazione monetaria). Oltre alla questione degli OGM, questa critica viene sollevata relativamente all’uso di pesticidi, all’obbligo di etichettatura del cibo, all’uso del fracking per estrarre il gas e alla protezione dei brevetti farmaceutici, ambiti nei quali la normativa europea offre tutele maggiori;

-I negoziati sono orientati alla privatizzazione dei servizi pubblici quindi secondo i critici si rischia la loro scomparsa progressiva. Sarebbe a rischio il welfare e settori come l’acqua, l’elettricità, l’educazione e la salute sarebbero esposti alla libera concorrenza;

-le disposizioni a protezione della proprietà intellettuale e industriale attualmente oggetto di negoziati potrebbero minacciare la libertà di espressione su internet o privare gli autori della libertà di scelta in merito alla diffusione delle loro opere. Si ripresenterebbe insomma la questione dell’ Acta, il controverso accordo commerciale su contraffazione, pirateria, copyright, brevetti la cui ratifica è stata respinta il 4 luglio 2012 dal Parlamento Europeo.

Il decimo round dei negoziati commerciali Ue-Usa sul Ttip è il 13-17 luglio 2015 a Bruxelles. Per entrare in vigore, una volta elaborato dai negoziatori l’accordo dovrà essere approvato dal parlamento europeo e dal consiglio.

Autore Monica De Lucia

Monica De Lucia, giornalista pubblicista, laureata in Scienze filosofiche presso l'Università "Federico II" di Napoli.