L’opera di Márquez messa in scena nell’ambito della rassegna ‘Brividi d’estate al Castello’
Forse avevo quindici anni e il cuore sgranato sul futuro quando ho letto per la prima volta ‘Cent’anni di solitudine’, il capolavoro di Gabriel García Márquez, scrittore colombiano e premio Nobel per la letteratura.
Ricordo lo stupore nell’addentrarmi in una narrazione fantasmagorica e in uno stile letterario così distante da quello degli autori che avevo letto fino ad allora, da farmi girare la testa.
Personalmente, ho amato molto quel testo che profumava di ignoto.
Ricordo che non riuscivo a staccarmi dalla magia di quelle righe, capaci di trasportarmi un una dimensione sconosciuta e odorosa di avventure e spezie, come una porta magica su un futuro ancora indistinto ma foriero, ne ero certa, di grandi imprese.
‘Cent’anni di solitudine’ sono le fantasticherie della mia giovinezza, la sensazione di varcare una soglia piena di luci, colori, odori, in una giostra vorticosa da togliere il fiato.
Questo carosello onirico mi ha accolto ancora una volta, mercoledì 5 settembre, rappresentata sul palcoscenico della rassegna ‘Brividi d’Estate al Castello’, con la sapiente regia di Annamaria Russo e la maestria e l’entusiasmo trascinante dei protagonisti, l’attore Paolo Cresta e il trio musicale dei Ringe Ringe Raja, fiati, chitarra e violoncello.
Scenografia monumentale d’eccezione, il nostro Maschio Angioino e le rondini che, con il loro frinire, hanno accompagnato dolcemente tutto lo spettacolo.
L’incipit famosissimo del romanzo di Marquez
Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio…
ci accattiva immediatamente e ci aiuta a varcare la soglia del romanzo.
L’energia trascinante del protagonista e la sua recitazione frizzante e molto dettagliata riescono nell’intento di far prendere vita alle parole scritte, che balzano dal foglio e si impadroniscono dello spettatore.
La pièce procede in maniera funambolica, riproducendo molto bene l’atmosfera generale del romanzo.
Il primo attore riesce, infatti, nel difficile compito di alternare la sua funzione di guida e narratore della trama complicatissima, con la raffigurazione a volte caricaturale o grottesca di alcuni personaggi miliari presenti nella narrazione, in una produzione teatrale coraggiosa nella scelta di mettere in scena un classico certamente amatissimo, ma la cui trama, tortuosa, mette a dura prova più di un lettore.
Molto bello il cameo visionario di Melquiades, indovino, zingaro e alchimista, che tanta parte ha nelle vicende del capostipite della dinastia dei Buendias e interessante anche l’immagine del religioso che, ad un certo punto della vicenda, irrompe nella città immaginaria di Macondo cercando invano di evangelizzare i suoi abitanti.
In una scenografia succinta, ma amplificata dall’ambientazione del Mastio, spiccava il tentativo di caratterizzare e far comprendere al pubblico i vari personaggi attraverso l’utilizzo di oggetti di uso quotidiano, quali un megafono di ottone, una palandrana e un cappello da prete, e altri artifizi scenici, anche se, per lo più, ci si affidava alla capacità attoriale di impersonare differenti ruoli mediante il cambiamento di voce e di atteggiamento.
Ho compreso e avrei a mia volta sposato la scelta della regista Annamaria Russo di estrapolare, adattandola al palcoscenico, solo momenti e personaggi salienti del romanzo, altrimenti impossibile da raccontare nel tempo deputato alla finzione scenica.
Chi si è infatti immerso nella lettura del capolavoro di Marquez conosce bene la sua lunghezza e complessità, da far tremare i polsi anche ai lettori più navigati.
Coprotagonisti assoluti i Ringe Ringe Raja, con la loro musica che strizza l’occhio a temi tzigani e kletzmer, a-la-Bregovitch, swing tangheri e sudamericani, in un dialogo continuo e alla pari, tra orchestra e primo attore.
Bella e aderente allo spirito latino americano nel trattare tali tematiche, la trasposizione della noncuranza con cui la vita e la morte sono trattate dal letterato nel testo originario.
Bello il finale sottolineato da un crescendo musicale balcanico.
Grazie a chi mi ha riportato coraggiosamente, anche se per un momento, alla magia delle letture importanti della giovinezza.
E voi, invece, quanti anni avevate quando avete letto ‘Cent’anni di solitudine’?
Autore Floriana Narciso
Floriana Narciso, napoletana. Un cuore sospeso tra Napoli e la verde Irlanda. Mediterranea nell'aspetto ma "Irish"nel midollo, vive costantemente in bilico tra due culture e pensa in due lingue fin dal primo vagito. Laurea in lingue straniere europee, dottorato in linguistica per scopi speciali su tematiche di politica internazionale, vive e lavora tra varie realtà. Pensa a buon diritto che i libri e i gatti siano i migliori amici dell'uomo. Nel suo sangue scorre prevalentemente un buon tè nero, forte e bollente anche sotto il solleone. Scrive perché non riesce a farne a meno.