I nuovi cafoni sono tra noi. Li vedi e li senti, li annusi e li scruti. Sono mostri che si aggirano senza alcuna tentazione di sembrare innocui, né di parere banalmente normali. Sono omologati a standard soggettivi eppure fanno parte di uno schieramento che è la maggioranza.
Spesso sono in contrasto tra loro, si guardano in cagnesco, non si accettano pur appartenendo alla stessa razza padrona. Sono ricchi, i tanti e i più, ma anche i finti poveri o i cosiddetti borghesi riescono a vincere ogni pudore manifestando con assoluta protervia e candida nonchalance il loro stupefacente attaccamento alla vita.
Amano i colori forti, magari il dorato ma non abbandonano i contrasti come il bianco e il nero: vestono firmati e se c’è la testa di Medusa di Versace a bucare la camicia meglio ancora. Parlano una lingua esperanto, frutto di un narcisistico italiano imbastito da un dialetto simil volgare dantesco che vuole camuffare eventuali storpiature. Confondono la I con A e il plurale con il singolare, sui verbi il sipario ha toccato le viscere del teatro.
A proposito di spettacolo, sono drammatici nel dolore fino a cimentarsi nei ruoli più angoscianti con uno spessore e un’impostazione che genera panico e spesso anche immedesimazione; nella gioia e nell’esuberanza virile hanno il rutto pruriginoso facile, abbondano di luoghi comuni e di doppi sensi, forgiano su misura gioielli di parole sconnesse con subdoli messaggi a sfondo sessuale che una certa filmografia degli anni 70 al cospetto divine la trilogia di Krzysztof Kieślowski.
Belli da essere brutti, devastati da un abuso di silicone e di simil-plastica, confezionati su misura dai migliori studi di chirurgia, di originale resta ben poco, di originario quasi nulla. Sono i sotto-prodotti della nostra civiltà, i nuovi mostri che avanzano, sono usciti dal sottosuolo e hanno gridato al mondo la loro voglia di essere e di apparire, cavalcano l’onda della televisione medi-ocre-nazional-popolare con ospitate, format e comparsate varie.
Hanno tatuaggi infiniti: il bello è che si fanno incidere sul corpo frasi in lingue che neanche con altre vite disponibili sarebbero disposti se non ad imparare quanto meno ad apprezzare. Un tempo si scansavano chi si tatuava Padre Pio e la scritta mamma, oggi si guardano ammirati i corpi sinuosi o morbidosi su cui si ritraggono segni e simboli che per la maggiore vogliono significare forza e potenza, eleganza e intelligenza ma su di essi convogliano morbosa eccitazione dell’effimero.
Partecipano a grandi feste, affermando che sono solo per certe persone di un certo livello non accorgendosi che quello a cui fanno riferimento è il più basso in assoluto. Ridono e hanno denti bianchissimi, luci abbaglianti che sanno di edonismo sudareccio, non hanno borse sotto gli occhi ma si fanno ritrarre con quelle più costose e di marca sotto le braccia.
Chi mi legge si chiederà perché tutto questo astio: vi sbagliate, è solo una fotografia di uno specchio del nostro Belpaese. Sono qui tra noi, i signori del nuovo maître à penser.
Dettano legge e sono influenti, hanno follower e sono linkabili, non usano i bitcoin ma i like come portafoglio.
Non sono invidioso ma preoccupato: un tempo c’era lo spettro della fame e della guerra con cui combattere, oggi abbiamo i fantasmi degenerati di una società fallita che non sa più trovare ordine e coerenza, morale e impegno. Con questi fantasmi e con questi fanatismi il conflitto può sembrare solo sulla carta più facile ma non lo è.
In verità queste battaglie sono ardue perché generazionali, perché costruite artificialmente, perché non c’è unità di intenti, perché forse alla fine in giro c’è troppo pane e poche bocche da sfamare. Un tempo vi erano priorità su cui condividere un piano di azione, oggi ci sono livelli di disgregazione che annientano la ragione comune e favoriscono arrivismo e pochezza.
Abbiamo il dovere, lo ha soprattutto chi scrive, al di là di quanti lo leggano, di creare un barlume di speranza di rinascita, spegnendo i fuochi dell’intollerante delirio intellettualoide e provinciale. Dall’altra parte è innegabile che l’educazione abbia dei seri problemi e non solo nel nostro Paese, e che la nostra cultura digitale sia molto bassa.
Il turpiloquio e l’approssimazione sono mali da cui si può e si deve guarire: si cerca il tono forte e la violenza dialettica per dare un forte segnale di potere. Più urliamo più la gente ci crede e comincia a seguirci. L’eccessivo entusiasmo di certi cortigiani produce danni, perché induce il “re” di turno a fare di tutto per far felice il suo popolo e lo allontana dalla capacità di gestire qualunque critica, da qui la dittatura dei social, nuovo megafono di corte.
L’approssimazione è indice di dispersione, di incompletezza e di non competenza. Ci affidiamo ai guru, agli influencer perché non crediamo più al professionismo. I dilettanti ci rappresentano meglio e, soprattutto, rappresentano meglio il nostro presappochismo e la nostra difficoltà ad accettare chi ha studiato e approfondito quella specificità di situazione.
Meglio, quindi, credere a chi ci illude o è più stronzo: significa che è furbo e si sa che chi è bravo ad ingannare sa vivere meglio degli altri in questa vita. Allora è in gamba e si merita il nostro plauso. Ecco che perché conviene affidarci al peggiore perché ci rassicura, è la parte migliore di noi, quella che più di tutti ci somiglia e ci comprende consolandoci in questa landa.
Cosa bisognerebbe fare? Creare disordine nel loro mondo omologato: i nuovi cafoni sono sicuri e vivono calpestando ogni regola e ogni legittimo giudizio, approfittando del corso del politicamente corretto che piuttosto che stanarli li privilegia e difende. Per attaccarli urge una risposta semplice ma immutabile: non accettarli, non emularli, non tollerarli, non comprenderli. Troppi alibi, troppe premure li rafforza. E invece bisogna inchiodarli al giusto e al ragionevole, al rispetto e alla convivenza.
Sono i filosofi degli anni duemila, i Kierkegaard dei poveri: vanno tenuti fuori dai nostri confini e non legittimarli agli occhi delle future generazioni. Quando si utilizzava la parola cafone si voleva affibbiare con spregio un’etichetta ingiuriosa per indicare una persona rozza, di cattivo gusto o maleducata. È un termine che proviene dai dialetti meridionali e si è esteso al resto d’Italia dopo l’Unità. Ricordiamoci che il suo significato originario, che ancora si mantiene nel sud d’Italia, è quello di ‘contadino’.
In una celebre pagina del romanzo Fontamara di Ignazio Silone, ambientato nella Marsica abruzzese, è descritta la piramide sociale che vede proprio i cafoni, ovvero i contadini, all’ultimissimo gradino:
In capo a tutti c’è Dio, padrone del cielo. Questo ognuno lo sa. Poi viene il principe Torlonia, padrone della terra. Poi vengono le guardie del principe. Poi vengono i cani delle guardie del principe. Poi, nulla. Poi, ancora nulla. Poi vengono i cafoni. E si può dire ch’è finito.
Questa è la trasformazione di una società che non sa rinnovarsi ma sa solo adattarsi, che lascia a pochi l’arduo compito di tappare le falle lasciate dalla classe-media e dalla cosiddetta borghesia.
Io non credo ai professionisti dell’impegno, ai palestrati del dibattito, ai contorsionisti da reality acceso, io credo a chi può darci una mano operando su noi stessi con un’azione ampia di riflessione anche intima, volendo, e aperta ai veri bisogni di questa società.
Noi dobbiamo costantemente seminare e continuamente creare nuovi scenari di interazione e di confronto: l’eredità ai prossimi che verranno è un biglietto su cui bisogna sempre scrivere di ricordarsi di fare, fare, fare. Altrimenti il rischio è accettare che il genere umano sia vocato all’auto-distruzione, lasciando ai nuovi mostri il compito di mettere la parola fine a quello che resta di noi e della nostra civiltà.
Autore Massimo Frenda
Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.