Il dietro non c’è più
http://il-nimnchialista-cinematografico.webnode.it/
Facebook
La prima volta che un backstage fu messo in scena con la dignità di un film, ovvero come racconto avente senso “in sé”, e non come mostra per appassionati di quello che accade “dietro le quinte”, fu per opera della Pathè Brithis, a quanto mi consta.
Il film del 1927 si chiama semplicemente “Backstage film” ed il regista fu Phil Goldstone.
Si tratta della ripresa di quel che accade in uno spettacolo teatrale durante i cambi scena, con attori macchinisti di scena, addette ai costumi, alle luci, ballerine… insomma cast tecnico ed artistico che si precipita da una parte all’altra, per far funzionare la macchina dell’opera.
Almeno altri due film portano il titolo di “Backstage”: uno del 1988, di Jonathan Hardy, è un film australiano con protagonista la cantante americana Laura Branigam (la quale interpreta una cantante appunto che tenta di diventare attrice) ed il titolo si deve al tentativo della suddetta cantante di organizzare una nuova carriera a partire dalle relazioni create “dietro le quinte”.
L’altro è un film francese del 2005 di Emmanuelle Bercot che parte proprio dal racconto di un backstage.
Brevemente la trama: una tenera adolescente, Lucie, adora letteralmente la cantante pop Lauren e riesce a conoscerla per merito della televisione. Insomma una francese Raffaella Carrà le consente attraverso una carrambata, appunto, di fare la conoscenza del suo mito. Il film si dedica a distruggere ogni speranza della ragazzina che una volta approdata dietro le quinte avrà modo di conoscere la sregolatezza e le difficoltà emotive di quella che immaginava una dea ed invece è una “povera Crista”. Fine.
Quando si mette in scena un programma televisivo o si prepara la produzione di un film, rientra oggi attualmente nel piano di produzione anche la parte da dedicare al backstage, peccato che non esista più.
La bellezza del dietro le quinte consisteva proprio nel fatto che si trattasse di qualcosa che difficilmente dalla platea potevi immaginare. Il contatto tra gli attori ed il regista, le pose scomposte dei patinati divi fuori scena, le facce in controcampo di macchinisti e truccatori, l’operatore di ripresa di cui vedevi sempre e solo un occhio solo.
L’altro occultato dalla loop, peggio del corsaro nero. Persi.
Più chic dei loro attori, con più verve delle star oramai si è tutti in scena: sempre. Ma non serve arrivare al cinema. Basta buttare un occhio alle pagine facebook di un truccatore o di un elettricista per trovare foto in posa e non, filmati di lavoro o di riposo, della pausa mensa e della pausa di lavorazione dove se sei uno determinato puoi cogliere anche la trama del film che uscirà.
Quel mistero mi manca un po’.
Mi manca di cogliere un’incazzatura di Fellini o la esasperata cortesia di Pasolini mentre lavora con Totò.
Totò corre sulla spiaggia verso la macchina da presa, Pasolini lo incalza.
Pasolini: “Un po’ più alla tua sinistra … va beh, (rivolto all’operatore di ripresa) che dici numero uno?…” las
Nel frattempo si avvicina Totò per sapere se la ripresa è buona. Pasolini gli dice che va bene.. ma ha un’aria non proprio soddisfatta, mentre gli attori hanno bisogno di una conferma netta che tutto sia andato per il meglio da parte del regista e per questo Totò gli dice…
Ma Totò è già diretto verso la partenza dell’azione.
Il backstage ha mostrato qualcosa di vero, di imperdibile, la ricchezza di sfumature del rapporto tra i due. In questi pochi momenti li ho “visti” come in nessuna intervista avrei potuto mai. Ho goduto della loro interazione, mi sembrava di essere lì.
Raramente nei lavori che raccontano il dietro le quinte oggi assaporo quella verità. Troppo presenti gli operatori in scena, c’è poco di veramente rubato, forse solo qualche espressione qua e là come in quello della “Grande Bellezza” in cui Servillo a mezza bocca si lascia andare a qualche commento non proprio lusinghiero, ma non si capisce all’indirizzo di chi. Per il resto il backstage sembra un bignami del film, ne scimmiotta l’atmosfera e segue Sorrentino come un feticcio adorato e fumoso.
Lo ritengo imperdibile, addirittura più bello del film. Questo perché è una delle poche occasioni che si hanno di vedere la “fatica” che costa un film, al di là di quella fisica.
Parlo proprio della fatica “emotiva” di cui spesso si perdono le tracce, attenti come siamo a descrivere l’ultimo tipo di pixel che può migliorare la qualità e favorire la resa scenica.
Ma la fatica del rischio di inciampo, quell’esitazione, quel tempo interminabile nelle espressioni del regista che partecipa fisicamente, spostando il corpo in avanti, muovendo le labbra insieme agli attori a seguirne i fiati e le battute, prima di dare lo stop. Il buono.
Quel momento sospeso in cui per un attimo si dimenticano produttori e costi, e le difficoltà di impresa, in cui niente è importante se non è “nella sua storia”. Quella storia che ora non è più solo nella sua testa, ma sta per diventare il figlio vero, non più quello che si immaginava durante la gestazione, ma il figlio nato.
Il backstage, tranne a quelli capaci veramente di fregarsene, toglie a volte la possibilità di questa sospensione, la possibilità di questa libertà, perché sentirsi osservato mentre si vorrebbe essere esclusivamente nel proprio sguardo senza averne un altro puntato addosso, rende tutto meno autentico. Paradossalmente. Proprio questa pretesa di autenticità e verità rischia di produrre solamente una messa in scena nella messa in scena.
Sogno un backstage crudele come un “grande fratello”, scelto tra ore infinite di girato, con una macchina sempre presente che finisce per non essere più vista.
Un backstage che renda appieno la stanchezza del viaggio di “fare un film”, e nello stesso momento alla sua fine il sollievo e lo strazio che si prova come quando arriva a termine un amore che ci ha sfinito.
Autore Barbara Napolitano
Barbara Napolitano, nata a Napoli nel dicembre del 1971, si avvicina fin da ragazza allo studio dell’antropologia per districare il suo complicato albero genealogico, che vede protagonisti, tra l’altro, un nonno filippino ed una bisnonna sudamericana. Completati gli studi universitari si occupa di Antropologia Visuale, pubblicando articoli e saggi nel merito, e lavorando sempre più spesso nell’ambito del filmato documentaristico. Come regista il suo lavoro più conosciuto è legato alle dirette televisive dedicate a opere teatrali e liriche. Come regista teatrale e autrice mette in scena ‘Le metamorfosi di Nanni’, con protagonisti Lello Arena e Giovanni Block. Per la narrativa pubblica ‘Zaro. Avventure di un visionauta’ (2003), ‘Il mercante di favole su misura’ (2007), ‘Allora sono cretina’ (2013), ‘Pazienti inGattiviti’ (2016) ‘Le metamorfosi di Nanni’ (2019). Il libro ‘Produzione televisiva’ (2014), invece, è dedicato al mondo della TV. Ha tenuto i blog ‘iltempoelafotografia’ ed ‘il niminchialista cinematografico’ dedicati alla multimedialità.