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Attilio

Attilio Romanò


Attilio fu ucciso il 24 gennaio del 2005. Era una giornata umida, il cielo era coperto, c’era un freddo grigio che celava un malinconico inverno.

Ricordo che quel giorno ero di riposo mentre lui avrebbe cominciato il suo turno di lavoro in ufficio alle quattro del pomeriggio per poi finire a mezzanotte. Sono certo che sarebbe partito una ventina di minuti prima da dove si trovava e, sfrecciando sarebbe, comunque, arrivato puntuale.

L’avevo chiamato in mattinata per ricordargli che dovevamo sbrigare insieme una gestione operativa. Lui era in un negozio di telefonia dove prestava la sua competenza. Arrotondava il suo stipendio e, in più, saziava la sua frenetica voglia di non restare mai fermo.

Ricordo le sue parole:

Doc, non ti preoccupare, me la vedo io. Faccio io, poi domani completiamo. Ci sentiamo più tardi.

Mi fermo prima di proseguire. Pochissime persone conoscono questa storia e le sue sfumature. Nulla di segreto, non ci troverete nulla di significativo, forse. Ma è una storia intima. Una storia che sto scrivendo mentre ho gli occhi che annegano. Sto parlando di Attilio Romanò.

Era un mio collega ma, soprattutto, io stavo per diventare un suo amico. Questa è la colpa maggiore che imputo al destino o Dio, fate voi.

Non solo gli amori spezzati fanno male, anche certe amicizie che si sfiorano, si scrutano e poi cominciano lentamente a viversi e ad appassionarsi quando vengono interrotte, credetemi, ti lasciano un dolore serio che ti porterai nel tempo dentro di te.

Era passata di poco l’ora di pranzo, stavo leggendo. Sbirciavo di tanto in tanto dalla finestra della mia stanza, ossessionato da quella superficialità che minacciava il cielo. Pareva stanco, pareva che volesse sussurrarmi qualcosa di terribile ma temeva di farlo con la sua consueta collera.

Squilla il cellulare. È una collega. Ha la voce indecisa, angosciata ma ferma. Mi chiede se so cosa è successo. Mi fermo, resto interdetto. Chiedo a chi e soprattutto cosa. Dura tutto pochi secondi ma ricordo l’eternità di quelle parole che trascinavano il peso di tutto il dolore del mondo.

Il dopo è un misto di pioggia buia, cenere sugli occhi, tormento che rovescia l’incredula rabbia che è nascosta dentro il nero della nostra anima. Il resto è subito un rimpianto, un crescendo di dove e come, una litania sgangherata di perché. Sono assente a me stesso.

Guardo il Massimo che ascolta e in silenzio grida:

Come, come, come è morto?

Per qualche secondo la mente mi ha mentito. Ho pensato che avesse avuto un incidente e stava in ospedale. Era grave sì, ma sarebbe uscito vivo. Non era così. Stacco, il telefono era un Nec DB2000 blu elettrico. Lo guardo immobile mentre fuori soffoca un cielo sempre più inutile. Vorrebbe piovere ma non si scomoda.

Lo chiamo, sì, faccio la chiamata. Qualcuno mi risponderà e mi dirà la verità. Torno in me e sento che sto piangendo. Quelle lacrime me le sentivo sciogliere come lava sul volto. Se chiudo gli occhi so che non è un sogno, se li lascio aperti so l’incubo che è. Nel successivo lasso di tempo, ricordo tante telefonate e la mia voce che continua a chiedere perché.

Nessun cuore è consolabile se perde la speranza. Quel giorno imparai a capirlo. Da quel giorno so che la speranza ti regge ma sa anche farti soccombere perché non sempre rispetta i patti.

I ricordi sono i figli più bastardi del cuore. Quelli che non avremmo mai voluto ma che se non ci fossero stati, tutto questo tempo non avrebbe mai avuto un senso e non si sarebbe chiamato vita.

E io ricordo un altro pomeriggio. Stavamo insieme di turno. La mattanza era cominciata. Si uccidevano tra loro e uccidevano chiunque fosse contro di loro. Gli innocenti erano martiri immolati mentre i loro guerrieri vittime di un destino già scritto e preteso. I primi erano lacrime di Dio, i secondi lo sputo del Diavolo.

“Doc, sai che penso? Che tu un giorno o l’altro riceverai pure una brutta notizia”.

“In che senso?”, gli rispondo incuriosito più che da quell’affermazione, da quel volto profeticamente rassegnato.

“Prima o poi ti chiameranno e ti diranno che io non ci sono più”.

E poi, rafforzando il mio sgomento:

“Non vedi tutto quello che sta succedendo? Qui un giorno ti uccidono e non sai nemmeno il perché”.

Capite, ora capite?

La notizia fece il suo iter. Un pugno sui denti che stordì tutti. Sui giornali online cominciavano a balenare ipotesi, alcune sensate, altre assurde.

Quello che ricordo con orrore fu che ad Attilio venne affibbiato un numero.  Era la vittima x della nuova faida camorristica che era in corso. Ucciso perché forse apparteneva a qualcuno che era legato ad una delle famiglie in guerra. No, non era così.

Attilio fu il riparo di una altra vita. Lo sgorbio e la confusione del solito Dio. Miravano ad uno, altrettanto innocente ma reo di essere imparentato ad un boss, ma colpirono lui. Completamente innocuo, dolcemente innocente.

A Napoli, in via Capodimonte 24, in un anonimo negozio di telefonia, entra la morte. Nell’elenco da depennare c’è un nome ma non è quello di Attilio. La colpa sua è quella, però, di esserci. Di stare in quelle quattro mura.
La missione deve essere portata a termine, sangue quel che sanguina. Non è il bersaglio giusto ma non si può tornare indietro. Entrano e fanno fuoco. Il resto lo sapete.

Non lo so se hai capito. Se hai avuto il tempo di capire. So che se rivedo ancora quelle immagini non ho la forza di pregare. Sì, perché ce ne vuole per riprendersi e per credere che ci sia ancora una possibilità da dare a questo mondo. E pregare non mi aiuta, non mi conforta.

Lo so, stai ridendo e vorresti ammonirmi ma dammi ancora tempo. Dici che ne hai ora, lo so. Io no. Io sto qui e paradossalmente ho meno tempo di te. E sto più male di te. Lo vedi, per assurdo, alla fine, anche questa è una ammissione di fede.

Mi chiamavi Doc e io di rimando Boss. Capo. Eravamo i responsabili di un team. Insieme io e te. Due completamente diversi nelle loro interscambiabili somiglianze. All’inizio mi stavi antipatico. Lo sai. Sempre pronto, sempre a dimostrare di saper far tutto. Ingegnoso, energico, collaborativo. Sapevi scrivere, sapevi cantare. Sapevi ridere e sapevi improvvisare.

Le prime immagini. Il tuo corpo riverso. Il sangue. Le lacrime della tua famiglia e della tua giovane moglie, sposata pochi mesi prima. La notte passa con la testa stordita. Io non so cosa è successo. Io non so che fare. Mi chiudo, parlo poco. Viene il giorno dopo.

Rientro in ufficio promettendomi di dare forza e di non piangere. Salgo le scale. Sento gli occhi su di me. Ho di fronte una platea di persone, tutte incapsulate in un dolore schermato dalle loro postazioni singole. Ho il tempo di non capire.

Avvertì il rumore che fanno le lacrime quando scendono senza chiedere permesso. Sentì il loro fragore. Quel mazzo di fiori depositato sopra alla sua postazione era il dolore che ti prende a schiaffi. L’illusione di restare silenziosamente determinato a non far vincere nessuna emozione crollò in pochi secondi. Mi misi seduto in un angolo a guardare il computer mentre gli occhi andavano per conto loro nel flusso disperato di quel lacrimare infinito.

E poi ricordo il ritorno a casa. Chiuso nell’abitacolo della mia auto mi misi a parlare con te. A dirti quello che non ti avevo mai detto e a chiedere ancora perché. Ti sentivo al mio fianco. Questa è stata una prerogativa che mi ha accompagnato in questi anni. Nei momenti difficili ti ho sentito, ti ho immaginato col tuo sorriso buono a darmi coraggio. E quando mio padre è morto, sottovoce ti ho chiesto di accoglierlo e di dirgli quanto gli volevo bene.

Mi sono alzato e mi sono nascosto. Ho gli occhi ancora bagnati e sento un brivido percorrere la schiena.

Ci sei, vero? Hai ancora quel maglione bianco con la chiusura centrale o la tua camicia arancione? Hai ancora il passo spedito e i capelli che nemmeno il vento smuove? Quando guidi in cielo ti metti i guanti come facevi per le strade della tua città? Come faresti oggi con la mascherina tu che hai mascherato gioia e dolore dietro i tuoi occhiali rotondi? Scrivi poesie in dialetto come quella sulla sedia e la metafora con il potere? Che fai ora, Attila?

Attilio Romanò è stato ucciso dalla camorra il 24 gennaio del 2005. Pochi giorni fa la Corte di Cassazione ha annullato, per la seconda volta, la condanna all’ergastolo inflitta al presunto boss della camorra Marco Di Lauro, accusato di essere il mandante dell’omicidio.

La Cassazione ha anche rinviato il processo, che sarà il terzo di secondo grado sull’assassinio di Romanò, a un’altra sezione della Corte di Assise di Appello di Napoli.

Attilio Romanò è stata una vittima innocente. Ucciso nel fiore della sua età, dopo pochi mesi di matrimonio con Natalia. L’hanno strappato dalla sua mamma Rita e dalla sorella Maria. Donne che hanno la fierezza del sole e la dolcezza della rugiada. Sono forti e sanno guardare in faccia alla vita rispettandola nonostante il cuore resti straziato. A loro non sarà un processo a restituire i giorni migliori. A loro basterebbe semplicemente avere giustizia.

Io non ero suo amico ma ero lì per lì per esserlo. E sai cosa oggi mi manca, Attilio, guardare l’albero di mimose che abbiamo piantato in tua memoria. Passare acconto a quelle fragili foglie, guardarlo dalla finestra del mio ufficio era un modo, il modo più tenero per sentirti ancora vicino e per dirti grazie di quello che mi hai insegnato. A piangere ma anche a vivere.

Dopo quel giorno, la vita ha avuto un altro senso, credimi. E domani vorrei portare le mie bimbe da te. Saresti piaciuto sicuramente a loro. Sai che penso che sia proprio una buona idea.

Continuerò a vivere con l’unico carburante che conosco: l’amore.
Attilio Romanò 

Domenica 24 gennaio alle ore 17:00 nel suo 16° anniversario del suo omicidio i presidi italiani intitolati ad Attilio si incontrano per raccontare, da sud a nord, i passi percorsi dalla memoria di Attilio all’impegno contro le Mafie.

Diretta video sulla pagina Facebook di Presidio Libera Aversa.

Autore Massimo Frenda

Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.

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