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La truffa delle democrazie

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George Orwell


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Quando le dittature della maggioranza o degli analfabeti funzionali diventano utopia

In due precedenti articoli abbiamo affrontato il discorso della post-verità, in relazione soprattutto ai social e al fenomeno dilagante dell’analfabetismo funzionale, e la spinosa questione dei nuovi rapporti di equilibrio tra politica e scienza che sembrano essere rimessi in discussione negli ultimi mesi.

Questo ci riconduce, inevitabilmente, ad imbatterci nel concetto di democrazia, sempre più controverso e caratterizzato da distorsioni sempre più frequenti in scenari sociali contraddistinti da complessità ed incertezza senza precedenti.

Ma prima di entrare nel vivo delle nostre considerazioni, preferiamo, anche stavolta, cominciare a definire il campo di discussione; cosa si intende per democrazia, quali tipi di democrazia esistono, per poi passare ad analizzare quelli che, a nostro parere, sono i mali delle esplicitazioni attuali, quella italiana in particolare.

Posto che per democrazia si intenda il governo del popolo, dal greco δημοκρατία, composto di δῆμος, démos, ovvero popolo, e -κρατία, crazia, la prima distinzione da operare è quella tra forma diretta e quella rappresentativa; può sembrare banale, ma la rete ormai ci propone ogni giorno affermazioni, anche da parte di personaggi “in vista”, che dimostrano una discreta confusione, a voler esser buoni.

Le prime forme di democrazia, tipiche delle comunità o comunque di sistemi sociali a bassa complessità, sono dirette; alla gestione della cosa pubblica partecipano tutti, le decisioni sono prese da chi è in possesso dei requisiti di cittadinanza. I primi “governi” assembleari sembrano risalire addirittura alla Mesopotamia dei sumeri, al 4000 a.C.; tuttavia, le tracce di questo periodo dicono troppo poco e sono ancora in corso degli studi in merito.

Anche se la nascita della democrazia viene fatta risalire al VII secolo a.C. in Grecia, a Chio, la forte diffusione si ha nella prima metà del V a.C. quando è adottata come forma di governo da città quali Argo, Megara, la stessa Atene, dove accanto alla Bulè, un consiglio composto da 500 cittadini sorteggiati tra le dieci tribù, si colloca l’Ecclesia, l’organo sovrano cui hanno diritto a prendere parte tutti coloro che hanno compiuto 18 anni.

La crescita demografica delle città, la complessificazione sociale, portano, anche se gradualmente, allo sviluppo delle democrazie rappresentative, nell’ambito delle quali il popolo non esercita direttamente il potere decisionale, legislativo, ma lo delega a dei rappresentanti designati mediante elezioni; arriviamo ai sistemi parlamentari.

Secondo diversi autori, nelle democrazie rappresentative esistono tre caratteri distintivi, irrinunciabili, a prescindere dai quali non è possibile parlare di democrazia compiuta: effettività, partecipazione e principio partitocratico, i cui assunti sembrano sacrosanti nell’enunciazione ma, a nostro parere, utopistici nella loro applicazione.

Per effettività si fa riferimento non solo alla presenza di un corpo legislativo che configuri un sistema di diritti, ma alla reale possibilità di usufruire di questi diritti da parte di tutti i cittadini, secondo delle modalità egalitarie. Bello, sacrosanto, niente da dire. Ma sarebbe come affermare che tutti gli italiani hanno in egual modo diritto ad un lavoro, ad una giustizia, ad un’assistenza sanitaria e allo studio, poiché lo sancisce la Costituzione. Bello crederci, ma è piacevole anche credere a Babbo Natale.

Sarebbe come dire che se hai un nome famoso, il santo in paradiso o un mucchio di soldi hai la stessa assistenza sanitaria che viene riservata a chi non è famoso, non ha santi, non ha soldi; che, allo stesso modo, potendoti permettere un ottimo avvocato hai le stesse possibilità di chi un avvocato non può permetterselo, con tutto il rispetto e la stima di tutti gli impeccabili professionisti che svolgono la professione legale; che se provieni da una famiglia bene, hai le stesse possibilità di trovare un lavoro, a parità di requisiti e capacità, di chi proviene da una famiglia di modesti lavoratori.

Ci viene in mente una citazione da ‘La fattoria degli animali’ di Orwell:

tutti gli animali sono uguali, ma alcuni sono più uguali degli altri.

Il riferimento all’Italia è tale solo per comodità, ma può essere esteso, a nostro parere, ad ogni presunto sistema democratico in qualsiasi angolazione del mondo, in ogni epoca.

Il secondo principio, quello della partecipazione, invece, parte dal presupposto che questa debba essere garantita a tutti i cittadini che, allo stesso, identico modo, costituiscono lo Stato. Posto che possiamo tenere per buone tutte le obiezioni avanzate per l’effettività, ci sono altre contraddizioni da evidenziare. La prima è che la crescente complessità sociale, che non ci stancheremo mai di mettere in evidenza, taglia fuori dalla possibilità di comprensione delle problematiche oggetto della politica fasce sempre più ampie della popolazione, relegate, anzi, in una condizione di analfabetismo funzionale. In questo modo sono completamente escluse dal processo decisionale e partecipativo.

Inoltre, nelle democrazie rappresentative la partecipazione è indiretta, si esercita in modo delegato attraverso il diritto di voto; questo ci porta a quei soggetti che dovrebbero svolgere il ruolo di mediazione tra Stato e popolo: i partiti politici.

Max Weber nel 1922 li definisce come

Associazioni fondate su una adesione libera, costituite al fine di attribuire ai propri capi una posizione di potenza all’interno di un gruppo sociale e ai propri militanti attivi le possibilità per il per perseguimento di fini oggettivi o per il perseguimento di vantaggi personali, o per tutti e due gli scopi.

Anthony Downs parla invece di

una compagine di persone che cercano di ottenere il controllo dell’apparato governativo a seguito di regolari elezioni.

Volendo prescindere dai meccanismi di potere del singolo, che paradossalmente sono antidemocratici, andando a creare una classe politica di uomini più uguali degli altri, passiamo ad analizzare i meccanismi in base ai quali i partiti possono essere definiti quali di massa.

Sempre Weber distingueva tra partiti dei notabili, dotati di risorse proprie, con attività saltuaria, niente altro che una modalità di accesso al controllo politico per le élite economiche, e i partiti di massa, appunto, che si fondano sull’attività costante di politici di professione.

Premesso che, almeno per definizione questi ultimi dovrebbero avere il compito di ergersi a rappresentanza di ampi strati della popolazione, siamo ancora una volta di fronte ad un’utopia; nei fatti si assiste sistematicamente ad una degenerazione di questa idea di fondo.

Robert Michels nel 1991 nel saggio ‘Sociologia del partito politico’, elabora il concetto di legge ferrea dell’oligarchia, secondo la quale nei partiti di massa, contrapposta ad una base la cui partecipazione è sempre più ridotta si sviluppa un’oligarchia di dirigenti sempre più svincolata dal controllo dei militanti.

Nel 1966, invece, Otto Kirchheimer elabora il concetto di partito pigliatutto, che abbandona il riferimento ad una classe o ad un’ideologia specifica per ampliare la possibilità di raccogliere consensi in strati differenti di popolazione. Un po’ come dire che, nella sua peggiore degenerazione, un movimento può tranquillamente avere posizioni pro e contro su tematiche che sono molto sentite dagli elettori, tipo le vaccinazioni, o le grandi opere.

Nel 1982 Angelo Panebianco parla di partito professionale-elettorale, che nasce in prossimità delle elezioni, vede la presenza ai vertici di professionisti della politica, punta fortemente sulla leadership ed è finanziato da gruppi di interesse.

Nel 1995 Richard S. Katz e Peter Mair in un famoso articolo parlano di partito di cartello, in pratica facendo riferimento ad accordi tra aziende, che fanno, appunto, cartello, per imporsi sul mercato e limitare la concorrenza. I Cartel Party sono caratterizzati da un’organizzazione sempre più leggera, dalla concentrazione sul profilo elettorale da proporre, dal messaggio che prevarica il programma, dal controllo dei mezzi di comunicazione, dei social negli ultimi anni, e da un modo di rapportarsi con gli altri competitor che non è di contrapposizione ma di collusione, così da finire a governare assieme anche se magari in campagna elettorale si è detto qualcosa di diverso.

Insomma, il sistema partitico, che dovrebbe garantire la partecipazione della popolazione alla gestione della cosa pubblica, è osservabile principalmente nelle sue degenerazioni rispetto alla forma ideale.

In aggiunta, c’è da dire che la forma tradizionale dei partiti è completamente stata superata dall’evoluzione sociale. Le ideologie del ventesimo secolo sono definitivamente tramontate. Le contrapposizioni tra destre e sinistre, tra fascismi e comunismi sono oggi anacronistiche, crollato il muro di Berlino, con la fine della guerra fredda, non hanno più senso. In Italia, soprattutto, stiamo assistendo a partiti che perdono anche quelle poche prerogative positive. La capacità di aggregare dalla base, nelle scuole di partito, nell’associazionismo giovanile, è definitivamente smarrita; l’adesione e la militanza oggi si sostanziano nella riproposizione di messaggi vuoti di ideologie e programmi da riproporre sui social, che si traducono nell’acefala amplificazione di slogan e di insulti.

Anche in termini di militanza, questa perde di forza, di lealtà politica; sono solo un flebile ricordo i tempi in cui, anche nelle sezioni locali, le differenze di linea, espresse anche in toni duri nella dialettica interna si ricompattavano verso l’esterno in una strategia comune; oggi se non si condivide la maggioranza del partito semplicemente si aderisce ad uno diverso, o se ne fonda uno proprio, quando fino a pochi decenni fa essere sospesi o espulsi dal partito costituiva un’onta. A prescindere dalle espressioni di giudizi di valore, questi sono indicatori inequivocabili di una perdita di coesione interna.

Volendo arrivare a trarre le conclusioni, non in complessivo del discorso, ci proponiamo di riprenderlo a breve, ma di questo scritto in particolare, c’è da dire che la democrazia appare un colossale inganno.

Un’ultima, amara riflessione, però, la facciamo. Da un lato abbiamo quello che possiamo definire come un fallimento delle democrazie per problematiche identificabili come patologie delle stesse, forse insite nel modello stesso di Stato, soprattutto nella forma rappresentativa, quella legata ai partiti.

Questo porterebbe a pensare che la democrazia compiuta possa essere vista come un’utopia. Ma proviamo ad analizzare una realizzazione ideale di questa utopia, premettendo che ne delineeremo solo le linee di massima per approfondirla in un prossimo articolo.

Considerando che esiste la possibilità di reale e diretta partecipazione del “popolo sovrano” alla politica, che il sistema partitico è un’interfaccia perfetta a questa, scevra da meccanismi di potere, immune dalla legge ferrea delle oligarchie, che cosa sarebbe questo tipo di Stato?

Nella migliore delle ipotesi una dittatura della maggioranza o delle maggioranze, rafforzata da un’azione di governo coerente con le istanze della base, tale da rendere improbabile l’alternanza.

In un contesto come il nostro, caratterizzato da una massa composta al 70% da analfabeti funzionali, posto che in una democrazia ideale non troveremmo nessun partito o movimento pronto a strumentalizzare legioni di imbecilli, per usare la terminologia di Umberto Eco, ci troveremmo di fronte alla dittatura degli imbecilli, appunto.

Possiamo, almeno per il momento, concludere che l’utopia della democrazia consiste nella dittatura delle maggioranze o, peggio, degli analfabeti funzionali.

Autore Pietro Riccio

Pietro Riccio, esperto e docente di comunicazione, marketing ed informatica, giornalista pubblicista, scrittore. Direttore Responsabile del quotidiano online Ex Partibus, ha pubblicato l'opera di narrativa "Eternità diverse", editore Vittorio Pironti, e il saggio "L'infinita metafisica corrispondenza degli opposti", Prospero editore.