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Foto di un naufrago

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Quando si parla tanto, come in questi giorni, dei fenomeni migratori, legati alla disperazione ed alla povertà, mi vengono in mente le centinaia di fotografie che, nel corso di venti anni di lavoro all’archivio fotografico napoletano, ho avuto modo di visionare.
Si tratta di un patrimonio iconografico legato alle cattedre di antropologia, tradizioni popolari ed etnografia, della Federico II, curato in particolare ad Alberto Baldi e Lello Mazzacane, che annovera le storie degli sguardi di diverse generazioni.

Non è questa rubrica la sede per discutere delle schede di classificazione adoperate per ciascuna immagine, basti pensare, però, che per rendere un archivio consultabile è necessario prevedere quali saranno le voci utili alla ricerca da parte dei soggetti che lo avvicineranno, per tirarci fuori qualcosa di utile.

Paesi esotici e meno esotici, foto di andata e di ritorno, facce di meridionali ben vestiti a New York, quelli che ce l’hanno fatta e rispediscono la foto per raccontarlo, facce di emarginazione in lager di lavor, foto di giornali che testimoniano chi invece non ce l’ha fatta, si rincorrono da una scrivania all’altra, da un terminale all’altro. Il viaggio ricorre.

Nella sua disperazione, un viaggio dilatato che non si può racchiudere solo nelle miglia percorse, nei chilometri superati, un viaggio che gli stessi protagonisti corredano di frasi epiche e dolorose. Un viaggio di cui si portano i segni per generazioni. I parenti di quelli che avevano viaggiato quasi sepolti in stiv, in imbarcazioni extralusso destinate a chi i soldi ce li aveva, non dimenticano che i genitori ne parlavano raramente e piangendo di quei giorni.

Eppure, abbiamo avuto bisogno in qualche caso che ce lo raccontassero nel polpettone cinematografico per rendercene conto in più. Non è utile un nuovo film, visto che non è servito poi alla lunga, il primo. E non ci è bastato neppure l’Orso d’oro a Berlino per ‘Fuocoammare’… per imparare a capire qualcosa che ha a che fare molto con l’umanità e meno con l’immunità… Non lo so. Non ho risposte.

Amanda, nome di fantasia a cui ricorro per farle piacere, ricordava che all’arrivo in America si era sentita trattata come una cosa. Teneva fermo un numero sotto la faccia mentre la fotografavano per schedarla; la visitarono con grande attenzione, non esitando nemmeno sulla perlustrazione delle sue parti intime, per scongiurare che fosse focolaio di indicibili, ma anche comunissime, malattie non desiderate, come ella stessa del resto, in quel paese nuovo. Era sull’orlo delle lacrime. Nemmeno da sola, lavandosi, aveva mai avuto un tale contatto con la sua femminilità di giovane ragazza, ma quello che la spaventava di più era non trovare cenno di ciò che si aspettava, in quelle prime ore di America.

Il racconto dei massacranti lavori per avere pochi centesimi degli anni successivi non la confortarono di più. E di chi era la colpa? Certo non dell’allora sindaco di New York, né del governatore, né del presidente degli Stati Uniti. A chi chiedere il conto di quella delusione? Alla madre, ancora più spaventata di lei? Al padre ed ai fratelli, di cui aveva perso le tracce?

Questo io lo so. La colpa era delle aspettative deluse! Ecco: sono loro le responsabili!, sono solamente ed esclusivamente loro! Il grandissimo problema del mondo, in qualunque epoca le vogliamo collocare, sono le aspettative di chi pensa di essersi salvato solo perché è scappato dalla morte certa in patria. Un bel colpevole l’aspettativa.

C’è da dire che oggi i pronipoti di Amanda sono veri americani. Cinquant’anni dopo il racconto che fanno i pronipoti in vece sua è valido per le donne curde (poche) sopravvissute, per le armene, le slave… senza tediare… insomma per tutte quelle PERSONE che non sanno come sono arrivate dall’altra parte di quella delusione.

In classe di mio figlio c’è Roberto, un ragazzino sopravvissuto alla madre nel suo viaggio in gommone dall’Africa, e racconta lui per la famiglia, dal momento che in questi sette anni ha imparato a farsi capire in italiano da chi ha orecchie e tempo per ascoltare.

Insomma, questioni vecchie come la povertà, che ci vedono di volta in volta seduti dietro o davanti al tavolo del più forte, di quello che decide. Ma come dico sempre, questa rubrica parla di fotografie e dunque quelle che vi lascio in dono risalgono al 2004, fonte citabilissima del Corriere della Sera di cui inserisco il link a seguire.

https://www.corriere.it/foto-gallery/cronache/13_ottobre_04/sorrisi-ricordi-foto-vittime-naufragio-af238ee0-2cb6-11e3-bdb2-af0e27e54db3.shtml#1

È il ricordo che appartiene a un naufrago: la stampa incorniciata della sua famiglia, dei suoi cari, di occhi, di sguardi. Foto recuperate da un naufragio del 2004. Foto ancora vive oggi nel 2018… di lui non so.

Foto di copertina da www.lavocedinewyork.com 

Autore Barbara Napolitano

Barbara Napolitano, nata a Napoli nel dicembre del 1971, si avvicina fin da ragazza allo studio dell’antropologia per districare il suo complicato albero genealogico, che vede protagonisti, tra l’altro, un nonno filippino ed una bisnonna sudamericana. Completati gli studi universitari si occupa di Antropologia Visuale, pubblicando articoli e saggi nel merito, e lavorando sempre più spesso nell’ambito del filmato documentaristico. Come regista il suo lavoro più conosciuto è legato alle dirette televisive dedicate a opere teatrali e liriche. Come regista teatrale e autrice mette in scena ‘Le metamorfosi di Nanni’, con protagonisti Lello Arena e Giovanni Block. Per la narrativa pubblica ‘Zaro. Avventure di un visionauta’ (2003), ‘Il mercante di favole su misura’ (2007), ‘Allora sono cretina’ (2013), ‘Pazienti inGattiviti’ (2016) ‘Le metamorfosi di Nanni’ (2019). Il libro ‘Produzione televisiva’ (2014), invece, è dedicato al mondo della TV. Ha tenuto i blog ‘iltempoelafotografia’ ed ‘il niminchialista cinematografico’ dedicati alla multimedialità.