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‘Great Weather, No Crowds’: tra tradizione e specificità

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AFU


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AFU, band di alternative rock con tutte le carte in regola per poter lasciare “tracce” indelebili nel panorama rock nazionale

Gli AFU sono un band di Torino, ma ascoltandoli si potrebbe tranquillamente pensare che siano di Los Angeles, Washington o di una qualsiasi città del Regno Unito. Sì, perché il loro sound è ricco di sonorità che ci giungono da lontano, sia nello spazio sia nel tempo.

Etichettarli come alternative rock è dire tutto e dire niente, ma fornisce una utile chiave di lettura per decifrare il loro sound: aggressivo, energetico e melanconico quanto basta per inserirli meritatamente in quella più ampia, lunga e meravigliosa tradizione rock che, con diverse declinazioni dagli anni settanta ad oggi, ha sfornato band ormai mitiche.

Great Wheather, No Crowds, uscito il 21 luglio per la Seahorse Rec, è il loro album d’esordio, ma non sono certo dei novellini dato che hanno alle spalle già più un decennio di attività.

Delle sonorità degli inizi rimane il vigore e l’asprezza, ma l’evoluzione li ha portati ad atmosfere più raffinate pur mantenendo ben salde le radici nella tradizione rock anni ’90, senza disdegnare marcati riferimenti agli anni ’70 e ai primissimi anni ’80. E tutto ciò si evince ad un ascolto anche superficiale dell’intero album.

Con ‘Great Wheather, No Crowds’ gli AFU esordiscono con un album assolutamente interessante nel panorama italiano, ma mancano ancora quegli spunti di specificità che consentirebbero loro di travalicare l’ambito del “genere” – funk, rock, punk, grunge.

Inserirsi in una tradizione, o più tradizioni, è necessario, anzi fondamentale, ma può accadere di rimanere intrappolati in quella nicchia, per appassionati, in cui il “genere” può recludere e gli AFU possono correre questo rischio.

L’album, dicevamo, è molto interessante ed il poderoso attacco del brano d’apertura ‘Dolores’ ci fa capire subito con chi abbiamo a che fare: energia ed acidità al punto giusto controbilanciata da una non usuale cura stilistica.
Con ‘Head off’ e ‘Chantal’ ci immergiamo in sonorità dei primi anni ’80 di matrice britannica.

Nei brani successivi, ‘Quickie’, ‘Ain’t it funny’, ‘Mayan Veil’, ‘3/4’, ‘Peaceful’, per cupezza e ruvidezza, le sonorità si fanno più marcatamente anni ’90: riferimenti, per intenderci, possono essere Nirvana, Audioslave, Pearl Jam, ma senza incontrare abissi.

Con gli ultimi due brani gli AFU ci sorprendono con una virata inaspettata: ‘Ballad for the sun’, brano di semplice e rara eleganza declinata in blues, e ‘Tubero (The Tale of how 365 days made a revolution)’, brano decisamente intrigante con il quale fanno un salto nella “psichedelia” senza spingere troppo sull’acceleratore, lasciandoci così però un po’di acquolina in bocca.

Le lievi incertezze compositive non tolgono nulla a questa band che ha evidentemente una solida cultura musicale, ottimi musicisti ed è in evidente evoluzione, auguriamo pertanto loro di trovare il giusto equilibrio tra tradizione e specificità.

In buona sostanza gli AFU ci sono piaciuti molto per questo li abbiamo ascoltati con attenzione: AFU avete tutti i numeri per poter osare di più.

Autore Bruno Santoro

Bruno Santoro, giovane cinquantino, o giù di lì, di indole barbuta e dal piglio rockeggiante. Sostiene pervicacemente che dopo i ’70 siamo piombati nel nulla più assoluto e guai a contraddirlo in merito perché, come un lonfo, "gnagio s'archipatta poi ti sbiduglia e ti arrupigna". Citazionista compulsivo, come Woody Allen, ritiene che la vita sia un caos con poche oasi e qualche momento comico. Sposato d’impulso e padre per vocazione di due marmocchi che educa socraticamente, nel senso che lascia fare alla moglie, tal Santippe detta Pina, s’infervora ancora sul mancato rispetto delle file, ma solo quelle dei capelli ormai. Tra le cose che odia: buttare giù due righe autobiografiche, se il soggetto da biografare è lui. Tra le cose che ama: non buttare giù due righe autobiografiche, se il soggetto da biografare è lui.