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“Is this the life you really want?”, il ruggito di Waters

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“Is this the life you really want?”


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Ecco perché il nuovo album solista del genio creativo dei Pink Floyd resterà nel tempo. Nonostante le cause legali

Innanzitutto, perché scrivere del nuovo album di Roger Waters, visto che si contano già centinaia di recensioni, forse migliaia, includendo quelle dei fan negli innumerevoli siti web, blog, vlog eccetera?

Risposta molto semplice: perché non parlare di un album che sarà ricordato nei decenni a venire sarebbe una colpevole omissione.

E poi, motivo ancor più importante, perché in un’epoca – la nostra – in cui fare un album “impegnato” suona, nel migliore dei casi, anacronistico e risulta fatale dal punto di vista commerciale per la quasi totalità degli artisti, Roger Waters non esita un secondo e lo fa. L’onore al merito, osiamo dire, è d’obbligo.

Con la furia d’un tempo, a distanza di 25 anni da “Amused to Death” , suo precedente lavoro in studio, Waters ci restituisce un affresco spietato e adrenalinico della realtà odierna con

lo spirito e l’energia di un diciassettenne

citando le parole del fonico dell’album, Sam Petts-Davies.

D’altronde, chi ha familiarità con il personaggio, conosce la sua incredibile tempra d’artista. Non per niente David Gilmour, suo ex collega Pink Floyd, lo descrisse come uno che “si arrende solo quando muore”.

In effetti, dopo la sua uscita dalla storica band, seguita all’album del 1983 “The final cut”, Waters ha iniziato un percorso da solista quasi in sordina, vista l’evidente difficoltà di farsi accettare dal grande pubblico facendo a meno di un nome, quello dei Pink Floyd, che, oggi come allora, catalizza l’attenzione di intere generazioni di amanti della musica.

Eppure, il ruvido e fumantino Waters non ha mai mollato: dopo gli album “Radio KAOS” del 1987, “Amused to death” del 1992 e dopo alcune tournée per lo più incentrate sul suo repertorio Pink Floyd, a partire dal 2005 ha dato nuova linfa ad uno dei suoi capolavori, “The Wall”, portandone in giro per il mondo una versione live aggiornata e potenziata con tutte i mezzi che, nel frattempo, le tecnologie dello spettacolo hanno messo a punto.

La tournée, durata circa dieci anni, ha riscosso un incredibile successo ovunque, permettendo all’artista di raggiungere la definitiva consacrazione come genio creativo anche al netto della sua produzione targata Pink Floyd.

Ma un vero artista, si sa, non si limita ad eseguire i propri brani. Sente l’urgenza di creare, di dire la sua. Mancava solo la spinta decisiva per poter tornare in studio con un nuovo progetto musicale.

Credo che il successo trionfale dei suoi tour l’abbia sorpreso e convinto a fare nuova musica

spiega Mark Fenwick, manager dell’artista.

Comincia così il lungo periodo di gestazione di “Is this the life you really want?”, un album dalle atmosfere livide, pregno di citazioni e rimandi ai Pink Floyd e alle precedenti opere di Waters da solista.

Ma chi si aspettava un lavoro stanco, auto celebrativo e più conciliante con la vita e la società, credendo che le settantaquattro primavere del musicista inglese ne avessero smussato i denti, sarà rimasto a dir poco sorpreso.

Tanto per cominciare, l’investitura di Nigel Godrick come produttore, ha fatto balzare sulla sedia tutti coloro che seguivano i rumour sulla lavorazione dell’album.

Godrick, mago del suono già per i Radiohead, Thom Yorke, gli U2, Beck e Paul McCartney ha rappresentato una scelta molto oculata e saggia da parte di Waters, non solo per la chiara fama del produttore, ma anche considerando il fatto che è da sempre un dichiarato estimatore dei Pink Floyd. Inoltre, pare che sia stato proprio lui, durante il missaggio delle musiche di “Roger Waters The Wall”, a spingere il bassista a realizzare un progetto nuovo.

Il risultato è un album dal suono moderno, a tratti scarno, con un’intelaiatura solida lungo la quale si snodano le parole di Waters, probabilmente le più belle mai scritte dall’artista, inframmezzate da pregevoli parti strumentali che oscillano tra il presente e il passato: presente reso, dal punto di vista sonoro, dall’attenzione quasi pudica nei confronti dei contenuti testuali del concept costruito da Waters, affinché mai le parole vengano sopraffatte dalla musica; il passato che, invece, si materializza attraverso un abile e mai superficiale gioco di citazioni, sia nell’ambito dello stesso album che dal glossario Pink Floyd/Roger Waters.

Un’operazione talmente consapevole e accorta che il risultato finale, quando abbiamo ascoltato tutto l’album, suona incredibilmente naturale, al punto che forse risulta improprio perfino l’uso del termine “citazioni”.

Per quanto riguarda la scrittura di Waters, lo abbiamo già detto, ci troviamo probabilmente di fronte al suo capolavoro, per quanto riguarda la parte letteraria.

Il musicista è considerato uno dei maggiori parolieri viventi assieme a Bob Dylan e Neil Young, e “Is this the life you really want?” non solo conferma questa sensazione, ma addirittura ci fa pensare che alla sua considerevole età, Waters sia riuscito a superare se stesso.

Ed è questa la sorpresa più grande, l’elemento che ci entusiasma: la consapevolezza di trovarci di fronte ad un lavoro

intarsiato con gemme preziose

come recita “Wait for Her”, la decima traccia dell’album.

Gemme che talvolta hanno il volto di una donna, con la profondità del suo universo al tempo stesso salvifico e violato dall’uomo; gemme che altre volte sono opache e fredde come le stanze del potere descritte in “Smell the roses”, la canzone scelta come singolo; altre dall’aspetto fragile e imbrattate di fango, come il bambino inghiottito dal mare evocato in “The last refugee”, che non può fare a meno di ricordarci il corpicino senza vita di Alan Kurdi, piccolo naufrago ritrovato su di una spiaggia turca nel 2015 e che mille volte abbiamo rivisto in una di quelle fotografie che, di volta in volta, diventano il simbolo di una tragedia umana che sembra infinita e che all’infinito rinnova lo sconvolgimento in chi le guarda.

C’è molto di “Animals” in questo nuovo lavoro di Waters che, come sempre nel suo stile, è realizzato nella forma del concept album, espressione in cui l’artista è maestro riconosciuto a livello mondiale fin dai suoi esordi, da giovanissimo, proprio coi Pink Floyd: da “The Dark Side of the Moon” a “The Wall”, passando per “Wish You Were Here” fino, appunto, ad “Animals” del 1977, che da molti esperti è stato definito il più arrabbiato e crudo dei lavori dell’impareggiabile band, Waters ha dato prova di sé nel raccontare la società contemporanea con parole di fuoco, con metafore che colpiscono per il loro potere evocativo, ma anche usando nomi e cognomi, come quello della Tatcher, negli anni ’80, fino a quello di Trump, oggi, che non viene nominato esplicitamente nel nuovo album, ma che viene rappresentato nel libretto del cd in caricature a dir poco irriverenti e, ad abundantiam, “inserito” tal quale nella traccia che dà il nome all’album, attraverso uno spezzone audio tratto da una recente intervista. Tanto per non lasciare dubbi su chi siano le anime nere dei nostri tempi.

D’altronde è il minimo che ci si possa aspettare da Roger Waters, visto che nei suoi concerti recenti ha inserito, tra le scritte che animano il “muro” del suo immaginario e dei suoi mastodontici show, quell’inequivocabile “Trump is a pig”, “Trump è un maiale”.

E tutti sappiamo che non si riferisce di certo ad un omonimo del Presidente degli Stati Uniti d’America. Per la serie ‘politically correct? No, grazie’.

E proprio il concerto che Waters ha tenuto a Mexico City lo scorso settembre, davanti ad un pubblico stimato in 200 mila persone, per protestare contro il muro – reale e non metaforico come quello dell’artista – che proprio Trump vorrebbe ai confini tra Stati Uniti e Messico, dà l’idea della tensione morale e della passione politica che anima l’uomo prima che l’artista.

E sì che il “muro”, inteso come metafora dell’incomunicabilità tra gli esseri umani, è un’immagine forte, che attraversa le ere e non perde forza evocativa. Forse perché, per contro, l’essere umano non perde le brutte abitudini che lo contraddistinguono da che mondo è mondo.

E fu così che già in quell’indimenticabile 21 luglio del 1991, in una Potsdamer Platz gremita all’inverosimile, Waters compì il più grande esperimento che si ricordi di fusione tra un’opera rock e la Storia con la “s” maiuscola: quell’incredibile concerto, infatti, celebrava la caduta del muro di Berlino.

Ma che la Storia sia maestra senza allievi è cosa ormai amaramente risaputa. Per fortuna, aggiungiamo noi, ci sono gli artisti. E c’è Roger Waters.

Si potrebbero citare per interi paragrafi le occasioni in cui Waters ha profuso il suo impegno civile in campo artistico, ma sarebbe un esercizio superfluo ai fini di questo articolo.

Quello che maggiormente ci sta a cuore, è che questo album possa incontrare ogni fortuna non solo in senso commerciale – dove c’è qualità, c’è merito – ma anche dal punto di vista storico.

Non ravvisiamo, infatti, scrutando l’orizzonte a 360 gradi, molti esempi di artisti più che affermati, che invece di adagiarsi sui meritati allori, scelgano le spine degli aspetti più dolorosi e ‘poco fotogenici’ della nostra realtà come bacino d’ispirazione; se poi il risultato è ampiamente supportato da uno spessore artistico notevole, come nel caso di “Is this the life you really want?”, ci piace pensare di aver contribuito ad instillare nel lettore che non lo abbia ancora fatto, la voglia di ascoltare quest’opera per cercarvi, e magari trovarvi, spunti di riflessione e maggiore consapevolezza sui nostri difficili giorni.

Se poi quest’opera sia davvero memorabile anche per i posteri, dovremo attendere, se siamo così fortunati da arrivarci anche in tempi lunghi, la fatidica ‘ardua sentenza’.

A ben vedere, non sarebbe il primo caso in cui il vero valore di un’opera d’arte venga sancito ben dopo il suono della campana che segna la fine del match.

Ci spiace aver letto recensioni di blasonati esperti in cui si rinfaccia a Waters di non somigliare a Cohen nel modo di invecchiare, ma siamo anche contenti che, pur amando entrambi, ciascuno invecchi modo suo. Per quanto riguarda il commentatore in questione, presagiamo una vecchiaia poco coheniana e forse un po’ sclerotica.

Ci spiace anche della querelle sulla copertina di “Is this the life you really want?”, finita in tribunale per un presunto plagio ai danni dell’artista Emilio Isgrò.

Allo stato attuale, non sappiamo se davvero di plagio si tratti.
D’altra parte, si sa, l’Italia è il paese in cui si ricorre alla legge più “volentieri” e non può essere che così, se nel solo Lazio o nella sola Campania vi sono più avvocati che, per esempio, in tutta la Francia.
Ma sappiamo anche che in qualsiasi modo stiano le cose, la forza di questo album non viene intaccata di un millimetro.

Alla fine, per citare lo stesso Waters,

tutto ciò che conta è se ti commuove o no.

E il sentimento della commozione, lo garantiamo, è ciò che ci ha travolti ascoltando “Is this the life you really want?”

Roger Waters

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Autore Michele Ferigo

Michele Ferigo, napoletano, classe 1976, si occupa d’arte da sempre. È musicista, compositore, disegnatore e film-maker.