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Il mondo ricompensa più spesso le apparenze del merito che il merito stesso.
François de La Rochefoucauld

È possibile affermare che la meritocrazia sia uno dei presupposti delle società moderne occidentali. L’idea meritocratica è intrinsecamente fragile, perché gli esseri umani sono biologicamente programmati per favorire i propri amici e i propri parenti rispetto agli estranei.

Se non si coltiva, la meritocrazia scomparirà, perché tenerla in piedi è faticoso e quasi contro natura. Il mondo premoderno si fondava su presupposti che sono agli antipodi rispetto ad essa: sul lignaggio più che sui risultati raggiunti, sulla subordinazione volontaria più che sull’ambizione.

La società era governata da proprietari terrieri che erano tali per via ereditaria e a capo dei quali c’era un monarca, che avevano raggiunto la loro posizione combattendo e depredando e che poi giustificavano il loro ruolo attraverso una combinazione di volontà di Dio e di antica tradizione.

L’idea meritocratica ha assaltato, in modo rivoluzionario, tutti questi presupposti, ha cambiato il concetto di élite riformando il modo in cui la società assegna i migliori posti di lavoro. Ha trasformato l’istruzione, enfatizzando il valore delle pure competenze accademiche. E lo ha fatto ridefinendo la forza elementare che determina le strutture sociali.

Oggi, autorevoli sociologi ed economisti sostengono che sia l’assenza di meritocrazia a rappresentare il principale e più impervio ostacolo alla crescita.

Per meritocrazia s’intende quel sistema di valori che porta a premiare le capacità dell’individuo, indipendentemente dalla sua «provenienza», cioè dalla sua etnia, dalle appartenenze politiche, dall’essere uomo o donna, dalla sua condizione sociale.

Il basso livello di riconoscimento e valorizzazione del merito oggi presente in molti contesti socio produttivi del nostro Paese continua drammaticamente a caratterizzare le scelte in ambito politico, amministrativo, istituzionale e, in qualche misura, anche nel mondo delle imprese.

Mentre nel secolo scorso le principali economie occidentali sono riuscite ad evolvere da un’economia agricola a una industriale e post-industriale, con lo Stato che si sostituiva alla famiglia come creatore di opportunità, nel tempo la società italiana è stata sempre più preda di un diffuso clientelismo e di un familismo amorale, entrambi prosperati proprio per l’assenza di un contesto istituzionale credibile, in grado d’infondere fiducia nei cittadini.

Tutto ciò ha enormemente ostacolato l’emergere di una classe dirigente che fosse in grado di creare opportunità per le numerose ed eterogenee fasce della nostra società.

Si definisce la meritocrazia un sistema in cui le posizioni di potere e responsabilità sono assegnate in base al merito, cioè alle capacità, al talento e all’impegno di una persona.

Il termine fu coniato dal sociologo britannico Michael Young nel suo romanzo distopico ‘L’avvento della meritocrazia’ del 1958. Essa si basa sull’idea che le persone dovrebbero essere premiate per il loro talento e il loro lavoro, piuttosto che per la loro origine sociale, le connessioni o altri fattori non meritocratici.

I sostenitori sostengono che questo sistema è più giusto e produttivo rispetto ad altri, poiché promuove l’efficienza e la competenza. Inoltre, può contribuire a ridurre le discriminazioni basate su sesso, razza o origine sociale.

Tuttavia, ci sono anche critiche alla meritocrazia.

Alcuni sostengono che può perpetuare nuove forme di discriminazione, poiché chi ha accesso a migliori risorse educative e sociali ha maggiori probabilità di essere considerato meritevole.

Inoltre, può creare una classe elitaria, che monopolizza il potere e lo status sociale. Molti esperti, tra cui Daniel Markovits e Michael Sandel, la criticano per i suoi effetti negativi, come l’aumento delle disuguaglianze sociali e economiche. Essi sostengono che il sistema meritocratico spesso favorisce coloro che già hanno accesso a risorse ed opportunità superiori.

Nel gergo o ideale comune, è spesso associata alla competitività e al mercato del lavoro, dove le persone vengono premiate in base alle loro competenze e risultati. Tuttavia, ciò può portare ad una pressione eccessiva e ad una cultura del “tutto o niente”.

Nel complesso, riteniamo che un ulteriore sforzo sia necessario a districare la matassa di questioni che si pongono quando si utilizzano concetti come merito e meritocrazia per spiegare e giustificare le grandi disuguaglianze di reddito e di ricchezza che tuttora, e, in certi casi, sempre più, caratterizzano il mondo in cui viviamo.

L’idea di dare al merito il ruolo centrale nell’assegnazione dei posti e degli onori riconosciuti dalla società agli individui è certamente importante e risponde al desiderio di rimuovere discriminazioni basate sulla nascita, la ricchezza, l’etnia o il genere.

Ma definire e misurare il merito è tutt’altro che agevole. E una delle ragioni principali è che esso porta con sé un’inevitabile connotazione morale. La definizione stessa di ciò che è meritorio varia a seconda del contesto socio – istituzionale in cui ci si trova e della visione prevalente di società giusta. Ovviamente, dire che una società è buona se premia il merito ci porta ad una circolarità imbarazzante.

Se riteniamo che una “società buona” sia quella priva di grandi disuguaglianze, allora la caratterizzazione di ciò che è meritorio deve valutare se le azioni, per non dire le persone, candidate ad essere considerate meritevoli generino più o meno disuguaglianze.

Ciò implica anche che avere le competenze può non essere sufficiente per parlare di merito se quelle competenze sono al servizio di obiettivi in contrasto con la “società buona”.

I modi e le condizioni con cui sono state acquisite le competenze che hanno permesso di ottenere un determinato posto di lavoro d una certa posizione sociale non contano molto dal punto di vista del giudizio sulle competenze specifiche. Se la meritocrazia fosse semplicemente fatta coincidere con “carriere aperte alle competenze”, ci sarebbero poche obiezioni.

Si può anche dire che a sostegno delle competenze militano ragioni di efficienza e di non discriminazione: scegliere chi è privo di competenze e perciò offre una prestazione peggiore equivale a violare l’uguaglianza di rispetto.

Potremmo dire che ci troviamo di fronte a competenze “meritevoli” e, quindi, a prestazioni “meritevoli”, ma non necessariamente ad una persona meritevole.

In generale, le competenze acquisite dipendono dal proprio talento, dalle opportunità a cui si è potuto accedere e dai propri sforzi. Il talento è distribuito in maniera puramente arbitraria e non ha molto a che vedere con il merito: avere o non avere certe abilità non è sotto il nostro controllo.

Non possiamo dire che persone dotate di inclinazioni e di capacità innate siano più meritevoli di altre che hanno goduto di minori opportunità, pur essendosi sforzate molto per coltivare il talento ricevuto in dono. Ciò, naturalmente, non vuol dire che non debba essere selezionato chi ha più competenze, ma il motivo per farlo non è perché esse sono sistematicamente un segnale del merito individuale.

Se alla base di qualsiasi giustificazione delle disuguaglianze deve esservi il merito personale, il riferimento alle competenze riconosciute, e al successo anche economico che può derivarne, appare largamente insufficiente e forse anche fuorviante.

Occorrerebbe, infatti, che vi fosse il merito inteso soprattutto come sforzo, e come disponibilità a farsi carico di rischi e responsabilità fuori dell’ordinario, e, qualora le competenze includano anche il vantaggio genetico e quello sociale di accesso a migliori opportunità, premiarle non equivale a premiare il merito.

Oggi, possiamo dire che i Paesi meritocratici hanno una crescita più veloce dei Paesi che non lo sono. Le aziende pubbliche che assumono persone in base al merito sono più produttive delle aziende familiari che lasciano spazio ai favoritismi.

E le migrazioni di massa scorrono soltanto in una direzione: dagli Stati che non hanno compiuto la transizione meritocratica a quelli che invece l’hanno compiuta.

La meritocrazia cambia e può determinare trasformazioni storiche, basti pensare che, da sola, è stata un presupposto delle quattro grandi rivoluzioni che hanno creato il mondo moderno, la più determinante delle quali la Rivoluzione industriale, ha trasformato le basi materiali della civiltà e ha scatenato le energie dei self-made men.

Fortuna è spesso il nome che si dà al merito degli altri.
Étienne Rey

Autore Massimo Frenda

Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.