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La pace è qualcosa che non conosciamo, che cerchiamo e immaginiamo soltanto. La pace è un ideale.
Hermann Hesse


Purtroppo, ancora oggi il mondo è insanguinato da troppe guerre locali e da focolai di tensione, capaci di far precipitare la situazione internazionale in una crisi di vaste proporzioni.

Il Medio Oriente è forse la regione a più alto rischio per il contrasto arabo-israeliano che si trascina da troppi decenni, per l’irrisolta questione palestinese, per l’importanza strategica della regione riguardo agli approvvigionamenti di petrolio.

La pace è senz’altro il bene più grande a cui l’umanità possa aspirare, ma è stata anche tante volte negata da conflitti fra popoli e guerre civili, che hanno portato al genere umano sofferenze indicibili.

La storia umana è caratterizzata solo da brevi periodi di pace e le guerre sono sempre state, nel passato, il mezzo preferito per risolvere le controversie. Solo di recente possiamo affermare che l’umanità, nella sua maggioranza, ha potuto godere di un lungo periodo di pace.

Infatti l’Europa, nel passato teatro di immani catastrofi belliche, dalla Seconda guerra mondiale a oggi ha conosciuto decenni di non belligeranza, se si esclude il tremendo conflitto nei Balcani successivo al dissolvimento della Jugoslavia e l’aggressione dell’Ucraina da parte della Russia.

Ci sono stati quasi 80 anni continuativi di pace, che rappresentano un’eccezione; mai un periodo tanto lungo senza guerra ha caratterizzato la storia del Vecchio Continente.

La pace è quella condizione che consente all’umanità di aspirare anche ad altri importanti valori, che hanno dato significato al lungo cammino umano, come la libertà, la giustizia, le democrazie.

È infatti impossibile poter godere della libertà, senza che vi sia la concordia fra gli uomini, così come, ovviamente, non può esserci alcuna forma di giustizia in presenza della violenza e della sopraffazione che ogni ostilità comporta. Allo stesso modo, la costruzione della vera democrazia si può avere solo in condizioni di pace duratura.

Scrittori, filosofi, profeti di religioni diverse, hanno sempre ammonito l’umanità a fare il possibile per non perdere il bene prezioso della pace, ma, troppo spesso l’individuo, nel passato, si è lasciato sopraffare dall’istinto ferino che la razionalità non è riuscita a controllare, dal fanatismo, dall’odio politico o religioso, dal gusto della violenza o, più semplicemente, dal bieco egoismo di difendere i propri interessi a danno di quelli degli altri.

Il valore della pace è assoluto, cioè non subordinato ad alcuna condizione, in quanto la sua perdita comporta un danno sempre superiore a qualsiasi altro diritto violato o torto subito. Ciò non significa che bisogna essere succubi di qualunque ricatto, ma semplicemente che non bisogna mai smarrire la via della ragione e della ricomposizione pacata e negoziata di quei contrasti che la dialettica dei rapporti sociali e internazionali fa emergere sempre.

L’ideale immenso della pace viene compreso dagli uomini quasi sempre quando questi l’hanno irrimediabilmente perduta, ma allora diventa anche più difficile vincere l’odio che la spirale della violenza ha generato.

Una delle chiavi fondamentali per costruire la pace è il dialogo. Parlare, ascoltare e cercare di capire l’altro sono azioni essenziali per risolvere i conflitti e creare relazioni positive. Spesso, i conflitti nascono dalla mancanza di comprensione reciproca.

Quando le persone non si prestano attenzione reciproca o non cercano di mettersi nei panni degli altri, si creano incomprensioni e tensioni. Il dialogo, invece, permette di trovare soluzioni accomodanti, di evitare lo scontro e di costruire ponti tra persone e comunità.

Quando si parla di pace si dovrebbe quindi distinguere almeno due dimensioni: l’assenza di guerra, che può raggiungersi, seppur solo temporaneamente, anche senza il ristabilimento della verità e della giustizia, dunque come congelamento di un conflitto, oppure una concezione piena, rotonda della pace, che però presuppone una serie di condizioni ancor più difficili da realizzare, e la fine del conflitto con un vincitore da una parte e un vinto dall’altra.

La storia insegna che qualsiasi vero negoziato di pace è iniziato quando la guerra si è definitivamente conclusa, non quando si è fermata quasi fosse un time-out per paura di una sua degenerazione.

Il discorso pacifista da piazza o da talk show, purtroppo, mischia lo stato con l’atto della pace, ci si illude che oggi, nello stadio più delicato di ogni folle guerra, di un drammatico ed instabile quadro politico si possa giovare di un banale equilibrio.

Quando parliamo o sentiamo parlare di pace, dovremmo davvero entrare nella complessità della vicenda, non abbandonarci alla comprensibilissima ma irrealistica aspirazione a contemperare in un binomio di poco senso le ragioni dell’aggredito con quelle della fine delle ostilità.

La guerra non piace a nessuno, pare incredibile doverlo sottolineare, e, soprattutto, non piace a chi l’ha subìta. Bisogna però capire, con un surplus di onestà intellettuale, che dare ragione all’aggredito significa sostenerlo senza se e senza ma nella sua resistenza, armata ovviamente, all’invasore, finché quest’ultimo non cessi, per qualsiasi motivo, la sua azione. Poi, certo, sarebbe un sogno se un domani la grazia calasse sugli autori di questa o quella guerra e li facesse desistere dai loro intenti di conquista.

Tutti sappiamo, spero, che la pace non è solo assenza di guerra o di violenza diretta, ma un processo positivo di partecipazione attraverso i quali gli individui e le comunità lavorano insieme, quotidianamente, per costruire società giuste, inclusive, sane, sostenibili e tolleranti.

La realtà dei nostri giorni descrive, purtroppo, un mondo molto diverso: un mondo in guerra dominato dallo scontro tra i più diversi interessi personali, nazionali e economici. Anziché cogliere le straordinarie opportunità offerte dalla fine della guerra fredda e dalla caduta del Muro di Berlino, si è scelto di inseguire il disegno di un ordine mondiale gerarchico fondato sulla legge del più forte e sul presunto ‘diritto di fare la guerra’, sulla de-regulation istituzionale ed economica e sulla competizione selvaggia.

È in questo contesto, foriero di violenze e sofferenze, divisioni e contrapposizioni a tutti i livelli, che siamo chiamati a riscoprire il dovere di fare la pace. Essa è l’interesse primario di tutte le genti e le nazioni. La pace è la priorità. Ne abbiamo bisogno come i polmoni hanno bisogno dell’ossigeno.

Per questo, i governanti hanno la responsabilità primaria di lavorare incessantemente per fermare la guerra e creare le condizioni per ricostruire la pace. Se non lo fanno vengono meno alla loro stessa ragion d’essere.

Per spezzare la spirale mortifera dell’escalation, è necessario togliere la parola alle armi e restituirla alla politica. Non è vero che non si può fare niente. Invece della corsa alle armi si può alimentare una lungimirante sequenza di iniziative politiche improntate alla ricerca delle condizioni di una pace giusta e duratura.

Invece dei propositi di vittoria, vendetta e umiliazione che stanno portando ad una guerra totale si possono ricreare le condizioni per la ripresa del dialogo politico. È la società della cura che deve crescere in ogni luogo: donne, uomini, giovani e anziani che si prendono a cuore gli altri anziché pensare solo a sé stessi, che praticano la cultura della solidarietà anziché quella dell’indifferenza, che cercano il bene comune anziché quello individuale, l’interesse generale anziché quello particolare, l’amicizia sociale anziché la competizione selvaggia.

È così che le persone, con piccole e grandi responsabilità, dentro e fuori le istituzioni, fanno la pace, tutti i giorni, in modo artigianale. Oggi più che mai, a nulla vale invocare la pace se non si è disponibili a farla in prima persona. Altrimenti, c’è il precipizio.

Ogni guerra ha una costante: il 90% delle vittime sono civili, persone che non hanno mai imbracciato un fucile. Che non sanno neanche perché gli arriva in testa una bomba.
Gino Strada

Autore Massimo Frenda

Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.