Durante la pandemia, ci siamo abituati a sentire parlare di app per il tracciamento dei contatti, di geolocalizzazione e di tecnologie utilizzate per monitorare i nostri spostamenti.
È successo anche da noi, con soluzioni proposte e spesso accolte senza troppo clamore. Il tutto per fermare la diffusione del virus.
Eravamo di fronte a una minaccia globale, e così è nata una giustificazione: il tracciamento era necessario per la salute pubblica, per il bene di tutti.
Eppure, dietro questa logica di emergenza, si nasconde qualcosa di più profondo: una nuova forma di controllo sui nostri corpi, una sorveglianza sociale che, pur motivata da circostanze straordinarie, rischia di diventare permanente.
In Cina in particolar modo ma, pare, anche in Corea del Sud, il sistema è stato usato in maniera particolarmente pervasiva e, specialmente nella prima, sembra quegli strumenti siano diventati una quotidianità con cui non è possibile fare altro che convivere.
Non è una novità che i governi, in tempi di crisi, amplino i loro poteri. Ma c’è una differenza sostanziale: in passato, il controllo era visibile, spesso brutale. Oggi, invece, è silenzioso, tecnologico, quasi invisibile e, ciò che è peggio e su cui non ci fermiamo a riflettere, è una scelta dei singoli.
Ci siamo convinti che, in cambio di comfort, comodità o intrattenimento, possiamo cedere un pezzo della nostra privacy, senza riflettere troppo su dove questo ci porterà.
Pensiamo a ciò che succede ogni giorno.
Usiamo Google Maps per trovare la strada più veloce, concediamo alle app di gioco di conoscere la nostra posizione, lasciamo che i social network registrino ogni nostro spostamento per suggerirci nuovi amici, ristoranti o eventi.
Siamo noi a condividere con il popolo della rete se stiamo prendendo un aperitivo al mare e come sta il nostro cane dopo la visita dal veterinario.
È tutto molto pratico, tutto molto utile. Ma a quale costo? Abbiamo davvero compreso cosa stiamo cedendo in cambio di queste comodità? Siamo disposti a rinunciare alla nostra libertà di movimento, alla nostra intimità, alla nostra riservatezza, solo per ottenere un servizio più efficiente?
La verità è che la sorveglianza non è più imposta dall’alto, come accadeva nei regimi totalitari del secolo scorso. È una sorveglianza che abbiamo scelto noi e che, spesso, difendiamo con convinzione. Siamo arrivati al punto di accettare il tracciamento senza nemmeno più domandarci se sia giusto o necessario.
E questa è la vera rivoluzione: non ci viene tolto nulla con la forza, siamo noi a offrirlo su un piatto d’argento.
La tecnologia che abbiamo in tasca ci monitora e ogni nostro passo viene registrato, analizzato e sfruttato per scopi che spesso ci sfuggono. E lo scegliamo noi con un inconsapevole click.
Stiamo entrando in un’epoca in cui il controllo dei corpi e delle menti non passa più dalle manette, dalle prigioni o dalle dittature. Passa dai nostri smartphone, dalle app, dai servizi che ci promettono facilità di vita in cambio di informazioni su di noi.
È una logica biopolitica, come la definiva Foucault, che regola i corpi attraverso la sorveglianza continua, ma stavolta non siamo vittime: siamo complici.
Ecco il punto. La questione non è solo ciò che i governi fanno con questi dati, ma ciò che noi stessi scegliamo di permettere. Non ci sono più poliziotti che ci seguono per le strade; siamo noi a geolocalizzarci ogni giorno, volontariamente, per ricevere un servizio migliore.
Ma questa scelta, che a prima vista sembra innocua, ci spinge verso un mondo in cui la libertà non è più data per scontata, ma concessa in cambio di dati che regaliamo, oltretutto, ad aziende private. Buona navigazione.
Siamo di fronte a un bivio: continuare su questa strada, senza preoccuparci troppo delle conseguenze, o fermarci a riflettere su cosa stiamo realmente sacrificando.
La sorveglianza è diventata un’abitudine, quasi una seconda pelle. Ma non dobbiamo dimenticare che ogni tecnologia, ogni app che accettiamo senza pensarci troppo, rappresenta un piccolo passo verso un controllo sempre più capillare.
La domanda finale non è se siamo sorvegliati. Lo siamo, e lo sappiamo. La vera domanda è se siamo ancora capaci di fermarci e riprenderci quella libertà che, un po’ alla volta, stiamo consegnando senza nemmeno rendercene conto.
Autore Gianni Dell'Aiuto
Gianni Dell'Aiuto (Volterra, 1965), avvocato, giurista d'impresa specializzato nelle problematiche della rete. Di origine toscana, vive e lavora prevalentemente a Roma. Ha da sempre affiancato alla professione forense una proficua attività letteraria e di divulgazione. Ha dedicato due libri all'Homo Googlis, definizione da lui stesso creata, il protagonista della rivoluzione digitale, l'uomo con lo smartphone in mano.