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Ricetta esoterica del Risotto alla milanese

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Risotto alla milanese - foto e pietanza dell’Investigatore Culinario - Milano
Risotto alla milanese - foto e pietanza dell’Investigatore Culinario - Milano


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Ovvero di ‘riso allo zafferano, senza midollo‘ – solo per Iniziati

Perché esoterica?

Perché ho cercato di studiare la ricetta cercando di utilizzare il Metodo iniziatico, approfondendo esotericamente l’argomento fino a trovare una possibile linea simbolica dei passaggi di realizzazione, non solo tentando di analizzare razionalmente, ma sforzandomi anche di trovare una comprensione più profonda attraverso la simbologia, appunto, nella tentativo di avvicinarmi un po’ di più alla vera essenza.

È necessario anticipare che il riso è la più antica pianta coltivata al mondo da oltre 6.000 anni ed è il cereale più consumato dall’umanità.

La denominazione botanica è Oryza sativa e sono riconosciute e coltivate tre sottospecie, ognuna delle quali ha un gran numero di varietà. Se ne può fare un uso molto versatile.

Il riso ha una profonda storia sociale storica ed è capace di dare identità al popolo che lo coltiva, è simbolo di abbondanza e prosperità e, lanciato sugli sposini, equivale ad augurare loro fertilità e felicità.

Usato dapprincipio anche in cosmetica, Galeno lo consigliava come rimedio farmacologico. Nel XVII sec. le porcellane cinesi destinate ai nobili e ai regnanti d’Europa, erano trasportate in contenitori riempiti con riso per attutire i colpi. Senza citarne le varie e più o meno famose bevande alcoliche derivate.

Si credeva che il riso avesse un’anima, una forza vitale, per questo si sono sviluppati rituali e cerimonie complesse, dalla forte carica emotiva, che, successivamente, si sono evoluti in una specie di culto che accompagna tutto il ciclo della sua coltivazione.

A partire dalla fase di preparazione della risaia, ritenuta sacra, alla conservazione delle sementi, passando alle fasi della crescita delle piante, fino alla lavorazione, all’immagazzinamento e alla prima degustazione, vengono celebrati diversi riti volti a mostrare l’importanza primordiale di ottenere un buon raccolto per risparmiare fame e carestia alla collettività.

Per questo, ha accompagnato lo sviluppo di civiltà secolari ed esiste una vera e propria mitologia, in alcuni casi trasmigrata in religione. Esistono, infatti, anche i sacerdoti del riso.

Semina e raccolto si svolgono secondo il calendario lunare, in una visione ciclica. In molti Paesi il riso è protagonista di riti propiziatori in occasione del solstizio d’inverno, ma anche durante funzioni funebri e, in alcune parti del mondo, tuttora il riso è talmente sacro che non è possibile mangiarlo se non prima di essersi purificati con abluzioni speciali.

In Italia il riso è uno dei più importanti alimenti che, assieme alla pasta, ha accompagnato ed identificato lo sviluppo della cucina. Nel 1475 Galeazzo Sforza, Duca di Milano, donò un sacco di seme di riso al duca di Ferrara, Ercole I d’Este, e, da allora, per la sua forte resa si diffuse nella provincia di Milano, Pavia, Novara e Vercelli, trovando un habitat ideale, e poi oltre.

Leonardo da Vinci fu incaricato di conciliare esigenze di bonifica delle paludi e di distribuzione d’acqua alle risaie. Mutò il paesaggio di vaste aree incolte, fatte di acquitrini e brughiere, che venivano allagati con la semina del riso per tornare asciutti al momento del raccolto.

Il riso comparve la prima volta in Occidente con il ritorno di Alessandro il Grande a Babilonia dall’estremo Oriente.

Lo zafferano, invece, era già presente in Persia a quel tempo e Alessandro Magno e le sue truppe si immergevano in vasche d’acqua e zafferano per curare le ferite patite in battaglia.

Ne troviamo traccia già nella Bibbia, dove il Crocus sativus, il nome della pianta, si trova citato nel giardino del Cantico dei Cantici di Salomone. È perfino raffigurata nel palazzo di Cnosso e menzionato dagli Egizi nel Papiro di Ebers. Viene nominato da Ippocrate, Sofocle e Omero nell’Iliade, come pure Virgilio e Plinio, e Ovidio la menziona quando parla dell’amore di Croco e Smilace.

Il nome deriva da una parola persiana che identifica il croco, la pianta dello zafferano, e che significa giallo.

Lusso di regnanti di tutte le epoche, è stato utilizzato anche per altri usi: afrodisiaci, curativi e per tingere stoffe, usate anche durante i riti propiziatori e nelle cerimonie religiose.

Per ottenere questa spezia, simbolo di ricchezza e raffinatezza, detto appunto oro rosso, si utilizzano solo gli stimmi del fiore di colore rossastro, che sono solo tre, e il lavoro per raccoglierlo è ancora esclusivamente a mano e di pazienza.

Il risotto, al contrario dei suoi due principali ingredienti, non ha una storia esoterica, ma pare che le prime radici andrebbero ricercate nelle tradizioni della cucina kosher medievale.

Altra leggenda, invece, vedrebbe il passaggio dalla Sicilia mediante mercanti ebrei, ma la più accreditata storia è attestata da un documento ritrovato nella biblioteca Trivulziana di piazza Castello a Milano, secondo cui il piatto nacque nel settembre del 1574 durante le nozze della figlia del fiammingo Mastro Valerio di Fiandra che, venuto da Lovanio, lavorava come pittore alle vetrate del Duomo e che in particolare terminò la quella di Sant’Elena.

L’Apprendista del Maestro era soprannominato Zafferano, perché aveva il vezzo di mescolare questa spezia ai colori per renderli più vivaci. Il suo Maestro gli ripeteva che, per abitudine e distrazione, avrebbe finito per metterlo accidentalmente nel cibo che stava mangiando, convinto di dire un colmo. L’Apprendista ci pensava e stava zitto, come celava anche il fatto che fosse innamorato segretamente della figlia del Maestro, ma questa fu promessa ad un altro.

Durante il pranzo di nozze al bettolino della cascina di Camposanto, dietro il cantiere del Duomo, l’Apprendista, come segno del suo intervento, convinse l’oste ad aggiungere la spezia nel risotto, che, al tempo, era servito semplicemente bianco col burro, e si chiamava ‘riso in tegame’ (di coccio), perché solo nel 1854 prese il nome di ‘risotto’.

Questa era una variazione di come usava il cuoco degli Este a Ferrara intorno al 1550 che cita un riso bollito in brodo grasso nel suo libro ‘Banchetti, composizioni di vivande e apparecchio in generale’.

Quindi, dalla tavolozza dei colori al piatto, diventato color oro, simbolo di ricchezza e prosperità, e di sapore intenso; dopo un temporaneo sbalordimento per l’inaspettata novità, mandò in visibilio i commensali invitati alle nozze. La ricetta fu presto una moda diffusissima in tutta la città, rendendola un’identificazione tipica del luogo.

Nel risotto allo zafferano, ‘acuto d’odore e sfacciato di sapore’, è stata riconosciuta l’espressione di una cucina fatta per uomini forti e sani, ed è questa robustezza il carattere della cucina milanese che si sposa con l’onestà dei cibi, che deriva dalla loro semplicità.

⸫ Ricetta

Premessa fondamentale per i ‘forestee’ è che il risotto è riso cucinato per assorbimento, partendo da un fondo grasso; e quindi nulla ha a che vedere con il riso bollito in un liquido che può essere acqua, brodo, latte o tè.

Da qui ne deriva l’avversione degli abitanti del sud Italia che, durante la seconda guerra mondiale, sulle frontiere settentrionali si vedevano arrivare come rancio un riso sfatto, spacciato per risotto. Disgusto tramandato poi ai figli, che non hanno nemmeno avuto modo di vederlo.

Per realizzare un risotto a regola d’arte esistono tre gradi: tostatura, tiratura, mantecatura.

Si devono tegolare attentamente gli ingredienti, scegliendoli liberi da inquinamenti e di buoni costumi, sinceri e genuini. Primo fra tutti il riso, che la Tradizione vuole che sia di stirpe Vialone o Carnaroli, coltivato con tutti i santi crismi e le sane modalità.

Va sottolineato che appena raccolto dalla pannocchia, il chicco di riso prende il nome di risone o riso vestito. Per essere usato come alimento, il riso è spogliato, sbramatura.

Se cerato con la sua gemma e invecchiato 7 anni, certamente possiede maggior pregio di nutrimento e una miglior qualità alla cottura. Uno dei primi scritti a descrivere le proprietà dell’invecchiamento del riso è un antico testo sanscrito di medicina del 1000 a.C.: il Charaka Samhita – Sutra Sthana.

Sono necessari strumenti adatti al Lavoro, perciò serve un sacro contenitore, come un Tempio: una casseruola rotonda a bordi alti di rame stagnato. In assenza del rame si dovrà ricorrere ad alluminio o acciaio. È fondamentale anche un mestolo, in milanese il cazzuu, meglio se di legno d’ulivo.

Il procedimento è da osservare con scrupolo.

Sminuzzato accuratamente un pezzetto di cipolla, la scigùla in milanese, deve soffriggere lungamente con pazienza, allungando al bisogno con dell’acqua, in modo che diventi trasparente e tenera, con un pezzetto di burro di ottima panna di latte, e non di latticello, proveniente dalla Pianura Padana o, ancor più di pregio, dall’alta montagna.

Fino a tre pugni sarà, invece, la misura della quantità di riso per ogni commensale affamato, e una in più per la pentola, si diceva una volta.

È fondamentale operazione, siamo al 1° grado, la tostatura in una padella separata scaldata a fuoco alto per alcuni minuti, rimescolando per uniformità, come per sgrossare i chicchi, che consente il rilascio graduale dell’amido contenuto nel riso, perché così lo rendono la naturale cassa di risonanza dei sapori, per evitare che, durante la cottura, i chicchi si disfino, rendendo il risotto troppo colloso.

Toccandoli ripetutamente devono risultare caldi al tatto, fin quando le dita sopportano il calore, poi si uniscono, quindi, al soffritto anzidetto.

A questo momento una volta amalgamato, si bagna con buon vino bianco o con mezzo bicchiere di bollicine, per dare al risotto il carattere spiccato di note acide e per ‘sgrassare’ il palato. Nelle ultime evoluzioni c’è l’uso di particolari birre o altri alcoolici. Deve sentirsi il tipico suono di sfrigolio.

Asciugato ed evaporato, a poco a poco, si aggiunge buon brodo di lesso di manzetta fatto in casa lentamente con ingredienti padani, e ancor meglio montani o, alla più moderna maniera, sola acqua bollita e salata leggermente.

Il chicco riceve sale solo nei suoi primi 7 minuti di cottura. Portato a bollore lento, un mestolo per volta, quando è evaporato il precedente, Solve et Coagula. Così comincia il lavoro del girare e rigirare metodicamente e con ritmo, come un costante scalpello sulla Pietra, siamo al 2° grado.

In questa fase del rituale, i chicchi dovranno cuocere, mantenendo ognuno la propria personalità, e cioè non impastarsi e neppure aggrumarsi. Un tocco di cremosità ulteriore potrebbe essere l’aggiunta di un sorso di latte intero di ottima qualità.

Trascorso il tempo sufficiente, a circa metà cottura, secondo la tipologia di riso utilizzata ma circa dopo 12 minuti, inizia la tiratura e siamo al 3° grado.

I chicchi gonfiati ed evoluti nel loro esser originari semi, dovranno coniugarsi al Sole, rappresentato dallo zafferano, opportunamente italiano, personalmente caldeggio quello di Navelli, i cui pistilli dovranno precedentemente unirsi all’acqua calda o al brodo. Invece, due cucchiaini da sale per commensale se già ridotto in polvere.

Così il brodo zafferanato andrà a colorare d’oro l’Eggregore dei chicchi intrisi dei suddetti succhi, ognuno indipendentemente, non appiccicato ai fratelli. Il riso non deve essere scotto e, prima del termine della cottura, bisogna unire abbondante Parmigiano grattugiato.

A fuoco spento, in quantità appena sufficiente, secondo il numero dei commensali a untare ogni chicco, senza affogarlo, si aggiungerà di nuovo il burro, freddissimo, della stessa qualità sopra descritta.

Qui inizia l’energica mantecatura per raffreddare e areare bene il Tutto, lo shock termico valorizzerà la necessaria armoniosa cremosità. Il coperchio è d’obbligo, a protezione dell’ultima alchimia. Il riso si assesterà e finirà di rilasciare l’amido per creare il giusto e perfetto connubio con gli altri ingredienti.

Al momento di servire, il tavolante porterà il risotto su di un piatto piano, livellato e all’onda, mai rinsecchito. Tutto giusto e perfetto.

E, come diceva il grande Carlo Emilio Gadda:

Il profondo, il vitale e nobile significato del risotto alla milanese non potrà essere viziato con qualche fungo fresco trifolato nella giusta stagione e nemmeno con qualche scaglia di tartufo cascata sul risotto servito.

Il riso, dopo esser nato nella terra e dall’acqua e cresciuto all’aria, ritrova con il fuoco in cottura l’ultimo essenziale elemento, che aurato nel battesimo col prezioso zafferano, si è trasformato in una divina sublime pietanza.

Tutte le tradizioni partono da lontano e sono l’esito di incontri, movimenti ed elaborazioni tra saperi diversi, in questo caso sapori.

I chicchi sono individui che fanno congiuntamente il proprio percorso, ma in singolarità. Ciò che ne risulta è un’opera congiunta in Eggregore, messi nelle condizioni di partecipare in comunione, apportando il proprio contributo all’Opera.

Una nota speciale deve essere riservata al figlio del risotto alla milanese: il risotto al salto, frutto della speciale attenzione milanese all’evitare sprechi.

Proprio per utilizzare gli avanzi di risotto, derivanti da dosi più delle volte appositamente maggiorate, nasce questo delizioso piatto, croccante per la caratteristica crosticina. Burro di alta qualità in una padella antiaderente a fuoco vivo, si livella il riso avanzato, in uno strato di non meno di un centimetro.

Durante la cottura si deve scuotere la padella per evitare che si attacchi. Appena formata la crosta, per indorare anche l’altra faccia, si rivolta come una frittata, con quel rischioso salto che ha dato il nome al piatto, consentito solo ai maestri.

Negli anni ho visto accostarci qualunque vino, anche i più improbabili, l’abbinamento dei vini ai risotti è soggettivo e non segue rigidissime regole, ma sicuramente va prestata però attenzione a non contrastare i gusti, vanificando la scelta del vino utilizzato per la preparazione.

L’aroma del vino usato in cucina, se strutturato o aromatico, non deve sovrastare il vino scelto poi in abbinamento: non dovranno esserci contrasti tra dolce e secco, aromatico e neutro, tannico e acido, affidandosi per la scelta anche agli aspetti visivi, olfattivi e gustativi.

Sarebbe buona regola utilizzare lo stesso tipo di vino usato per la preparazione del piatto, eventualmente in una variante leggermente più strutturata. Stesso discorso per birra o altro.

Al proposito Il mio abbinamento ideale con il risotto giallo non lo dirò in quest’occasione, ma seguite i Vostri gusti e buon appetito, anche se non si dovrebbe dire!

Il percorso dove ci porterà?

Stay tuned! Restate sintonizzati e direi anche sincronizzati!

El risott a la milanesa

Gina, Gina, stavolta chi el risott
voeui cural mi. Prepara bella netta
la padella, che sem in sett o vott.
El broeud te ghe l’ee bon? Sì? De manzetta?
Famel on poo saggià. Bon. bon, va là,
sent che odorin? El fa resuscità.
El ris l’è del vialon rivaa su jer?
L’è mondaa? Torna a dagh ona passada.
Sù, sù, mett in padella el to butter
e on tochell de scigola ben tridada.
Mett a foeugh, fà tostà movend sul fond
cont el cazzuu a fal de color biond.
Dent el ris. Ruga. Bagnel cont el vin
bianch, magher (mezz biccer). Dent el zaffran.
Ruga. Fagh sugà el vin. Sent che odorin!
Sugaa? Giò el broeud da man a man.
Boffa sott che’l dev buj a la pù bella
de sentii a sparà in de la padella.
Bagnel del tutt e rangiel giust de saa.
Lassel coeus. Brava. Gratta giù el granon.
Oi, oi sott, sotta foeugh chel s’è incantaa. Gina, che risottin, che odor de bon! Ten rugaa veh! Adasi e deppertutt. Varda. l’è quasi all’onda, on cinq minutt.
Giò che l’è pront. L’è moll? Fa nient, el ven.
Dent el grana abbondant e on bell tocchell de butter peu mantecchel ben, ben, ben,
menand sù svelt che’l ven e bon e bell.
Quest chi sì l’è on risott che var la spesa,
on risott propi faa a la milanesa!
Cott al punt, manteccaa a la perfezion, bell, mostos, el te fà resuscità
anca on mort ch’è creppaa d’indigestion.
Tirel giù e mett in tavola che in là con tant d’oeucc e sospiren guardand chi.
Sérvel, che vegni subit anca mi.
La Cusinna de Milan – Quatter Rtcett, Quatter Scherz, Quatter Penser – de Giusepp Fontana – chef – poeta del Savini – 1938

Autore Investigatore Culinario

Investigatore Culinario. Ingegnere dedito da trent'anni alle investigazioni private e all’intelligence, da sempre amante della lettura, che si diletta talvolta a scrivere. Attratto dall'esoterismo e dai significati nascosti, ha una spiccata passione anche per la cucina e, nel corso di molti anni, ha fatto una profonda ricerca per rintracciare qualità nelle materie prime e nei prodotti, andando a scoprire anche persone e luoghi laddove potesse essere riscontrata quella genuina passione e poter degustare bontà e ingegni culinari.