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La Dimora della Pace

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Kariakoo market


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Dar es Salaam
Settembre 2002
Arriviamo nella vecchia capitale della Tanzania stanchi. Ho viaggiato tutto il tempo nel bagagliaio della jeep con Serafino che se la rideva. Un viaggio lungo e lento. Hai modo di vedere e pensare. Riflettere e capire.

La strada rossa è costantemente mangiata dalle ruote. Dietro lascia persone. Bambini e donne, soprattutto, con carichi sopra le testa. Cibo. Acqua. Kilometri percorsi a piedi lungo i cigli delle strade. Un luogo d’incontro per questi viaggiatori costretti. Camminano, queste donne, parlando e raccontandosi. Mani nelle mani. Dita che stringono altre dita. I pesi sembrano così leggeri. I sorrisi ti inondano di disagio e irrequietezza. Camminano. Procedono seguendo i margini della foresta alternati ai margini della boscaglia alternati alla savana.

Il cielo cola piombo e il piombo si lacera al contatto con i colori dei loro vestiti coronati dai sorrisi vivi. La nostra lentezza assume la velocità della polvere. I bambini seguono le madri o, spesso, sono soli. Hanno modo di giocare e di ridere. Piedi nudi che sorreggono piccoli corpi. Portano il loro carico, la propria parte di vita che calpesta la terra. Imprimono impronte effimere nel fango. Il lento passo di quelle donne, gli sguardi di quei bambini, la velocità della polvere scandiscono il nostro andare.

Dar es Salaam. La Dimora della Pace voluta dal sultano di Zanzibar Majid bin Said nella seconda metà dell’ ‘800. Fu costruita vicino alla vecchia città di Mzizima.  L’oceano è lì davanti. Azzurro sotto quei pochi raggi di sole. È azzurro. La sabbia è accecante. Qualcuno è seduto ad osservare le onde. La sua mente è lì nel mezzo. Gli edifici coloniali rispecchiano il colore della sabbia. Poco distante il mercato del pesce. L’odore forte penetra ogni parte del corpo. Ispessisce l’aria intorno.

Il mercato è luogo franco, come lo Swahili qui parlato. Arabi, indiani, persiani, bantu per secoli hanno interscambiato culture e mercanzie, credi, filosofie e lingue.
Dar es Salaam è solo il ricordo di quei secoli. Le dominazioni europee l’hanno trasformata in una tipica città coloniale, poi abbandonata. Un tempo era la capitale di questa terra.
Per comodità sono qui rimaste molte ambasciate straniere e il cuore finanziario dello Stato. La nuova capitale, Dodoma, è solo un grande, confuso e frastornato villaggio nel cuore della Tanganika.

Il mondo di Dar es Salam sembra disgiunto dal resto della Tanzania. Povertà e ricchezza si mescolano lasciando intuire poco della loro differenza. C’è decadenza nella fisionomia di questa città, ma non nel tessuto umano. Gli edifici, le strade, le donne e gli uomini sembrano essere stati lanciati dal cielo in riva all’oceano. Una caduta libera che ha mescolato in un nuovo mondo, in un nuovo caos questo piccolo lembo di terra d’Africa.

Gli occhi cercano di seguire questo caos in continua ricerca del filo rosso che unisca il tutto, ma non è così. Esistono più fili rossi. Tanti, che hanno però lo stesso capo. La stessa origine. Me ne accorgo svoltando in un vicolo. Un grande edificio degli anni settanta, forse ottanta, credo, su una strada semi asfaltata. Fa angolo con una stradina, un vicolo pieno di buche e una nuvola di polvere rossa. Vado. Entro nella stradina.

Una struttura coloniale abbandonata appare alla mia destra. Così, all’improvviso. All’improvviso il silenzio. Il vociare, i clacson, la vita confusa di pochi attimi prima è qui risucchiata dall’abbandono. Il simbolo di un’epoca che appare come un fantasma.
Un fantasma che assume sembianze reali negli investimenti che prosciugano sempre di più le anime della Tanzania senza che queste se ne accorgano. Chi prova a reagire resta solo. Scompare dalla trama di questo tessuto.

Organizzazioni varie cercano, lavorano per dare dignità a questa terra. Ma gli ostacoli che ogni giorno vengono messi sui loro cammini sono tanti. La politica stessa è il primo. Speculazioni, tangenti, multinazionali che liberamente devastano e sventrato non solo questa parte di Africa Orientale, ma l’intero continente.
Il nostro ruolo? Noi siamo i finanziatori principali. Inermi. Sugli occhi quali abbiamo volontariamente messo una benda. Nyerere, nei suoi ventun anni di governo, ha cercato di riscattare il sentire africano della sua nazione. Forse sbagliando nella metodologia, instaurando una simil dittatura socialista, ma ha risvegliato il senso di indipendenza culturale, politica ed economica nella sua gente. Ma non è servito.

La Tanzania, come tanti altri paesi, è suddita di un mondo che non è il suo, di un mondo che non ha scelto. Lo slum, la baraccopoli, come Korogocho a Nairobi o la città di corrugati alle periferie di Calcutta e Nuova Delhi, è lo specchio di lamiere e piscio di questa realtà che preme sui fianchi non solo di Dar es Salaam, ma dell’intera Africa, dell’intero pianeta.

Le ultime ore a Dar es Salaam. Manca poco per un’altra partenza. Penso allo swahili, al suo essere stata per secoli lingua franca e universale per viaggiatori e mercanti, popoli e culture. Forse era quella la Pace. Ora la vedo solo una speranza lontana.

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Autore Fabio Picolli

Fabio Picolli, nato a Napoli nel 1980, da sempre appassionato cultore della conoscenza, dall’araldica alle arti marziali, dalle scienze all’arte, dall’esoterismo alla storia. Laureato in ingegneria aerospaziale all'Università Federico II è impiegato in "Leonardo", ex Finmeccanica. Giornalista pubblicista. Il Viaggio? Beh, è un modo di essere, un modo di vivere!