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Ode ad un mondo che sfuma verso il nero

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Maradona è morto, Cutugno pure, e anche io non mi sento molto bene

Mi è capitato molto raramente di scrivere pezzi in cui parlo di me stesso. Forse perché penso che i lettori non abbiano nessun interesse nell’apprendere aspetti della mia vita privata.

Chi mi conosce sa benissimo che ho una forte avversione alla pubblicazione, anche sui social, di foto o notizie che riguardano la mia intimità.

Precisando che ritengo intimo ogni momento che non sia pubblico.

La cena con amici, pranzi in famiglia, la vacanza, la gita fuori porta.

Le mie emozioni.

Ovviamente, se partecipo ad eventi, come moderatore, relatore o in qualsiasi altra veste, non mi sottraggo a macchine fotografiche o a telecamere.

Altrimenti non accetterei di presenziare.

Ma le ritengo due sfere assolutamente separate della mia esistenza.

Ci sono momenti, però, in cui scrivere di se stessi diventa catartico, liberatorio.

Un modo per esorcizzare, per metabolizzare, razionalizzare.

O anche semplicemente per fare autoanalisi.

Scherzosamente, ma non troppo, sostengo che mi evita di andare in cura da uno psichiatra.

Anche in questo caso, scelgo cosa raccontare e come.

Se pubblicare o tenere per me il risultato, magari da inserire in qualcuna delle opere di narrativa che tengo nel cassetto.

O se bruciare le poesie che scrivo, come la Lucy Armon di Io ballo da sola, film che, nonostante la critica, a me piacque.

Ma mi capita spesso di non ritrovarmici, sicuramente perché di cinema capisco poco o niente.

A scatenare queste spinte intimiste possono essere gli stimoli più diversi.

Le note di una canzone ascoltate in fila al supermercato o passeggiando.

Un sogno, che ti riporta a momenti, luoghi o persone a cui magari non pensavi da anni.

La scena di un film, che tocca qualche corda particolare.

La morte di qualcuno.

Fosse anche uno dei tuoi idoli.

Anzi, a maggior ragione. Si tende a pensare che i propri idoli siano immortali.

Forse in qualche modo lo sono davvero.

Anche in fatto di gusti musicali sono molto atipico.

Ho sempre amato la lirica e la musica classica.

Mentre mio fratello e i miei coetanei passavano dagli Wham! e i Duran Duran a gruppi come Metallica, Queen, Iron Maiden, io continuavo a collezionare vinili di Mozart, Beethoven, Chopin. O di opere come Otello, La traviata, Madama Butterfly, tanto per citare a casaccio, senza nessun ordine di preferenza.

Il mio primo sconfinamento nella musica cosiddetta leggera è stato per ascoltare un cantautore che, in quel momento, stava avendo un grosso successo per una canzone cantata a Sanremo: L’italiano.

Ma più che quella canzone, ricordo che mi piacque molto un’altra di quelle che stavano riproponendo soprattutto alla radio: La mia musica.

Come con tutti gli artisti che sono travolti da una notorietà improvvisa, stavano riscoprendo gli altri brani che aveva scritto, compreso Solo noi, con il quale aveva vinto la rassegna nel 1980.

Il paradosso di giungere al successo arrivando quinti e non dopo aver vinto.

Maniacalmente, come mio solito, comincio a rastrellare tutto quello che trovo, in modo faticoso. Siamo nei primi anni Ottanta, il web sarebbe arrivato solo qualche anno dopo.

Canzoni registrate alla radio, vinili ritrovati od ordinati nei negozi di dischi.

Alcune introvabili, come quasi tutte quelle del primo e unico album degli Albatros, il gruppo con il quale aveva partecipato due volte a Sanremo.

Fu l’argomento del mio incontro con Cutugno.

Primo e unico anche questo.

Quando, per tornare ai giorni nostri, finalmente mi sono deciso a contattare l’ufficio stampa per provare ad intervistarlo, ho ricevuto una risposta cortese, ma generica, come se stessero prendendo tempo.

Era solo perché, l’ho capito adesso, le sue condizioni di salute si erano aggravate.

Forse giusto così.

A volte si trovano giustificazioni che possono essere allo stesso tempo filosofiche ed autoconsolatorie.

Quel momento era destinato a restare unico nella mia memoria.

Forse un ulteriore contatto lo avrebbe in qualche modo sminuito.

Torniamo agli anni Ottanta.

Ho la fortuna di prendere la linea ad una trasmissione radiofonica di cui era ospite e vengo chiamato in diretta a fargli qualche domanda.

Mi premuro di predisporre tutto per la registrazione della chiamata. All’epoca, ragazzino, avevo una di quelle radio multifunzione cosiddette a due piastre.

Tecnologie analogiche che sembravano miracolose.

Mi invita a dargli del tu, affabile e cortese come non era mai stato con la stampa.

Gli dico di quelle canzoni in particolare.

Prende l’impegno in diretta di farmele incidere su un nastro e spedire dalla sua casa discografica, la storica Carosello.

I tempi delle poste italiane infiniti.

All’epoca non c’erano praticamente alternative.

Me ne ero persino dimenticato, quando ecco arrivare il postino con il pacchetto.

Un nastro con tutte le canzoni degli Albatros, una dozzina in tutto, che conservo come una reliquia, assieme alla registrazione di quella telefonata.

Per anni il cantautore di origini siciliane è stato la mia unica trasgressione pop.

Sopportando gli sfottò e la curiosità di amici che si chiedevano come un intellettuale non ascoltasse, invece, autori più impegnati. De Gregori, De André, Venditti.

A parte il fatto che quando mi definiscono intellettuale mi fa strano, oltre a suonarmi come presa per i fondelli; soprattutto, mi chiedo cosa sia un intellettuale.

Ma poi, perché un presunto intellettuale dovrebbe avere gusti e consumi culturali di quelli impegnati, appunto?

Mi sembra uno spocchioso snobismo. Come quello di tanti sedicenti radical chic da social, con gusti raffinati, che vogliono darsi un tono, sbandierando, ai quattro venti, che non vedono programmi percepiti come popolari.

Come Sanremo.

Che ha visto partecipazioni come quelle di Tenco, Vasco Rossi, Rino Gaetano, giusto per buttarne giù i primi che mi vengono.

Da adolescente, quando avevo più tempo lo vedevo.

Lo vedo ancora adesso quando ci sono esibizioni che mi interessano.

Quest’anno l’ho seguito perché volevo sentire Giorgia.

Non credo di dovermene vergognare.

E ho qualche altro miliardo di motivi per non sentirmi a mio agio con l’etichetta di intellettuale, prima di questo.

Più tardi, ho cominciato ad apprezzare anche diversi di quelli che erano i consigli per pensatore impegnato.

Amo in particolare Battiato e Guccini.

Non sono mai riuscito a farmi piacere Venditti.

Ma sicuramente perché di musica capisco ancor meno che di cinema.

Seguo e apprezzo quello che mi trasmette qualcosa, a livello ingenuo e primitivo.

Le forme di arte assolutamente concettuali non mi hanno mai convinto fino in fondo.

È possibile costruire qualsiasi ragionamento attorno ad una qualsiasi manifestazione artistica.

Ma se non arriva, se non suscita emozione, se non riesce a suggerire bellezza, è davvero arte?

Ne ho scritto in precedenza, per cui non mi soffermo, se non per ribadire che, probabilmente, nemmeno questo è un campo che mi si addice.

Di Battiato ricordo le emozioni di uno dei suoi ultimi concerti, a Napoli.

Guccini spero, prima o poi, di intervistarlo.

Almeno lui.

Ed è un messaggio in codice per qualcuno.

Mi perdonino i miei pochi affezionati lettori, ma un articolo intimistico può prevedere anche messaggi diretti a pochissime persone, che hanno conoscenza di antefatti e vissuti.

E la morte di Cutugno arriva a meno di tre anni di quella dell’altro idolo della mia giovinezza.

Diego Armando Maradona.

Sì, uno sport nazional popolare.

Spiacente, il curling non mi ha mai coinvolto.

E quando muoiono gli idoli è un po’ come quando muoiono gli dei.

E quando molte delle persone, artisti o meno, alle quali sono legati i ricordi della tua infanzia non ci sono più, allora cominci a pensare che forse è questo il momento in cui stai invecchiando.

Per limitarmi a nomi famosi, è il caso di Bud Spencer, Luciano De Crescenzo, Battiato.

Quelli recenti che si aggiungono a quelli che erano già solo ricordo.

Massimo Troisi, Ayrton Senna.

L’elenco potrebbe continuare.

Con il passare degli anni il modo a cui sei abituato comincia a sgretolarsi, a perdere pezzi.

A svuotarsi.

Gradualmente ma inesorabilmente.

Povera vecchia mia
Me fa paura
È n’ombra ca se move attuorno a mme
Vierno –
 Vincenzo Acampora

Anche le persone che restano cambiano, diventano l’ombra di quello che sono state.

Il peso di scoprire, ogni volta che ti guardi indietro, che qualcosa che ti era caro non potrà mai più tornare.

Non allo stesso modo.

Le ore passate in compagnia di persone che non ci sono più.

O che, comunque, gli anni e la vita hanno portato lontano.

Venire a sapere della chiusura di un negozio, di un locale.

Rubriche di nomi che furono.

Di numeri che non chiamerai mai più.

Un pesante mazzo di chiavi dove decine non aprono più niente.

O che ti davano accesso a posti che non esistono più.

Al andar se hace camino,
y al volver la vista atrás
se ve la senda que nunca
se ha de volver a pisar.
Antonio Machado – Proverbio y Cantares – Caminante no hay camino

Sbiadisce il mondo.

A poco a poco.

Invecchiare fa schifo. Non puoi farci niente, l’età si fa sentire. Non riconosci la faccia, perdi la vista…
Alain Delon

Non riconosci più la tua faccia allo specchio.

Forse non l’hai mai riconosciuta.

Tante facce, tanti volti che hai avuto nel corso delle esistenze.

Anche più di una nella stessa.

E vedi e senti meno.

Il mondo si affievolisce.

Golpe a golpe, verso a verso.
Antonio Machado – Ibidem

Diventa sempre più tenue, impalpabile.

Vuoto.

Yesterday seems as though it never existed
Death greets me warm, now I will just say goodbye
Goodbye
Metallica – Fade to black

Il mondo che sfuma verso il nero.

Autore Pietro Riccio

Pietro Riccio, esperto e docente di comunicazione, marketing ed informatica, giornalista pubblicista, scrittore. Direttore Responsabile del quotidiano online Ex Partibus, ha pubblicato l'opera di narrativa "Eternità diverse", editore Vittorio Pironti, e il saggio "L'infinita metafisica corrispondenza degli opposti", Prospero editore.