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Un calcio al pallone

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Non c’è un altro posto al mondo dove l’uomo è più felice che in uno stadio di calcio.
Albert Camus 

Il calcio moderno negli ultimi vent’anni è stato protagonista di uno straordinario sviluppo economico e tecnologico, superando qualunque crisi, dallo scoppio della bolla della New Economy ai postumi del fallimento di Lehman Brothers e, anzi, incrementando il proprio giro d’affari e la propria penetrazione nei mercati internazionali.

Ma questa cavalcata, all’apparenza inarrestabile, ha generato anche una forte polarizzazione, con l’avvento di vere e proprie corporation sportive, e ha prodotto disuguaglianze e squilibri via via più marcati.

La prima grande recessione abbattutasi sul sistema a causa della pandemia ha reso questo sport più vulnerabile, facendone il campo di battaglia di fondi di investimento, broadcaster, imprese di telecomunicazione e giganti del web, pronti a spendere enormi somme per accaparrarsi squadre o asset nevralgici, come i diritti TV e i relativi dividendi.

Lo sport di vertice, e i club calcistici in particolare, sono diventati ancor più che in passato l’oggetto del desiderio dei governi autocratici, interessati a farne piattaforme mediatiche per legittimarsi a livello geopolitico, alimentando, non di rado, episodi di sportswashing.

Il calcio si è così tramutato in una sorta di faglia democratica messa in pericolo da una deriva oligarchica.

Il conflitto è in atto su diversi fronti. E sarà sempre più aspro nel prossimo futuro: tra chi ambisce ad edificare un calcio elitario e orientato allo show business e chi, nel solco di ciò che è stato il calcio popolare dei Maradona e dei Paolo Rossi, auspica il ritorno a un modello più sostenibile, con meno sprechi e mega ingaggi, che riconosca e valorizzi il ruolo dei tifosi.

E se guardiamo in casa nostra, il calcio italiano è stato contaminato da tutte le nefandezze che hanno attraversato e rovinato il nostro Paese negli ultimi decenni.

La Serie A avrebbe potuto essere la prima Lega a dotarsi di stadi all’avanguardia, pensati per il calcio e il suo business e, invece, l’appuntamento storico di Italia 90 si è trasformato in un disastro nazionale, con un fiume di soldi e corruttele che ha partorito impianti, nel migliore dei casi, inadeguati.

I miliardi piovuti sul campionato italiano grazie alle pay TV non sono stati impiegati in investimenti a lungo termine, nella costruzione di strutture sportive e vivai, in modo da coltivare il futuro del football tricolore.

Si sono invece riversati su giocatori e procuratori, oppure sono stati rubati dalle casse dei club per coprire i dissesti delle aziende. I molti dissesti delle società di calcio, avvenuti soprattutto a partire dagli anni duemila, sono stati provocati da questi furti, prima ancora che da carenze gestionali.

Alla luce delle ultime sentenze giudiziarie e dopo la squalifica della Nazionale dai prossimi Mondiali, non possiamo più ignorare che il calcio italiano è nel profondo di una crisi da cui riprendersi sarà difficile.

La diagnosi è fatta. Ma c’è ancora speranza per guarire e rimettersi in sesto. Come dicono i medici, in questi casi, ci vuole però la buona volontà del paziente.

Oggi più che mai l’adagio che i soldi fanno la differenza si sta rivelando una verità che può far storcere il naso ma che, almeno per il mondo del calcio, è un assioma.

L’esodo di diversi player dall’Europa verso il nuovo Eldorado, ovvero l’Arabia Saudita, sta devastando completamente una delle certezze più forti che avevamo: si sceglie la squadra per fare la storia, per arricchire il proprio albo, per vincere in altre parole. Ed invece, con l’ingresso dei nuovi mecenati, tutto sta cambiando.

Insomma, il clamoroso trasferimento di Cristiano Ronaldo in Arabia Saudita, avvenuto all’inizio dell’anno, non è stato un caso isolato. Lo scorso gennaio, CR7, finita nel peggiore dei modi la sua seconda avventura con il Manchester United, ha detto sì alla maxiofferta dell’Al-Nassr, squadra all’epoca allenata da Rudi Garcia, recentemente scelto dal Napoli per sostituire Spalletti.

Tra cinque anni il campionato dell’Arabia Saudita diventerà tra i più importanti al mondo.

Per molti fu un gesto pazzo, l’oblio scelto da uno dei più grandi calciatori di tutti i tempi. Una pensata per arricchire ulteriormente i propri conti ed invece, oggi c’è da ricredersi.

L’Al-Nassr mise sul piatto 200 milioni di euro a stagione per due anni e mezzo. Sembrava una follia, fu l’inizio di una nuova era. Un anno dopo sono arrivati tutti gli altri: da Benzema a Koulibaly, da Kanté a Brozovic.

Nel 2023 la Saudi Pro League è diventato il nuovo paradiso dei calciatori. Il potenziale economico degli arabi preoccupa anche la UEFA, l’organismo che governa il calcio europeo e che cerca di tenere sotto controllo i limiti di spesa delle squadre più ricche attraverso un regolamento conosciuto come «Fair Play Finanziario», che, invece, i sauditi non devono rispettare.

Dietro al progetto arabo c’è anche studio, applicazione, attenzione ai dettagli e la volontà di riscrivere la storia del calcio. L’idea è quella di prendere, più o meno, 300 calciatori di livello in tre anni.

Il mercato è in mano a dirigenti che prima di sedersi al tavolo delle trattative hanno osservato per anni strategie e mosse dei migliori; parte delle spese sono finanziate dal Governo saudita, che ‘aiuta’ i vari i club in base alle rispettive scelte tecniche e obiettivi fissati.

Un ruolo fondamentale ce l’ha il fondo PIF, a cui capo c’è il principe ereditario Mohammad bin Salman Al Sa’ud, che attualmente è anche il Primo ministro in carica.

Le squadre arabe controllate direttamente dal fondo sono quattro e, non a caso, sono quelle più attive nel calciomercato: l’Al-Ittihad, che ha vinto l’ultimo campionato, l’Al Nassr di Ronaldo, l’Al-Ahli e l’Al-Hilal.

PIF detiene il 75% delle quote di tutte e quattro le società, mentre le restanti azioni, stando a quanto comunicato ufficialmente dal fondo, sono di proprietà di associazioni senza fini di lucro.

In ogni squadra che partecipa alla Saudi Pro League, dal prossimo anno aumenteranno da 16 a 18, possono giocare un massimo di 8 stranieri.

La strategia è quella di portare campioni in queste quattro società per coinvolgere investitori privati ad acquistarle, così il fondo PIF può spostarsi su altre quattro società con lo stesso meccanismo; l’obiettivo finale è passare da 18 club di proprietà statale a 18 club di proprietà privata. Vi pare poco?

Eppure, c’è chi ha criticato l’idea della Superlega e ora si sta inchinando, senza opporre alcuna resistenza, a questo mostruoso disegno. Insomma, in Arabia Saudita ci stanno riuscendo davvero. Nel giro di qualche anno sono convinti di poter diventare una delle più grandi potenze del calcio mondiale.

E non ci sono solo giocatori a fine carriera con l’obiettivo di strappare l’ultimo contratto importante: Milinkovic Savic ha detto sì all’Al-Hilal a 28 anni; Jota è un ’99, a 24 anni ha sposato il progetto Al-Ittihad raggiungendo Benzema e Kanté. Ruben Nevesha lasciato la Premier League a 26 anni per firmare con l’Al-Hilal.

La sensazione è che si stia creando un sistema più duraturo rispetto a quello che ha provato a fare la Cina qualche anno fa e senza le limitazioni finanziarie imposte dall’MLS.

Oltre top player, come prossimi step del progetto ci sono anche quelli di creare nuove infrastrutture di qualità per aiutare la crescita di giocatori sauditi. Un altro fattore che consente all’Arabia Saudita di attrarre più facilmente i giocatori rispetto a quanto potessero fare prima le squadre cinesi è legato alla posizione geografica del Paese.

Il viaggio per raggiungere dall’Europa Riad o Gedda, le città dove hanno sede le quattro squadre principali del campionato, è molto più breve. Inoltre, molti giocatori frequentano già quell’area, trascorrono le loro vacanze nei Paesi del Golfo Persico e hanno quindi maggior familiarità con la cultura locale.

Qualche anno di tempo e l’Arabia Saudita sarà uno dei Paesi più importanti nel calcio. A noi è rimasto il pallone, il calcio oggi appartiene ad altri.

Alcuni credono che il calcio sia una questione di vita o di morte. Non sono d’accordo. Il calcio è molto, molto di più.
Bill Shankly 

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Autore Massimo Frenda

Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.