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Empatia vera o patologica?

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Quando i termini diventano una moda

Ormai è sulla bocca di tutti:

io sono empatico, quello là non è empatico per niente, io sento forte il dolore e gli stati d’animo altrui

e via di questo passo.

Si parla molto dell’empatia, ma ben poco di quando si ha a che fare con quella egocentrica o narcisistica, perciò credo che sia bene chiarire ogni diversa sfumatura.

Il termine è stato introdotto nel 1909 da E. B. Titchener a voler significare il “sentire dentro”, cioè la capacità di immedesimarsi in un altro individuo, percependone gli stati d’animo e le sensazioni.

Il concetto, però, era già in uso nell’estetica romantica poiché Herder e Novails lo utilizzarono in relazione alla risonanza interiore che si sviluppava entrando in contatto con gli oggetti estetici.

Pur conservando la nostra identità, spiegò Theodor Lipps, possiamo entrare in una specie di sintonia, immedesimandoci con gli oggetti e le persone.

Più avanti Karl Jaspers riprese il concetto e fece una netta distinzione tra comprensione empatica e comprensione razionale.

Una cosa, infatti, è comprendere l’altro e, ben altra, è spiegarlo, poiché è possibile spiegare l’altro senza comprenderlo appieno.

Un esempio?

Lo psichiatra è in grado di spiegare cosa stia provando un “folle”, ma non è in grado di comprenderlo, di sentirlo dentro di sé, a meno che non venga egli stesso pervaso dalla stessa follia.

Questo è il motivo per cui si dice che taluni atteggiamenti siano incomprensibili, anche se si possono formulare con particolari spiegazioni.

Secondo Max Scheler noi viviamo più negli altri che in noi stessi, maggiormente nella collettività sociale che dentro di noi in quanto singoli individui.

Freud schematizzò i vari passaggi procedendo dall’identificazione all’imitazione, fino a giungere al processo di immedesimazione.

Ora, però, sarà bene prendere in considerazione anche il pensiero di Christine Olden la quale affermò che possiamo parlare di empatia solo quando la sensibilità di una persona nei confronti di un’altra non è succube dei propri bisogni narcisistici; occorre mantenere un proprio equilibrio maturo e una lucida consapevolezza di separatezza.

È facile confondere l’empatia con l’assimilazione di contorte immagini mentali, ci avverte, inoltre, Greenson.

Hoffman, per completare il quadro, divide l’empatia egocentrica dalla vera empatia per i sentimenti dell’altro.

Mossi da un’empatia egocentrica possiamo attribuire all’altro uno stato emotivo che è solo nostro, magari unicamente perché lo si è provato in situazioni analoghe.

Per quanto concerne la mia trentennale esperienza nel mondo olistico non posso fare altro che condividere gli ammonimenti di Olden, Greenson ed Hoffman, soprattutto di questi tempi.

Mi capita spesso di ascoltare affermazioni del genere:

io sono capace di sentire quello che provano gli altri, anche se non li conosco, anche se sono individui che mi capita di incrociare per strada o nei supermercati

oppure

io faccio reiki, massaggi, shiatsu… e sento tutto quello che provano i miei pazienti

e così via.

Non metto in dubbio che ci possa essere qualcuno realmente empatico, ma quando nel settore olistico tali processi di “immedesimazione” diventano così esagerati ed esternati con altrettanto desiderio di essere messi in mostra, io più di un dubbio me lo faccio venire.

E voi?

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Autore natyan

natyan, presidente dell’Università Popolare Olistica di Monza denominata Studio Gayatri, un’associazione culturale no-profit operativa dal 1995. Appassionato di Filosofie Orientali, fin dal 1984, ha acquisito alla fonte, in India, in Thailandia e in Myanmar, con più di trenta viaggi, le sue conoscenze relative ai percorsi interiori teorici e pratici. Consulente Filosofico e Insegnante delle più svariate discipline meditative d’oriente, con adattamento alla cultura comunicativa occidentale.