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Mariano, uno dei tredici

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Mariano


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Originario di Sarno (SA), partecipò alla Disfida di Barletta contro i francesi per vendicare l’offesa di codardia

Dopo la caduta dell’Impero Romano d’Occidente nel 476 d.C., la penisola italiana fu terra di conquista di popoli stranieri come Goti, Longobardi, Carolingi, Svevi e Angioini.
Ad inizio del XVI secolo, il Regno di Napoli, seppur formalmente governato da Federico I, era sotto le mire espansionistiche degli aragonesi e dei francesi, che, per evitare la guerra, decisero di siglare un’intesa per spartirselo in modo equo.

L’accordò non durò nemmeno un anno e i francesi da nord e gli aragonesi da sud invasero il “Territorio napolitano”, costringendo alla resa Federico.

Tuttavia, gli eserciti non abbandonarono le posizioni conquistate, soprattutto in Puglia, che era considerata, dal trattato, una terra di mezzo.

Gli schieramenti vennero più volte a contatto, ma, invece di uno scontro militare, si verificavano piccole scaramucce o si ricorreva alle “disfide”, dei veri e propri tornei fra cavalieri.

Il soldato fatto prigioniero nelle zuffe o sconfitto nei duelli veniva tenuto in ostaggio fino a quando non fosse stato pagato il riscatto per la sua libertà; nel frattempo, era trattato in base al suo rango.

Proprio durante un banchetto, un cavaliere francese, La Motte, prigioniero degli spagnoli, accusò gli italiani di codardia, offesa infamante per l’epoca.

Gli ispanici, che attendevano rinforzi, essendo numericamente inferiori, proposero una disfida tra italiani e francesi, tredici cavalieri per entrambi gli schieramenti, da tenersi il 13 febbraio nei dintorni di Barletta, precisamente tra Andria e Corato.

Ai vincitori sarebbe stato concesso un premio di cento ducati, equivalente alla vincita del riscatto per ogni sconfitto, oltre alle armi e al destriero del cavaliere perdente.

Gli italiani, i primi a giungere sul campo di gara, un’area recintata appositamente da otto giudici, quattro per schieramento, per cavalleria occuparono la posizione più sfavorevole, quella contro sole; i francesi arrivarono in un secondo momento.

Si iniziò con la carica con la lancia per disarcionare il cavaliere, per poi proseguire con il corpo a corpo, con spade e scure. Lo scontro fu vinto dagli italiani e tutti i cavalieri furono fatti prigionieri.

Sicuri del trionfo, come è loro costume, i transalpini non avevano portato con sé i soldi del riscatto e vennero portati in custodia a Barletta.

Come sempre accade durante gli eventi, circa il numero di presenze ci sono versioni contrastanti, a seconda della formazione di appartenenza; succede anche oggi con i cortei, un milione secondo gli organizzatori, quattro gatti secondo la Questura.

I cronisti francesi accusarono gli italiani di scorrettezza; questi ultimi, di rimando, esaltarono la tenuta di gara dei propri paladini. L’episodio fu trattato anche dal Guicciardini, figura politica di spicco dell’epoca.

Da un punto di vista storico l’evento rimase senza importanza fino alla pubblicazione del romanzo di Massimo d’Azeglio ‘Ettore Fieramosca o la disfida di Barletta’.

Ad esaltare la vicenda, per motivi propagandistici, fu il Fascismo, che lo usò in chiave patriottica, facendo leva sul sentimentalismo nazionale e la riscossa contro lo straniero.

Purtroppo per Mussolini, il concetto di “Italia” era sconosciuto nel XVI secolo e, soprattutto, i 13 cavalieri italiani combatterono per denaro, essendo soldati di ventura, sotto i colori spagnoli.

Anche la filmografia ha dedicato ampio spazio all’avvenimento.

Ricordiamo ‘Il soldato di ventura’ con Bud Spencer nel ruolo di Fieramosca e Philippe Leroy, lo Yanez del Sandokan televisivo, nel ruolo di La Motte, e di Enzo Cannavale nel ruolo del cronista analfabeta.

Il giornale Topolino con La disfida di Paperetta, aventi come protagonisti Paperino e Gastone, ne parlò in chiave parodistica.

Infine, nel 2003, in occasione del quinto centenario, l’Istituto Poligrafico Zecca dello Stato emise un francobollo commemorativo.

Francobollo 5° centenario Disfida di Barletta

Ma chi erano i tredici “italiani” di cui quattro campani, che gareggiarono per la Spagna?

Ettore Fieramosca da Capua, Francesco Salamone, Marco Corollario da Napoli, Riccio da Parma, Guglielmo Albimonte, Giovanni Capoccio da Spinazzola, Giovanni Brancaleone, Ludovico Abenavoli da Capua, Ettore Giovenale, Fanfulla da Lodi, Romanello da Forlì, Ettore de’ Pazzis, detto anche Miale da Troia, e Mariano Marcio Abignente da Sarno.

Conosciamo meglio quest’ultimo cavaliere, anche se il materiale a disposizione è esiguo. Il suo nome è stato storpiato da molti storici e cronisti in d’Abignenti, Albenante, Alberghetti.

Nato a Sarno nel 1471, si arruolò giovanissimo nella compagnia dei soldati di Ventura di Prospero Colonna, che appoggeranno poi gli aragonesi contro i francesi. A 32 anni partecipò alla Disfida di Barletta.

L’eco della vittoria giunse in breve tempo al suo paese natio, tanto che ricevette in omaggio dal Conte di Sarno, Guglielmo Tuttavilla, due cartiere e lo sfruttamento delle acque della zona. Morì a 50 anni, nel 1521, nella sua Sarno, dove si era ritirato a vita privata. Fu sepolto dai frati francescani nella chiesa di San Francesco, oggi adiacente alla casa comunale.

Proprio grazie alle sue gesta, la sua famiglia, nonostante dimorasse in una città feudale, nel 1759 assunse il titolo di nobiltà generosa.

Nel 1893 lo scultore autoctono Giovanni Battista Amendola gli dedicò un monumento bronzeo, alto oltre due metri, che lo raffigura in armi e pronto alla tenzone.

La statua fu posta su di un alto piedistallo ed è tuttora collocata di fronte a Municipio di Sarno, a pochi passi dalla chiesa dove riposano le sue spoglie mortali.

 

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Autore Mimmo Bafurno

Mimmo Bafurno, esperto di comunicazione e scrittore, ha collaborato con le maggiori case editrici. Ha pubblicato il volume "Datemi la Parola, Sono un Terrone". Attualmente collabora con terronitv.