Lo studioso ci racconta il secolare rito misterico che si svolge ogni venerdì santo nella cittadina sarrasta
Ci avviciniamo al giovedì santo, il giorno in cui termina il periodo quaresimale e inizia quello pasquale. In moltissimi borghi assistiamo a riti che, seppur al confine tra religione e paganesimo, riscontrano una partecipazione numerosa e sentita dei fedeli.
Tra quelli del giovedì santo i più noti sono certamente Lavanda dei piedi e lo Struscio.
Il primo, celebrato da un sacerdote o da un Gesù in costume d’epoca, rimanda al celebre episodio descritto nel Vangelo di Giovanni, durante l’Ultima Cena, in cui il Figlio di Dio si alzò da tavola, depose le vesti e, cinto attorno alla vita un asciugatoio, con un gesto riservato agli schiavi ed ai servi, lavò ed asciugò i piedi degli Apostoli.
Un’azione caratteristica dell’ospitalità nel mondo antico, un dovere del servitore verso il padrone, della moglie verso il marito, del figlio verso il padre, poiché a quell’epoca, si camminava a piedi e le strade erano polverose e sporche di urina o escrementi e, a fine giornata, era necessario un’abluzione accurata dei piedi.
Il secondo, l’adorazione del Santissimo, più comunemente nota come i Sepolcri, è la visita, dal tramonto a notte inoltrata, all’altare della reposizione, in ricordo dell’Ultima Cena, addobbato con fiori e doni simbolici portati dai fedeli sul sepolcro di Cristo, da farsi in sette chiese anche se è ammesso un numero inferiore o superiore purché la cifra non sia assolutamente pari ma dispari.
Il clou delle cerimonie pasquali si avrà il venerdì santo e c’è solo l’imbarazzo della scelta: dalla Via Crucis in Costume, organizzata in moltissimi paesini, ai Vattienti di Nocera Tirinese in Calabria, dove, durante la processione della Madonna Addolorata, alcune persone si autoflagellano a sangue con un disco di sughero ricoperto di schegge di vetro per chiedere una grazia o per ottenere perdono per i propri peccati.
Con il sangue fuoriuscito dalle ferite, i penitenti macchiano le mura cittadine attraversate dalla processione. Di solito, a rappresentare il Redentore è un ragazzino vestito con un panno rosso e una corona di spine, che trascina una croce.
Noi vogliamo parlarvi del Rito dei Paputi, che si svolge a Sarno, in provincia di Salerno, e, per farlo, torniamo ad interpellare il prof. Orazio Ferrara, storico ed autore di alcuni libri sull’argomento, che ci aveva già estasiato con il suo racconto di Alesio, la misterica maschera di Sarno.
Nella tua produzione letteraria hai dedicato alcuni libri ai Paputi, protagonisti del venerdì santo sarnese. È solo una tradizione di Sarno o sono presenti anche in altre città?
Ho dedicato diversi studi ai Paputi sarnesi perché, fin dalla prima infanzia, i loro riti, e soprattutto i loro canti, hanno colpito la mia immaginazione e il mio cuore. Ricordo di averli visti, da piccolo, la prima volta al quartiere Carresi, dove abitavo.
Il cuore mi batteva forte tra un timore reverenziale, perché sono incappucciati, e una curiosità mista ad ammirazione.
Per le letture favolistiche che allora ascoltavo, li identificai immediatamente, per il loro cappuccio a punta, a degli unicorni fantastici.
Le processioni di incappucciati nel venerdì santo non sono molte in Campania. Famose, e magnifiche a vedersi, sono quelle notturne che si svolgono nella vicina Sorrento e un po’ in tutta la penisola sorrentino – amalfitana.
A Meta di Sorrento, poi, c’è la particolarità della presenza femminile tra gli incappucciati. Anche nella contigua cittadina di Striano abbiamo una processione simile, che si riduce, però, ad una sola Croce o Confraternita.
Quelle di Sarno sono del tutto peculiari: il viaggio circolare e di ascesa dei Paputi per le strade, il vasto repertorio di canti d’impianto settecentesco, con qualcuno di essi tardo medievale, il linguaggio esoterico dei colori dei cingoli che distinguono le varie Confraternite, il numero canonico, anch’esso dalla valenza esoterica, delle Confraternite partecipanti.
Cosa significa il termine “paputo” e cosa rappresenta?
La parola è davvero enigmatica e, ad uno studio attento, sembra rivelare risvolti esoterici assai antichi, il che sarebbe plausibile con il nostro misterico rito delle Croci del venerdì santo, in cui il Paputo è la figura chiave.
Già nel Cinquecento in napoletano stava a significare essere diabolico, malvagio, orco, demonio. E paputo, sempre quale essere fantastico, cattivo e che incute spavento lo ritroviamo poi anche negli scritti di Giambattista Basile.
Anche nella lingua spagnola arcaica esisteva il lemma paputo e il suo senso era univoco, sinonimo di “diablo”, diavolo, tant’è che poi passò ad indicare l’aiutante del boia e il giustiziere stesso, quindi, un essere crudele per eccellenza, che esercitava il più infame dei mestieri.
Degli evidenti relitti cultuali degli spagnoli, che s’intravedono nei rituali delle nostre Croci, è appena il caso di accennare, un retaggio che risale al tempo della loro dominazione sul napoletano.
Le processioni degli incappucciati della Semana Santa nelle diverse città della penisola iberica non sono poi troppo dissimili da quelle dei Paputi per le strade di Sarno.
Nel documentato e ricco ‘Lessico italiano – napoletano – Con elementi di grammatica e metrica’ degli studiosi Antonio Altamura e Francesco D’Ascoli troviamo, infine, la conferma che Paputo corrisponde a diavolo, demonio.
La contraddizione, dunque, di chiamare Paputi essere malvagi, demoniaci, i ‘fratielli’ penitenti delle Croci è solo apparente.
Il Paputo, all’inizio della sua vestizione con cappa e cappuccio, è un peccatore, si trova ancora nella sua dimensione infera, demoniaca. Ed è per riscattare la colpa anche dei suoi peccati che il Cristo viene crocifisso.
Il Paputo, quindi, è ad un tempo carnefice e fedele del Salvatore, nell’eterna e ambigua ambivalenza del bene e del male insita nell’animo di ogni essere umano.
Anche lui deve salire il suo Golgota, da qui il viaggio penitenziale circolare e di ascensione per le strade cittadine, anche lui deve crocifiggere e farsi crocifiggere per riscattarsi. Rappresenta il sacro monte del dolore che il neofita di ogni setta iniziatica deve ascendere, cosa che, per numerosi indizi, sembra sia stata all’origine, in tempi remoti, della fondazione delle Confraternite sarnesi.
Quante sono a Sarno le Confraternite dei Paputi? Il loro numero ha un significato?
A Sarno il numero è variato nel corso dei secoli, ma si è conservato sempre in un canonico numero dispari. D’altronde, anche i Sepolcri da visitare nello Struscio del giovedì santo devono essere rigorosamente dispari, altrimenti, secondo la tradizione popolare, porta male.
All’inizio erano tre: le venerate Confraternite di San Giovanni Battista e di Santa Maria Maddalena, ambedue appoggiate a chiese del “burgo de fora”, attuali via San Giovanni e via Abignente, e di San Bernardino della chiesa di San Francesco d’Assisi sita nel “burgo” vero e proprio, che andava dall’attuale via de Liguori a piazza Municipio.
Il sacrale numero tre rimanda alla Santissima Trinità, e ciò sembra indicare il carattere iniziatico e misteriosofico di queste Confraternite, come confermato, d’altronde, dai particolari vestiti indossati dai fratielli, quali la lunga cappa e il cappuccio conico, quest’ultimo dal chiaro sapore iniziatico, suggerendo un’immagine magica e soprannaturale.
Nel XVI secolo, con l’aumentare della popolazione sarnese, si ha la costituzione di solo altre due nuove confraternite, dette entrambe del Santissimo Sacramento, una in Episcopio e l’altra in San Matteo, in modo da ottenere, così, il complessivo numero di cinque.
Infatti, anche questo numero è sacralizzato in molti riti cristiani, basti per tutti ricordare le cinque piaghe del Cristo della Via Crucis, oggetto di speciale venerazione per tutto il Medioevo.
Infine, nei secoli XVII e XVIII si ha il definitivo consolidamento delle confraternite sarnesi nel canonico numero di sette, con l’istituzione delle ultime due, quella di San Sebastiano chiamata anche di Gesù e Maria, e quella della Morte, ovvero del Monte dei Morti.
Nel frattempo, quella antichissima di San Bernardino si è trasformata nella Confraternita della Santissima Concezione di San Bernardino, ovvero dell’Immacolata Concezione, appoggiandosi all’omonima chiesa sorta a Capodorto, l’odierna piazzetta Michelangelo Capua.
Anche il sette è un numero sacrale. Sette sono le parole pronunciate da Gesù Cristo morente sulla croce, come sette sono le stazioni dolorose nelle tre ore di Maria Desolata. Ma ancora: il sette corrisponde ai sette gradi della perfezione, alle sette sfere o gradi celesti, ai sette rami dell’albero cosmico; infine, sette sono i giorni della Creazione e della settimana.
Ciò a conferma di una sacralità, forse maggiore, anche di questa cifra, sulla scia di quanto già detto per il tre e il cinque, tutti numeri ricorrenti con frequenza nella simbologia e nei riti della Pasqua cristiana e, quindi, con una loro valenza senz’altro esoterica.
In tempi recenti, dimentichi ormai del tutto di regole e consuetudini che si perdevano nella notte dei tempi, non ci si è più attenuti ai numeri canonici di un tempo e le Croci sono diventate anche di numero… pari!
Quali sono i colori del cordone e degli abiti delle Confraternite?
Il colore delle cappe indossate dai ‘fratielli’ di tutte le confraternite sarnesi è il bianco, nell’antichità, al contempo, tinta allegorica della morte e della rinascita e, pertanto, colore degli iniziati per antonomasia, in particolare di quelli collegati agli antichi misteri dei riti agrari pagani della cultura arcaica del Mediterraneo.
Più tardi vi sarà un’eccezione, rappresentata dall’adozione di cappe rosse da parte della Croce di San Matteo, privilegio che, a partire da una certa data, sottolinea la supremazia di quella Collegiata su tutte le altre chiese, perfino sul Duomo di Episcopio.
Fin dall’inizio si pose il problema del riconoscimento tra le varie confraternite dei Paputi bianchi, che, una volta incappucciati, erano del tutto simili e non permettevano l’identificazione della Croce con l’originario quartiere cittadino. La cosa fu risolta con l’adozione, da parte di ciascuna di esse, di una diversa colorazione del cordone penitenziale stretto intorno alla vita dei ‘fratielli’.
La Croce del Santissimo Sacramento del Duomo o di Episcopio porta la veste bianca con frangia dello stesso colore e cordone rosso.
La Croce di San Teodoro o della Maddalena veste bianca con frangia dello stesso colore e cordone bordeaux.
La Croce del Santissimo Sacramento di Terravecchia o di San Matteo veste rossa e cordone rosso.
La Croce di San Francesco porta veste dal colore del saio francescano, con cordone di canapa al naturale.
La Croce delle Tre Corone o del Monte dei Morti veste bianca con frangia bianca su fascia rossa e cordone nero. Nel passato, da questa confraternita, è stato usato in alcuni anni anche il cordone di colore viola.
La Croce dell’Immacolata veste bianca con frangia bianca e cordone celeste.
La Croce di San Sebastiano, anticamente detta di “Gesù e Maria”, porta veste bianca con frangia bianca su fondo rosso e cordone bianco. Qualcuno ricorda per il passato l’uso anche del cordone rosso.
La Croce di Sant’Alfonso o dei Carresi veste bianca con frangia bianca e cordone viola.
La Croce di Sant’Alfredo veste bianca con frangia bianca e cordone bianco.
Ci parli dell’incontro tra le Croci e i relativi canti?
Diceva il buon don Silvio Ruocco, grande e appassionato storico delle memorie cittadine, che l’incontro delle Croci era il momento clou del venerdì santo, quello in cui, durante il loro peregrinare, due diverse confraternite di Paputi arrivano a contatto e, quindi, è d’obbligo il canto di saluto ‘O Crux, O Crux ave’, cui seguivano altri, con i quali i rispettivi cori facevano a gara per superarsi.
Quelli che maggiormente risuonavano negli incontri erano ‘Ecco la bella Croce’, ‘Ti saluto Croce Santa’, ‘Già condannato è il Figlio’, ‘Stava Maria dolente’, ‘Ai tuoi piedi’.
Per il passato l’incontro tra due Croci comportava una notevole lunga attesa per chi seguiva la processione, tanto da far coniare il detto popolare ‘s’hann’ ‘ncontrat’ ‘e croce’, proverbio che viene argutamente citato, ancora oggi, da qualche anziano, quando due gruppi di persone si ritrovano e cominciano a scambiarsi convenevoli a non finire, creando l’ingombro della sede stradale, che non permette, a chi segue, di passare agevolmente.
Lo stesso detto viene appioppato dalla saggezza popolare all’imbattersi casuale di due donne, generalmente note per la loro loquacità, le quali cominciano fittamente a tessere, senza dar segni di stanchezza e, quindi, di smettere i mai non troppo vituperati ‘nciuci.
Mito, fede, spirito identitario: quale dei tre termini identifica meglio i Paputi?
Tutti e tre i termini impastano e danno linfa vitale in egual misura a quel magico viluppo che sono i riti dei Paputi a Sarno nel giorno del venerdì santo. Personalmente, ritengo quella del mito la cifra migliore per gustare in pieno il fascino misterioso di quei riti.
Al riguardo, permettimi un’autocitazione, che spero i tuoi lettori perdoneranno benevolmente, mi riferisco a quello che scrissi, nell’ormai lontano 1994, nella prefazione al mio libro sui Paputi:
“A compimento di una promessa. Sì, questo libro nasce dal mantenere fede ad una promessa, che si perde nell’azzurro di tanti anni fa. Una di quelle promesse più difficili da mantenere, perché fatte con se stesso. Ecco perché doveva essere scritto questo libro del viaggio nel mito, nel nostro mito, il più antico e bello dei miti sarnesi, quello dei Paputi delle Croci.
Esso è anche un invito a sognare. Perché sognare non sempre è una fuga, a volte è ritrovare se stessi o quella parte di noi passata indenne tra il fango delle trincee di ogni giorno.
Certo sognare l’azzurro di un mito, nel nostro tempo così grettamente utilitaristico, può sembrare pura follia. Ma “bisognerà viaggiare negli occhi dei folli – cantava Federico García Lorca – perché venga la luce smisurata”.
Splendida verità scolpita, una volta per tutte, dai versi del grande poeta spagnolo. È necessario, pertanto, almeno una volta, viaggiare negli occhi dei folli e dei sognatori per gustare l’essenza della vita, che è poi il mito più grande. Non sempre, infatti, due più due fa quattro, fortunatamente. A compimento di una promessa”.
Ci sono personaggi sarnesi legati indissolubilmente a questa manifestazione?
Da quando ho iniziato ad interessarmi dei Paputi, praticamente da sempre, ne ho conosciuti molti. Spesso mi sono fermato a parlare con loro. Ascoltarne racconti ed aneddoti sulle Croci del buon tempo andato significava immergersi nel passato di una Sarno favolistica senza tempo. Vorrei ricordarli alla memoria della città, ma sono tanti, troppi. Ne cito solo alcuni.
Michele Benisatto, detto ‘o Gianitto, era la voce fina del coro della Croce della Maddalena. I suoi assoli la vincevano sulla voce fina di ogni altra Croce. Guidava il suo coro solamente con il movimento degli occhi.
Filomena ‘e Cazzagniello, per via che aveva sposato un Buonaiuto di questo ramo, era la “guardiana” del Sepolcro di Sant’Anna ‘a latte ‘e sotto, ovvero via Laudisio.
Era perfetta nel cerimoniale di ricevere la Croce di turno davanti al suo sepolcro.
Tre fratelli della famiglia Mancuso, per qualche decennio, hanno aperto la Croce di San Sebastiano con la croce grande e i due lampioncini. Due di essi risiedevano lontano dalla città, ma ritornavano puntualmente per l’occasione ogni anno.
Gli Spacagno intesi ‘e Ciculera, mazz’ ‘e cerimonia delle Croci nell’arco di più generazioni.
Per anni due fratelli, i Cerrato, residenti a Milano, partivano in auto da quest’ultima la sera antecedente il venerdì santo per giungere a Sarno solo qualche ora prima che uscisse la Croce di San Sebastiano, a cui partecipavano come elementi del coro.
Ringraziamo il professor Ferrara per la sua disponibilità e la sua lectio, e vi invitiamo a Sarno, nel centro storico, alle prime luci dell’alba per assistere al passaggio dei Paputi per le strade cittadine.
E poiché le tradizioni non devono morire, l’Istituto Comprensivo Episcopio – Sarno, ed in particolare la classe quarta del plesso di Foce, ha effettuato una lezione a tema sui Paputi e la maestra, Maria Grazia Buonaiuto, ci ha gentilmente inviato un disegno eseguito da un suo alunno. Complimenti a tutti i ragazzi e al corpo docente.
E che la tradizione si rinnovi sempre!
Autore Mimmo Bafurno
Mimmo Bafurno, esperto di comunicazione e scrittore, ha collaborato con le maggiori case editrici. Ha pubblicato il volume "Datemi la Parola, Sono un Terrone". Attualmente collabora con terronitv.