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Il presepe e Santo Stefano: storia di una pietra

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Stefania - ph Rosy Guastafierro
Stefania - ph Rosy Guastafierro


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Se in tutta Italia le festività natalizie rappresentano quel momento unico in cui le famiglie si ritrovano, quasi ad attestare una sorta di identità di gruppo, a Napoli assumono un carattere particolare, perché il rito di riunificazione avviene davanti ad una tavola imbandita ininterrottamente dalla vigilia di Natale alla sera di Santo Stefano.

In ogni casa si dà vita ad una kermesse di piatti tradizionali, che non sottende ad una competizione tra le cuoche della famiglia; ognuna si cimenta nel proprio piatto forte che preparerà al momento, oppure, porterà già pronto, solo da ravvivare prima di servire in tavola.

La giornata clou è sicuramente il 25 dicembre; si comincia molto tardi, per smaltire il più possibile la cena della vigilia, e si prosegue per due o tre ore tra risa, urla di bambini, brindisi e così via.

Finito il pasto, la scena che si presenta è abbastanza simile: le donne si adoperano a rassettare, gli uomini, tra poltrone e divani, si abbandonano alla fatidica pennichella, la nonna, invece, chiama a raccolta tutti i bambini e, per tenerli a bada una mezzora, inizia a raccontare storie prima di cominciare il gioco da tavola più esoterico e dissacrante al mondo: la tombolella.

Lo spunto arriva dai personaggi del presepe, che, ridotto alla sola Natività o articolato secondo la complessa scenografia definita dalla tradizione, non può mancare nelle case dei napoletani degni di tale nome.

Un paesaggio di sughero, montuoso e pieno di sentieri in discesa che conducono alla grotta, fa da sfondo a scene di vita quotidiana in cui pastori, massaie, soldati, nobili, plebei sostano davanti alle tabernae traboccanti di mercanzie le quali, nel rispetto di secolari dettami, dovrebbero essere dodici come i mesi dell’anno.

Il macellaio per gennaio, il venditore di ricotta febbraio, il pollivendolo per marzo, il venditore di uova per aprile, la coppia di sposi con il cesto di ciliegie per maggio, il panettiere a giugno, il venditore di pomodori per luglio, la bancarella con i cocomeri per agosto, il seminatore a settembre, il vinaio insieme al cacciatore per ottobre, il venditore di caldarroste per novembre e, infine, il pescivendolo per dicembre.

Ad arricchire la scena non mancano pastorelli con le pecore, Benino che dorme, acquaiole dalla scollatura audace e l’inevitabile anfora di terracotta in spalla, animali da cortile, nonché personaggi legati al substrato magico-iniziatico che, con tanta pregnanza, partecipano alla definizione della cultura partenopea.

Tra questi, la zingara dalla pelle scura, che rievoca le madonne nere della tradizione campana se non addirittura Iside, Cicci Bacco sulla Botte, a richiamare il mai dimenticato culto dionisiaco, la meretrice, sovrapposizione di sacro e profano, le lavandaie, che nel rendere immacolati i loro panni, rappresentano la verginità della Madonna e la nascita miracolosa.

All’ingresso della grotta troviamo l’immancabile coppia di zampognari, uno con la zampogna, antico strumento musicale a fiato simile alla cornamusa, costituito da un otre di pelle di capra o pecora in cui sono innestate tre canne sonore di legno, l’altro con la ciaramella, strumento sempre a fiato, ma simile ad un oboe, e, sul lato opposto c’è Stefania o Tecla, una donna con un bambino in fasce tra le braccia.

Qui l’anziana donna risveglia la curiosità delle piccole pesti che iniziano a fremere per l’immobilità:

Criature ma ‘o sapite chi è chesta ccà?

La leggenda narra che una giovane sposa non riuscendo ad avere figli, appresa la nascita del Salvatore, insieme ad alcune mamme, decise di recarsi alla capanna per adorarlo, ma venne bloccata dalla schiera degli angeli perché a quel tempo, per la cultura ebraica, non era concesso alle donne sterili di venire a contatto con le puerpere.

Il suo desiderio di venerare il nascituro era tanto forte che, aguzzando l’ingegno, escogitò un espediente. Raccolse una pietra e l’avvolse in un panno, simulando la forma di un’infante, in modo da evitare ulteriori controlli. Malgrado si fosse rimessa subito in cammino, giunse alla mangiatoia il giorno seguente. Nel vedere Gesù sorridente, fu scossa da un fremito e, inginocchiandosi, iniziò a piangere a dirotto.

Quando finalmente calmatasi si rialzò, Maria, che aveva compreso il suo inganno dettato, però, da un innocente desiderio, le chiese cosa portasse stretto al cuore. Stefania, sgomenta, rispose, balbettando, che allattava un figlio maschio. La Madonna, allora, la esortò a scoprire il seno affinché potesse sfamare il piccolo.

La donna, obbedendo, scostò lo scialle e, con stupore misto a gioia, sentì un fievole vagito. Prima che andasse via, la Vergine le preannunciò che quel figlio, a cui avrebbe dato il nome di Stefano, era destinato a divulgare la parola del Signore e a ricongiungersi a Lui per mezzo di una pietra, così come, per intercessione divina, da una pietra era nato.

Al di là della leggenda, di questo veneratissimo santo non si conoscono le origini, sicuramente aveva una cultura di provenienza ellenistica e gli era riconosciuta una grande saggezza. Fu uno tra i primi giudei a diventare cristiano, seguendo gli Apostoli che lo elessero tra i sette diaconi di Gerusalemme.

Per l’attività che svolgeva e la sua infinita fede, attirò odio e rancore, tanto da essere accusato e, senza che fosse stata emessa sentenza, trascinato alla mercé dei nemici e linciato con una violenta e incontrollata lapidazione. Ecco perché Stefano può essere considerato il protomartire per antonomasia.

Napoli non può fare a meno di velare di un alone di mistero tutto ciò che ad essa è legato e, anche in questo caso, c’è un’altra storia che congiunge questa figura alla città partenopea. Si narra che un pellegrino napoletano, passando accanto al luogo del martirio, raccolse in un’ampolla il sangue del Santo, portandolo con sé al rientro in patria.

Nel 1561, nell’allora chiesa di San Gaudioso, l’attuale Santa Maria della Sanità, dove era conservato, per la prima volta a fine settembre avvenne la liquefazione. In un secondo momento, spostata la reliquia nella chiesa di Santa Chiara, il prodigio iniziò a manifestarsi due volte all’anno, il 3 agosto e il 25 dicembre.

Purtroppo, da un po’ di anni non si è più verificato, e di ciò, le uniche a non soffrire, sono proprio le Clarisse, poiché sembrerebbe che all’evento fosse inspiegabilmente legata la morte della Madre Superiora.

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Autore Rosy Guastafierro

Rosy Guastafierro, giornalista pubblicista, esperta di economia e comunicazione, imprenditrice nel campo discografico e immobiliare, entra giovanissima nell'Ordine della Stella d'Oriente, nel Capitolo Mediterranean One di Napoli. Ha ricoperto le massime cariche a livello nazionale, compreso quello di Worthy Grand Matron del Gran Capitolo Italiano.