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Tutto il Mondiale è paese

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Mondiale di calcio in Qatar


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Il calcio è musica, danza e armonia. E non c’è niente di più allegro della sfera che rimbalza.
Pelé


Per molto tempo il calcio, e lo sport in generale, sono stati affiliati a una forma di vita inautentica, intrinsecamente connessa all’imporsi di una società industrializzata, burocratizzate e di massa; una forma di divertissement, in grado di attenuare le sofferenze di un individuo omologato, ma capace, per mezzo dello sport, di riconquistare un ruolo e un protagonismo.

Nel corso del ‘900 lo sport diventa un fenomeno di massa; da manifestazione di un’élite politica e culturale, come succede agli albori con la nascita del tennis, del rugby o del football, diventa strumento di emancipazione, luogo nel quale intere fasce di società, tradizionalmente ai margini della vita sociale, partecipano attivamente alla vita pubblica.

Il calcio soprattutto acquista con il tempo sempre di più un successo planetario: difatti, in esso l’uomo, come in passato i suoi antenati cacciatori, ha modo di compiere quel tipo di attività originaria legata alla sopravvivenza, che richiedeva velocità, mira, robustezza, coordinamento di gruppo, gioco di squadra, astuzia, rapidità, potenza.

Doti e abilità richieste moderatamente anche dagli altri sport, ma non tutte insieme e non con la medesima intensità come avviene con il calcio, che è vita, passione, furore, agonismo, eccitazione e filosofia. Un mondo reale che si catapulta in un’illogica irrealtà intimista e vorace.

Proprio il calcio in questo anno già “squilibrato” da una guerra che lacera l’Europa tutta e non solo, diviene da segnale di speranza e di giusta distrazione un logorante motivo di insidia e di rabbia, quasi rasentando l’orrore.

Com’è noto, i mondiali di calcio sono iniziati il 20 novembre in Qatar sul Golfo Persico dove sarebbe impossibile giocare d’estate con temperature molto elevate. Non è mai accaduto nella storia che la Coppa del Mondo FIFA si sia disputato nei mesi invernali.

Una delle più ovvie conseguenze è che che tutti i campionati di calcio saranno fermati nel mese di novembre, in Europa, in Asia e nell’America del sud.

Ma il punto di domanda è un altro: un mondiale di calcio non vale tante vite umane, nemmeno una?

Il giro dell’economia inarrestabile e violento non guarda in faccia nessuno. Il dolore deve essere soppiantato da un modulo e qualche calcio ad un pallone. Poi, si sa, basterà qualche giocata di un fuoriclasse a cambiare tutto e far scivolare nell’oblio più profondo il sangue versato.

Vi è una situazione che apparentemente sembra piccola ma è molto più grande e scandalosa oltre terribilmente tragica di quanto appaia. Sembra impossibile, ma per organizzare un torneo mondiale di calcio quasi 7.000 lavoratori sono già morti. Sono così tanti, e forse i numeri veri sono ancora più alti, i migranti provenienti da India, Pakistan, Nepal, Bangladesh e Sri Lanka deceduti nel piccolo e ricchissimo Qatar dall’assegnazione nel dicembre 2010 dei Mondiali di calcio 2022.

Questi dati escono da un’inchiesta del Guardian che getta inquietanti ombre sul Paese arabo dell’emiro qatarino Hamad al Thani. Secondo alcune fonti: molti lavoratori, per la maggior parte giovani, si sono suicidati, altri sono morti nei dormitori collassati per troppa fatica, altri ancora si sono schiantati a terra volando dai ponteggi di cantieri e infrastrutture allestite per preparare la rassegna iridata prevista per il prossimo anno.

Inoltre, sembrerebbe che i lavoratori migranti che sono stati impiegati negli stadi sarebbero stati fatti evacuare dai cantieri prima delle ispezioni della FIFA, per evitare esposti e denunce in ambito lavorativo. Le violazioni dei diritti umani includevano punizioni fisiche con i lavoratori poco performanti, licenziamenti a fronte di lamentale e l’obbligo di lavorare nonostante il lockdown per il Covid-19. Insomma, questi mondiali 2022 in Qatar sono accompagnati da un pesantissimo alone.

Altro punto che si sta snodando come un serpente su questo Mondiale è lo scandalo dell’acqua. Parliamo di circa diecimila litri di acqua consumata per ogni partita di Coppa del Mondo.

Lo spreco ambientale è un aspetto sinora sottovalutato, si sa, ma questa è pura follia. Il dispendio così elevato per le partite del torneo mette enormemente in pericolo l’ambiente, poiché nella regione araba l’accesso all’acqua dolce non esiste, così, pare oramai già deciso, si procederà al processo di desalinizzazione dei mari, con elevatissimo impatto per l’ambiente marino. Un dato scoraggiante, con il Qatar che fa parte dei Paesi del Consiglio di cooperazione del Golfo che sono tra i più alti consumatori di acqua, nonostante la poca dote a disposizione.

Senza dimenticare la frase dell’Ambasciatore del torneo Khalid Salman che, in un’intervista ad un’emittente tedesca ha definito l’omosessualità un danno psichico e una devianza mentale. Affermazioni gravissime che non possono essere tollerate e passare ancora una volta in sordina.

Cosa sarebbe il calcio ma ogni sport in genere senza il riconoscimento intrinseco della cultura e dell’etica? Nulla. Sarebbe l’opposto della sua stessa filosofia, sarebbe senza scopo. E sappiamo che una cultura priva di scopo non può che rifugiarsi nel valore funzionale della prestazione.

Il prezzo da pagare, tuttavia, è alto, tra cui la rinuncia ad una dimensione escatologica. L’indifferentismo agli scopi circoscrive l’etica a un’etica procedurale, che rischia di fare della «ricerca del record» e della «prestazione» e peggio ancora della “economia” intesa come “interesse” la stella polare dell’agire, pubblico e privato. Con tutto ciò che questo può gravemente comportare.

Anche in quest’ottica, dunque, e non solo in quella economica, finanziaria e di mercato, abbiamo tutti paventato la possibilità di leggere la “sportivizzazione” in atto della società e l’imporsi del suo ethos, come potenzialmente universale e civilizzatore, in un’epoca, altrimenti, priva di principi universali condivisi. Ma ci siamo sbagliati e arresi. Non è lo sport a vestire la società, è viceversa.

Questo mondo sempre più ingolfato da una ricerca di business sta ingoiando come un predatore quello che rimane dello sport e in particolare del calcio, ma mi viene in mente anche la Formula Uno.

Scandali sotto al sole che vengono accettati e dimenticati come succede per la politica e la finanza. Messi sotto il tappetto perché al comando non c’è più la voglia di vincere, ma anche solo di combattere; non avviene oggi che ci sono emiri, sceicchi, dinastie, fondi di investimento, magnati, industriali e poi sponsor, milioni di milioni di danaro che innescano una insana voglia di trovare l’affare e di stare al centro di una galassia che porta onori, gloria e introiti.

Insomma, il calcio oggi non è più per i romantici. Lo confermano una FIFA e una UEFA, i massimi organi delle competizioni sportive calcistiche, che hanno perso la loro verginità e scendono a compromessi con i loro compiaciuti amici accettando l’inverosimile e chiudendo gli occhi di fronte allo sgomento dei più.

Allora, il calcio vale la vita di una persona? No assolutamente, ma quanti di voi che lo seguite, siete pronti a non sintonizzarvi sui canali che trasmetteranno le partite? Pochi.

E forse in casa nostra ci ha aiutato una nazionale che non è riuscita a battere una squadra dalle ambizioni molto più riduttive delle nostre. Questo calcio non è più a nostra misura, ha poco di umano. Gli stessi calciatori sono starlet con i propri interessi economici da privilegiare.

A noi comuni tifosi resta qualche ricordo e qualche sciarpa da riesumare ma, alla fine, in cuor nostro, sappiamo che qualcosa si è rotto. Non so se definitivamente, ma avvertiamo una sorta di lacerazione che dentro ci sgretola quel poco di romanticismo che avevamo nella nostra sopportabilità esistenziale. Quella sorta di semplicità e di buonismo che un mondo sempre più matrix sta annullando gradualmente.

Viva il Mundial, abbasso il Mondiale, allora.

Ogni volta che un bambino prende a calci qualcosa per la strada, lì ricomincia la storia del calcio.
Jorge Luis Borges

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Autore Massimo Frenda

Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.