L’opera, articolata in tre monologhi, divertente e toccante, appare riuscitissima
Ieri, 12 novembre, ore 21:00, presso il Nuovo Teatro Sancarluccio, via San Pasquale a Chiaia, 49, Napoli, abbiamo avuto il piacere di assistere all’intenso spettacolo Corpi scelti – Trittico carnale, di Angela Matassa, Anna Mazza e Roberto Russo, con le bravissime Laura Borrelli, Gioia Miale e Imma Pagano, regia perfetta di Peppe Miale. La pièce sarà rappresentata fino al 20 novembre.
La scena si apre con l’annuncio di uno speaker radiofonico, lo stesso Roberto Russo, che svela agli ascoltatori-telespettatori che la trasmissione radiofonica “Corpi scelti” spierà dal buco della serratura l’intimità di tre inconsapevoli donne, le cui storie, diversissime, hanno molti punti in comune.
Troneggia, appesa dal soffitto, la scritta accesa on aire.
Riferimento costante all’attualità, al voyeurismo, alla morbosa curiosità, accelerata e facilitata dalle nuove tecnologie, che ci spinge a violare i segreti dell’altro e ad entrare, inopportunamente, nella sfera di ciò che dovrebbe, invece, restare relegato ad un ambito privato. Ma anche la denuncia della crisi dei valori, la perdita delle certezze, la fragilità umana che spinge a scelte prima impensabili in un quotidiano verosimile anche se, ovviamente, esasperato.
Corpi scelti sono anche le tre fisicità che si andranno appunto a scandagliare da un punto di vista prettamente psicologico per mostrare i piccoli grandi drammi che caratterizzano l’esistenza umana.
Ad accomunare le tre storie sono disperazione, presa di coscienza che occorre agire in modo diverso, reinventarsi, fare delle proprie debolezze punti di forza, non rassegnarsi all’ineluttabile, piuttosto provare a trarre profitto da una situazione che, solo apparentemente, sembra non dare alcuna via di fuga.
Il tutto, però, è analizzato con sana ed intelligente ironia provocatoria mentre, con profonda leggerezza, si snodano una serie di tematiche apparentemente surreali che trovano una motivazione di fondo costante.
La scelta dell’utilizzo nella scenografia di due soli colori, bianco e rosso, non è affatto casuale, anzi, contribuisce a dare ancor più efficacia alle storie narrate.
Entrambi racchiudono in sé una molteplicità di significati, così come diverse, eppure in qualche modo complementari, sono le storie che si andranno a sviluppare sulla scena.
Il bianco, di cui sono vestite anche le tre protagoniste, è un non colore o, se si preferisce, un colore senza tinta ma dall’alta luminosità che condensa in sé tutte le possibili sfumature dell’esistenza delle tre donne, il colore degli angeli, dell’eternità, del Paradiso, di quella speranza cui si aggrappano disperatamente.
Il rosso simboleggia il sangue, la passione, il proibito, il pericolo; è il colore dei muscoli e del cuore, elementi indispensabili alla nostra vita, il valore dell’aggressività, dell’azione, della voglia di lottare, vincere e primeggiare, tutti quei sentimenti, insomma, che denotano fierezza, eccitazione, orgoglio ed energia.
Ed ecco la voce di Fabio Palliola che si sprigiona dalla radiosveglia mentre la musica di sottofondo, sigla del celebre film “Rocky”, evidenzia che ogni giorno è una lotta costante con se stessi e con gli imprevisti che siamo costretti a fronteggiare per evitare di soccombere.
Appare sul palco l’ottima Laura Borrelli che recita lo splendido monologo di Angela Matassa “Volevo gli occhi blu”. Appena svegliatasi, durante i suoi esercizi fisici mattutini, abbigliata con una canotta e un boxer maschili, fa una scoperta sconcertante. Non è più un uomo, sciupafemmine incallito, ma un’affascinante donna con lunghi e soffici capelli, occhi blu, smalto rosso alle unghie di mani e piedi e fisico prorompente. Inizialmente terrorizzata da questa mutazione genetica spera si tratti semplicemente di un incubo da cui sta per vegliarsi. Pensa e si muove ancora come uomo, ma in un corpo femminile.
Un esperimento non facile quello inscenare una separazione tra l’apparire e l’essere, che riesce in pieno risultando assolutamente credibile.
Una serie di stati d’animo si susseguono incessanti, passando da incredulità, disperazione, necessità di lanciare una richiesta di aiuto che però non può essere inviata perché rimarrebbe inascoltata.
D’altronde a chi e come rivelare questa trasformazione? Ad una madre che scoraggiata scoppierebbe in lacrime o ad un padre che troverebbe una più “semplice” spiegazione in un corpo che prepotentemente afferma la propria vera natura? Quali le parole da utilizzare per provare a spiegare al mondo ciò che anche a lei rimane inaccessibile?
Non c’era forse un libro che narrava una vicenda simile accaduta ad un uomo che svegliatosi si ritrovava donna? Ed ecco due riferimenti aulici nel testo che volutamente sviano il pubblico in un sottile e divertente gioco di associazione di idee.
Ci si aspetterebbe uno dei capolavori di Virginia Woolf, “Orlando”, eppure la simpatica “stonatura” disorienta i presenti appena la donna legge il nome di Gregor Samsa, il commesso viaggiatore de “La metamorfosi” di Franz Kafka. Chi più dell’autore ceco è in grado di testimoniare l’assurdità della vita?
La motivazione della mutazione improvvisa del sesso non sarà affatto rivelata, rimanendo un mistero insondabile. La segreteria telefonica è piena dei messaggi di una delle donne che la protagonista da maschio frequentava, definita più volte come una strega, dettaglio che ci riporta alla mente un’altra “Metamorfosi”, quella di Lucio ne “L’Asino d’oro” di Apuleio, conseguenza di pratiche occulte, di una conoscenza proibita acquisita con l’inganno. Data l’assenza di qualsiasi soluzione, meglio soffermarsi sugli aspetti positivi che questa trasformazione ha inevitabilmente attuato.
La delicatezza, soavità e morbidezza delle curve di donna, la possibilità di calarsi nell’universo femmineo e, senza più alcuna ansia da prestazione, abbandonarsi teneramente e romanticamente all’idea dell’amore senza che questa sensibilità spiccata possa essere fraintesa come mancanza di mascolinità.
Riconosciute ed apprezzate le differenze tra i due sessi c’è speranza che nel diverso approccio alla vita quanto a modo di pensare, parlare, amare le difficoltà si appianino, le incomprensioni svaniscano e i legami si rinsaldino per aiutarci a sostenere le persone che abbiamo affianco.
E, non da ultimo, la possibilità, come donna, di generare la vita e diventare madre.
Le luci si spengono in uno scrosciare di applausi e la voce del radiogiornale, stavolta quella di Peppe Miale, annuncia le notizie di cronaca.
Eccoci al secondo profondo monologo, “Taglio netto” di Anna Mazza, interpretato egregiamente da Gioia Miale. Sofferenza palpabile, tormento interiore di una donna che, dopo quindici anni di matrimonio, è stata abbandonata dal marito per una procace arrampicatrice sociale polacca e che fa i salti mortali per provare a sbarcare il lunario.
Accoglie nella sua sartoria un’immaginaria cliente cui narra la sua tragica storia, strategia narrativa ripresa anche nell’ultimo monologo e che immediatamente associamo ad Eduardo, alle sue intensissime conversazioni con un ipotetico dirimpettaio in “Questi fantasmi”.
Sta chiudendo bottega perché incapace di reggere alla concorrenza straniera; i cinesi, infatti, riescono a vendere un abito allo stesso costo con cui lei cambierebbe una semplice cerniera. Che la qualità della merce si abbassi irrimediabilmente, che non venga riconosciuto il giusto valore all’attività artigianale sembra non importare a nessuno.
Cura, dettaglio, precisione e capacità manuali vengono messi in secondo piano rispetto alle imperanti leggi economiche, contesto che appare desolante eppure veritiero.
Per assicurare un futuro dignitoso ai due figli, di cui il marito si disinteressa completamente, fa una scelta lucida e dolorosissima, dà, appunto “un taglio netto” mettendo in vendita se stessa, o meglio, i propri organi.
Altra forma di mercificazione del corpo resa ancor più amara dalla necessità.
Anteporre i figli a se stessa, salvaguardare il loro avvenire terminando, in questo atroce modo, di pagare il mutuo della casa e metter da parte dei soldi per consentir loro di finire gli studi e campare prima di trovare lavoro.
Ma anche in questo campo la lotta è spietata; gli indiani, vittime di questo stesso meccanismo perverso e disperato, sono “merce” rara e ricercata. Per tutelarsi, nei sei mesi precedenti, lei ha avuto una gran cura di sé e del suo corpo, facendo attenzione alla dieta, smettendo di fumare e concedendosi, solo a volte, un bicchiere di buon vino.
Non può rischiare, infatti, che una volta sotto i ferri, i suoi organi non appaiano sani e il suo sacrificio sia stato quindi inutile. Eppure tutti questi sforzi potrebbero essere stati vanificati da una disattenzione imperdonabile; bevendo dallo stesso bicchiere della sua interlocutrice, che si scoprirà essere gravemente malata di epatite, potrebbe esserne stata contagiata.
La reazione della donna è violenta, rabbiosa, ma comprensibilissima, umana, dettata com’è dalla forza della disperazione.
In questo secondo monologo, sintesi perfetta dei molteplici significati dei due colori della scenografia, sarà quel manichino svestito, rigorosamente bianco, che cela, all’interno, una sorta di stoffa rossa e bianca aggrovigliata che simboleggia gli organi che lei ha messo in vendita.
Applausi fragorosi anche in questo caso, mentre la scenografia cambia ancora e lo speaker Roberto Russo torna a sottolineare che dobbiamo continuare a spiarci per penetrare nei segreti inconfessabili ed ingombranti che ognuno di noi tenta di nascondere.
È il turno della viscerale Imma Pagano nel bellissimo ed ultimo monologo “Cu-lotteria” di Roberto Russo.
In piedi su di una sedia mostra vistosamente il suo fondoschiena; nulla di volgare o fuori luogo, anche questa è una storia di fallimenti e di tentativi di affrancamento da una realtà inaccettabile, ma è più comica delle precedenti.
La donna riceve nella sua casa un’ipotetica signora convinta che sia l’amante del marito.
La protagonista, con un linguaggio schietto e sincero, inizia a spiegare l’equivoco.
Nella sua esistenza grigia e monotona, sempre alle prese con i conti che non tornano, a fronte di espedienti spesso poco legali naufragati, ricorre ad un insolito quanto fruttuoso stratagemma facendo leva sulle disperate illusioni di uomini in caccia di fortuna.
Mirabile rappresentazione di quell’inventiva tutta partenopea che permette di aggrapparsi al miraggio che la sorte benevola cambi il corso della vita.
Chinandosi per raccogliere un frutto caduto dalla borsa della spesa viene palpeggiata da un conoscente. Sulle prime reagisce come ci si aspetterebbe da qualsiasi donna “onesta”, poi, sentendo le sue considerazioni, lo asseconda. L’uomo, giocatore di lotto, consapevole che i numeri racchiudono il codice segreto per interpretare l’Universo, trova immediatamente nella Smorfia napoletana, i due numeri identificativi della situazione appena accaduta, il 16, ‘o Culo, il sedere appunto, e 29, ‘o Pate d”e Ccriature, il membro maschile.
In questo caso, ci sentiamo di ampliare alle cifre anche il corrispettivo significato esoterico; in generale, il numero pari ha una polarità femminile, quindi passiva e assimilabile a degli stati dell’essere, mentre il dispari, con polarità maschile, è attivo e rappresenta degli avvenimenti.
Nello specifico, il 16 incarna l’orgoglio, le prove della vita, la formazione attraverso insuccessi e disillusioni. È il numero dell’avvio, della natura, dei sentimenti sinceri, dei mestieri umili, del successo nella forma più nobile ed è onnipresente quando si tratta di cose genuine e naturali.
Il 29, invece, rimanda alle avversità, ai sacrifici, ai debiti, agli ostacoli. Ad esso si ricollegano, l’interruzione di qualsiasi attività, la mancanza di soldi, il recupero dei crediti, le multe, i fallimenti.
L’uomo, nel recarsi a giocarli sulla ruota di Napoli, le assicura dieci euro in caso di vincita che, puntualmente, si verifica. Con gran clamore rende tutti partecipi che la sua fortuna è scaturita da quel “tocco” magico e ben presto si sparge la voce della sacralità del fondoschiena della donna.
Intascati i soldi promessi, lei, fortemente in imbarazzo, prova a minimizzare, ma ognuno dei presenti vuole metterla alla prova. La notizia arriva addirittura nei quartieri vicini e la donna, prima si barrica in casa, poi decide di sfruttare a suo vantaggio la situazione e prepara un tariffario: in cambio di una lieve tastata dieci euro per un solo numero, quindici per un ambo, venti per un terno e così via fino alla cinquina.
La voglia di provare a vincere contagia tantissime persone e diventa per lei un’attività lavorativa vera e propria, da esercitarsi, in casa, nell’arco della giornata a tempo pieno dal lunedì al venerdì.
La regolarità degli orari, la pausa a metà giornata, diventano rituali che servono a dare al tutto una parvenza di professionalità, in un palese tentativo di simulare una normalità negata.
Ovviamente alcune vincite si verificano, altre no, ma si è sempre invogliati a continuare sperando che prima o poi la ruota giri.
La moglie, incuriosita, procede al tocco nel luogo considerato ormai “sacro”, ma dato che è la prima cliente femminile riceve uno sconto e paga solo cinque euro.
Quella che durante il suo matrimonio era la parte del corpo presa rabbiosamente a calci dal marito violento, diviene fonte di “venerazione” per il resto del mondo.
Il pubblico, anche in questo caso, apprezza con risate ed applausi calorosi.
Sul palco appare il trittico carnale che, per la prima volta, recita insieme mostrando come il testo unico trovi il suo compimento solo nella tripartizione. Le donne parlano con quella consapevolezza ormai acquisita dall’evoluzione femminile appena inscenata, un misto di forza, energia e grinta contro le eventuali ed inutili prevaricazioni dell’universo maschile.
Lo speaker Roberto Russo ci invita tutti a continuare a seguire la trasmissione, perché origliare, spiare chiunque, intrometterci nei fatti altrui con un occhio “malato” e indagatore sembra essere l’unica prerogativa di una società che ha perso di vista le vere priorità.
Oltre il riferimento ai corpi, ora misteriosamente mutati, ora in vendita, anche se non come ci si aspetterebbe in un più comune mercimonio, il vero e proprio filo conduttore è proprio la voce fuori campo, dove un mezzo di comunicazione di massa come la radio, profondamente mutato nel corso degli anni, incarna, in qualche modo, anche la morbosità dei nuovi media, dei social, delle community, che portano ormai ad una visibilità totale, molto simile a quella del Grande Fratello di orwelliana memoria, in generale di una società pervasiva che invade ogni sfera dell’esistenza.
Un spettacolo, “Corpi scelti”, che consigliamo vivamente, ricordando che sarà in scena presso il Nuovo Teatro Sancarluccio di Napoli fino al 20 novembre.
Autore Lorenza Iuliano
Lorenza Iuliano, vicedirettore ExPartibus, giornalista pubblicista, linguista, politologa, web master, esperta di comunicazione e SEO.