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La solitudine del robot

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Le braccia di acciaio cromato del robot – capaci di piegare una sbarra dello spessore di sei centimetri – stringevano la bambina delicatamente, amorosamente e i suoi occhi splendevano di un rosso intenso.
Isaac Asimov

La nostra è una società governata dall’accidentalità, che cambia velocemente, senza direzioni, senza identità. L’uomo è destrutturato da regole in continua evoluzione, è indotto ad un isolamento che è pura espressione di un evidente disagio culturale, sociale e relazionale e porta alla totale chiusura di se stessi, fino all’indifferenza per il mondo vitale dell’altro.

La nostra dimensione sociale è inaridita, ci identifichiamo nella folla per allontanarci dalla solitudine, provando ad esorcizzare l’angoscia, ma la calca del mondo contemporaneo non fortifica il proprio senso di appartenenza. La propria identità è indeterminata e discosta, è la negazione della comunicazione autorevole e del relazionarsi, è manifestazione dell’inquietudine e del malessere. Essere in tanti annulla il senso di rivendicazione individuale, della differenziazione del bene e del male, della consapevolezza della scelta. Non è una comunità in cui l’uomo si rapporta agli altri, ma è spersonalizzata, ognuno si nasconde per mimetizzarsi, omologarsi e cancellarsi.

Alcune esigenze sociali, come quella di comunicare, di computare su un’appartenenza sono universali, perché innati nell’individuo e fondamentali della sua costituzione. Questi bisogni vengono influenzati, affievoliti o amplificati dal contesto culturale, ma soprattutto dalle attese e dalle percezioni riguardanti la quantità e la qualità dei legami che stabiliamo con chi ci circonda. In qualunque età e civiltà, ci si confronta con l’eterno problema di come sopraggiungere ad un’autentica comunione con gli altri.

L’unico modo per superare il senso di isolamento e di separazione, senza perdere la propria integrità è di aprire alla solitudine come strumento di autopromozione, crescita interiore e liberazione dalle subordinazioni ambientali ed esterni, senza cui si rischia di disperdere la propria umanità, pronunciare parole non-pensanti, quindi solo parlate e non-parlanti.

La disponibilità al silenzio e ad una certa separazione interiore è indispensabile per strutturarsi e completarsi; si acutizza, così, la capacità di percepire ciò che non è superficiale, spiccando per il senso del nostro esistere.

Ecco che entrano in campo i social e gli smartphone o l’Intelligenza Artificiale, che possono sì sottrarre tempo alla vita “vera”, ma in tempo di restrizioni della socialità dal vivo, sono stati l’unico prezioso modo per avere delle relazioni interpersonali. Le interazioni digitali ci hanno modificato: è venuta a mancare l’abitudine a decodificare tutta una parte silenziosa ma incredibilmente importante dei rapporti, la comunicazione non verbale.

Negli ultimi due decenni si è vista una pandemia di solitudine, caratterizzata da tassi crescenti di suicidi e consumo di oppioidi, perdita di produttività, aumento dei costi sanitari e della mortalità.

Il Covid-19, con il suo allontanamento sociale e i suoi blocchi associati, ha solo peggiorato le cose, dicono gli esperti. Valutare accuratamente l’ampiezza e la profondità della solitudine è scoraggiante, ecco, però, che in una comunità sempre più “isolata ed isolante”, dove vengono meno i tradizionali modelli di assistenza familiare e le situazioni di forte fragilità sono sempre più diffuse, i robot sono destinati a ricoprire un ruolo crescente.

Del resto, un’analisi de Il Sole 24 Ore basata su dati Eurostat e risalente al 2017 mostrava già come il 13,2% degli italiani over 16 affermasse di soffrire di solitudine: la percentuale più alta a livello continentale.

Negli ultimi anni numerosi studi hanno documentato tassi crescenti di solitudine in varie fasce della popolazione, in particolare quelle più vulnerabili, come gli anziani. Proprio l’assistenza di questi ultimi potrebbe aver trovato nei robot un serio ed efficace rimedio.

Credo che la nostra epoca possa essere definita come un “momento robotico” non tanto perché gli automi da compagnia si stanno diffusamente spargendo nella nostra realtà, ma in riferimento allo stato di difficoltà emotiva che preme molti a considerarli addirittura come amici, confidenti e perfino partner affettivi.

I robot sociali non provano le emozioni degli esseri umani e non conoscono il concetto di interazione sociale, ma alcuni filosofi contemporanei stanno già parlando di “empatia artificiale” per indicare la capacità delle macchine di modificare il proprio comportamento in funzione delle espressioni emozionali, facciali o posturali dei loro vicini umani. Anche alla luce di questo, è comunque accettabile che persone fragili e vulnerabili si affezionino a loro che, seppur altamente evoluti, sostanzialmente fingono di avere emozioni. Non abbiamo certezze ma è il dubbio è meritevole di approfondimenti.

Quanto sia importante l’Intelligenza Artificiale non serve spiegarlo: è una potente tecnologia che si è già fatta strada positivamente fra i nostri stili di vita e che continuerà a farlo per molti anni a venire. Allo stesso tempo, i cambiamenti che apporta alle nostre abitudini personali e professionali sono significativi e rapidi e questo fa sorgere domande e preoccupazioni sull’impatto che ha sulla nostra società.

I sistemi IA devono essere progettati per conoscere e seguire importanti valori cosicché la tecnologia ci possa aiutare a prendere decisioni migliori e più sagge, ma è altrettanto innegabile il grande potenziale terapeutico che un robot svolge nella rappresentazione di un legame affettivo.

Secondo alcuni, sarebbe meglio avere un robot sociale come badante o assistente, piuttosto che non aver alcuna assistenza o riscuotere cure da parte di personale in alcuni casi sbadato o demotivato. Sicuramente un automa non è in grado di capire se si è preoccupati o tristi o se ci si sente soli, ma quanti addetti ai lavori sono veramente in grado di farlo?

Di certo non si può ritagliare la scelta a due soluzioni estreme: i robot da compagnia o la solitudine. Piuttosto, si può prevedere un futuro in cui robot aiutanti possano attuare i lavori più umili e ripetitivi: macchine capaci di supportare nel loro letto pazienti indeboliti o di sostenerli ad alzarsi.

I robot chiaramente possono perfezionare l’autonomia dei malati, aiutare negli ospedali, nelle case di cura o nelle abitazioni, ma resta assai difficile gradire l’idea di macchine trasformate in personale di assistenza, dal momento che questa è basata soprattutto su relazioni a livello personale ed emozionale, quando non addirittura, affettivo.

Ci resta da pensare alla solitudine stessa che esprime quella macchina: ma non sono lontani quei tempi in cui accarezzeremo un robot e lo inviteremo a sedersi accanto a noi per sentirci raccontare la sua ultima storia d’amore.

Sarà un gioco delle parti, chi per evitare di restare solo accetterà di accudire la solitudine di un automa deluso come un uomo qualsiasi. Speriamo solo che siano migliori di noi, ma Frankenstein insegna.

La vita degli androidi è sogno.
Philip K. Dick 

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Autore Massimo Frenda

Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.