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Le mani mai pulite

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Pool di Mani Pulite - Gherardo Colombo, Antonio Di Pietro e Piercamillo Davigo


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Basta a te stesso fin che ce la fai, poi affidati a chi meriti, meglio a qualcuno che ti meriti.
José Saramago

Sono passati esattamente 30 anni dall’inizio dell’inchiesta Mani Pulite e Tangentopoli, lo scandalo giudiziario che ha contrassegnato un’epoca, uno degli eventi più importanti tra quelli che hanno contribuito a costruire l’Italia di oggi.

Essa fu l’insieme di inchieste della magistratura che, tra 1992 e 1994, scoperse un ampio sistema organizzato di corruzione adoperata da tutti i partiti per finanziare le loro attività e, in molti casi, per arricchire gli stessi politici e diversi dirigenti.

Mani Pulite fu il nome della prima e più vasta di queste indagini, quella condotta dal gruppo di magistrati di Milano di cui facevano parte nomi entrati nella storia italiana: Antonio Di Pietro, Gherardo Colombo, Ilda Boccassinni, il procuratore Francesco Saverio Borrelli. Altre furono condotte in tutte il Paese, implicando centinaia di politici e imprenditori.

Tra il 1992 e il 1996, ci furono una media di duemila persone indagate per corruzione, concussione o altri reati cosiddetti “contro i doveri d’ufficio” ogni anno. Numeri mai raggiunti in precedenza e non lo saranno negli anni successivi.

Per la prima volta un’indagine che riguardava reati commessi da persone ai piani alti della società è potuta proseguire senza scivolare nell’oblio dei corridoi grigi. Sotto un profilo storico, Mani Pulite è la conseguenza dei rivolgimenti di allora, non la causa.

Cade il muro di Berlino, finisce il tempo delle ideologie, si dissolvono i partiti tradizionali e, contemporaneamente, le indagini possono proseguire.

Era lunedì 17 febbraio 1992, nel suo ufficio in via Marostica 8 a Milano, al Pio Albergo Trivulzio, Mario Chiesa viene arrestato per concussione per una tangente da 14 milioni di vecchie lire, che gli viene consegnata dal giovane imprenditore Luca Magni.

Sono le 17:30 quando si realizza l’operazione, coordinata dall’allora Sostituto Procuratore Antonio Di Pietro e dal Capitano dei Carabinieri Roberto Zuliani, che smaschera Mario Chiesa, Presidente del Pio Istituto Albergo Trivulzio, noto ai milanesi come “la Baggina”, la casa per anziani più famosa della città e forse d’Italia. Da sempre era il rifugio di donazioni miliardarie e, quindi, un patrimonio immobiliare smisurato, che dava la possibilità di somministrare affitti agli amici degli amici e poi appalti, assunzioni e così via.

Una filiera di soldi che usciva dalle viscere di un sistema perfettamente corrotto, raccontato da tutti, compreso e sospettato da tutti, ciò nonostante, vegliato e morbosamente ovattato dalla nostra stessa struttura corporativa, dai nostri stessi schemi mentali accettata. Eravamo tutti colpevoli ma non lo capimmo all’epoca, oggi ancor di più.

Prende il via, la più fragorosa e famosa inchiesta giudiziaria italiana. È così che nel 1993, Tangentopoli svela la sua più significativa espansione, mentre la Prima Repubblica cade, sotto i colpi degli avvisi di garanzia, la mafia torna ad alzare il tiro a suon di stragi e attentati, l’economia del Paese subisce un tracollo e ben 70 Procure lungo la Penisola indirizzano filoni sulla corruzione nella Pubblica Amministrazione, estendendo procedimenti a carico di 12mila persone.

In aprile le elezioni politiche sono il segnale che un mondo stava letteralmente terminando un suo intero capitolo. Vengono giù i vecchi partiti e prende il volo la Lega di Umberto Bossi. Il vento del Nord rivela il ciclone che sarebbe giunto dopo poco. A Roma non riescono a capire.

Da lì è trascorso un trentennio, appunto, di riforme, almeno apparenti, della giustizia. O, per altri, di controriforme avviate e forse mai portate a termine. A pensarci, dal 1992 sino a questo inizio di 2022, pochi temi sono stati così divisivi nel Paese, tra le forze politiche e tra queste e la magistratura, come i progetti e gli interventi in materia di giustizia.

La stagione delle grandi inchieste, oltre a riportare palesi punti di tensione in realtà datati nel tempo, come il rapporto tra imprese e politica, quasi metodico nel fare coesistere forme di corruzione come modalità di finanziamento dei partiti, oltre che personale, ha portato a ripensare peso e ruolo della magistratura nell’Italia della Prima Repubblica.

Da quella inchiesta, nessuno viene risparmiato: vengono travolti anche grossi gruppi come la FIAT, l’ENI, la Montedison, l’ENEL, l’Olivetti ed anche il gruppo Fininvest.

Quel periodo, oramai, è un capitolo scritto nei libri di storia. Restano evidentemente ancora aperti una serie di interrogativi e le mai placate controversie sul ruolo delle toghe accusate di gratuite invasioni di campo e di un utilizzo falsato del potere a loro attribuito.

In quei giorni il diluvio si afferma sulla bocca di tutti: si dividono i buoni dai cattivi ma le maschere cadono a terra. E c’è una confusione infinita. La furia iconoclasta di un popolo abituato ai soprusi e che, finalmente, intravede un’inattesa speranza di ribellione, si brucia con il fragore delle manette e delle monetine.

Non sappiamo fare di meglio. La rivoluzione fallisce in quella cecità e quell’uomo che si schiva dal sordo metallo diventa la macabra messinscena italiana, il simulacro di un rito pagano a cui si offre un capro espiatorio per l’abluzione da ogni male.

Cadono in molti e si fa giustizia ma non completa e forse nemmeno veritiera. Ci sono errori ed omissioni, finzioni e depistaggi. Qualcuno, nella sua furia immolatrice, finge di essere il deus ex machina, colui che può salvare l’Elmo di Scipio e i suoi fratelli ed invece si apre un varco per una nuova e più comoda poltrona.

Una impunità che è diventata scandalosamente accettata, con quel colpo di spugna diviene la Provvidenza atta a distinguere gli angeli dai demoni e la corruzione del denaro viene sostituita da quelle delle anime. Il cancro non viene estorto ma volgarmente anestetizzato, se mai si possa realmente addormentare una malattia incurabile.

Muoiono i ricchi e i poveri in uno stillicidio che pacatamente viene assorbito dall’opinione pubblica come la doverosa paga da dare al nostro esattore del destino: il suicidio è un’arma di distruzione per annientare la vergogna e il disagio di vedersi sgretolare in faccia il luridume che abbiamo tutti in un angolo nascosto della nostra vita.

Sono, forse, figli di quegli anni il rancore degli onesti, la furbizia dei colpevolisti o scambiate pure i termini che nulla muta, a mio avviso.

Tangentopoli non è stato il padre dell’antipolitica e del complottismo, dell’odio e delle ‘daje alle dimissioni’ ma, certamente, è cresciuto in quella famiglia.

Gli italiani di quel momento confondono la nebbia con il nevischio e camuffano il vizio nel peggiore dei mali e nella migliore delle loro abitudini, ovvero il conformismo.

C’è stata una degenerazione di tutto un sistema ma noi rimaniamo lì come stronzi a guardare, parafrasando un film di questi giorni. Non capiamo che la Storia sta pretendendo il suo dazio e vuol colpire, con fulmini violenti, chiunque abbia avuto il torto di sbagliare. E sarebbe stato anche tutto giusto, se solo da quelle rovine fossimo riusciti a costruire un nuovo modello della nostra Italia.

L’inchiesta di Mani Pulite terminò ufficialmente nel 1994, con le storiche dimissioni di Antonio Di Pietro dalla magistratura in seguito a quella che lui reputò essere una trappola tesa per screditarlo.

È finito così il sogno di cambiare il nostro Paese o, quanto meno, di dare alle future generazioni la possibilità di credere che le cose, alla fine, se veramente si vuole, possono essere cambiate in meglio.

La “caccia all’untore” aperta da Tangentopoli è paragonabile alla “caccia alle streghe” del maccartismo americano.
Giuliano Amato

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Autore Massimo Frenda

Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.