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Il Natale è altrove

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Natale


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A Natale son tutti più buoni. È il prima e il dopo che mi preoccupa.
Charles M. Schulz

Lo scorso anno mi sono preso la briga di dedicare due articoli al Natale, alle sue origini, alla sua storia, intitolandoli, rispettivamente, Dies Natalis Solis Invicti – I parte e Dies Natalis Solis Invicti – II e ultima parte.

Era il primo Natale sotto l’effetto della pandemia, vivevamo in un lockdown dove regnava la paura e la speranza: oggi siamo ai limiti di una nuova chiusura, siamo al terzo giro di vaccinazione, siamo più liberi ma certo non troppo sereni.

Ma è Natale e, quasi per dovere etico culturale, ci sentiamo costretti alla rinascita, se non nel peggiore delle ipotesi a vestirci di buone intenzioni stile Walt Disney.

Ricordiamoci che con l’avvento del cristianesimo, per volontà dell’Imperatore romano Costantino, fu deciso di cumulare la festa del Sol Invictus con quella della nascita del Cristo, considerato, appunto, la “Luce del Mondo” e fu così che il 25 dicembre divenne la data ufficiale della festività del Natale.

Quel Natale ricco di simboli antichissimi, dunque, simbolo dell’unione fra cielo e terra, transitando per il significato della stella omonima, del vischio, dei cibi natalizi, dei canti e, via via, sino agli ornamenti dell’albero stesso e del presepe.

E di quest’ultimo non possiamo non sottolineare il simbolismo della grotta, ovvero della capanna nella quale, secondo quanto riportato nei Vangeli Apocrifi, e non in quelli canonici, nacque il Cristo.

La grotta, secondo tutte le tradizioni simboliche, rappresenta, infatti, l’uterus mundi, ovvero il luogo nel quale si trovano le acque primordiali che, come il liquido amniotico per il feto, portano alla nascita/rinascita di una nuova vita.

Era il luogo nei quali non solo nascevano le grandi divinità, ma era anche il santuario nel quale venivano realizzati i rituali in onore alla Grande Madre o al dio Mithra, incentrati, non a caso, sulla morte simbolica e sulla rinascita dell’iniziando.

Fino ad arrivare alla figura più simbolica del Natale ovvero quella relativa a “Babbo Natale”, il quale rappresenta la figura di San Nicola, vescovo in Asia Minore e protettore dei bambini a cui, come tradizione vuole, porta in dono dei regali.

I bambini, peraltro, secondo tutte le tradizioni simboliche, sono ritenuti l’incarnazione degli antenati morti che erano i veri protagonisti della festività romana dei “Saturnalia”. È così che, per allontanare l’immagine della morte dalla società e farci credere nella vita, Babbo Natale colma i piccolo di doni, propiziandosi, in tal modo, anche le anime degli antenati defunti.

E con il Babbo c’è l’Albero di Natale: per lo psicoanalista C. G. Jung, quest’ultimo è il simbolo del processo di individuazione, ovvero quel processo di crescita personale che porta ciascuno di noi a diventare indipendente; simbolo di trasformazione e di autorealizzazione

usanza che nutre l’anima, nutre l’uomo interiore.

L’albero di Natale, se prendiamo in ascolto Jung, non riguarda il nostro rapporto con gli altri, ma con noi stessi: il desiderio di ricercare chi siamo, di sviluppare la nostra parte spirituale, di avere una buona relazione con noi stessi.

Realizzarci come individui autentici ed essere appagati da questo ci consente poi di instaurare buone relazioni anche con gli altri, ne costituisce, anzi, l’indispensabile premessa. Insomma, Natale contempla la vita, la morte, la rinascita e il sogno.

Nonostante questo, divenire ed essere allo stesso tempo, non possiamo non delineare una critica decisa nei confronti della cosiddetta secolarizzazione, l’abbandono dello spirito religioso, della dimensione del sacro da parte di una pressante società mercatista e dei consumi, edonista e globalizzata, che ha trasformato il Natale in un happening del commercio, figlio di una società sempre più relativista, nichilista, fredda e troppo tecnologica.

Non so se avvertiamo ancora l’urgenza di invertire la rotta, di ricercare la luce dentro noi stessi, attraverso la riscoperta della dimensione del sacro. Magari cercando di restituire dignità al simbolo del Natale, dando libertà alla società delle metaforiche tenebre che l’avvolgono: forse, solo così, potremmo sperare in una nuova rinascita della verità, della bellezza e della vera intelligenza.

Magari solo così potremmo riappropriarci dell’originale essenza tanta gnostica quanto cristiana della festività natalizia. Prendendo le distanze da questa dinastica filiera consumistica e vivendo con coscienza e conoscenza il vero ed autentico legame che unisce i giorni della fine con quelli dell’inizio.

Ma è un anno che si chiude con la stanchezza della tregua, con l’angoscia del vecchio illusionista, con la potente risata di Dio affacciato alla finestra del suo attico mentre sarcastico scruta la sua creatura divorata dalle fiamme interne del suo delirante correre, incorrere, cadere e rialzarsi.

Il Natale, così come lo viviamo oggi, produce un’alterazione degli abituali ritmi di vita, delle nostre routine e ci espone a situazioni inusuali. Senza considerare poi che questo particolare periodo dell’anno ci mette di fronte ad aspetti irrisolti delle nostre relazioni con familiari, parenti e amici, che potrebbero generare ansia e tensioni. E oggi più che mai è tutto realmente sfasato.

Purtroppo, viviamo in un’epoca che non tollera fisiologici stati d’animo quali la malinconia o la tristezza: i social obbligano ad una esasperata vetrina di vivace euforia, dove tutto deve essere e apparire happy.

Le famiglie felici le immaginiamo come quella del Mulino Bianco. Le persone che festeggiano il Natale hanno tutte un cappello rosso con il pon-pon bianco e cantano in coro: è la lieta novella che si trasforma nella uggiosa telenovela.

Eppure questa festa resiste e va sempre più diffondendosi, nonostante le leggi del mercato capitalistico ne stiano modificando profondamente il significato affettivo e soprattutto spirituale, denudandola del suo senso mistico e simbolico.

Per quanto sia avvilente, per quanto sia spenta, questa è la vita di un altro Natale che lentamente si sta presentando e che, silenziosamente e pesantemente, se ne sta andando.

Un altro Natale che entra nella nostra esistenza e ci include nel suo album dei ricordi, macchiette di immagini sbiadite che un giorno mani ingiallite cercheranno di inquadrare in una ricerca di un tempo forse solo immaginato.

Questo è un altro Natale, quello dell’altrove: quello del terrore, del coprirsi e del distanziarsi, della fila in un capannone, del panico e dei numeri che crescono, delle regole e del certificato, della libertà che non può essere tollerata e dell’intolleranza che deve essere gestita senza dubbi.

Eppure, anche ora è il tempo di guardare al futuro, ai giorni che verranno e alle luci che si accenderanno. Perché nonostante questo Natale sia altrove, noi siamo ancora qui e, in qualche modo, dobbiamo onorare questa strapazzata e prevaricante ora del destino.

Oltre quel filo nero che divide la speranza dall’orrore, la sagacia dalla nebulosa eccitazione del chissà e del mai. Oltre questo altrove, questa pandemia che lacera e ci annulla, quel vedere dalla finestra imbiancata dall’alito e dal soffio inafferrabile dell’anima l’inesorabile trascorrere di un giorno che nasce sopra le meravigliose rovine di se stesso e di noi.

La mia anima strafogata di birra è più triste di tutti gli alberi di Natale morti del mondo.
Charles Bukowski 

Buon Natale a voi e buon Natale a chi vuole ancora capire, sognare e credere.

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Autore Massimo Frenda

Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.