Nel precedente articolo abbiamo parlato dell’Ospedale degli Incurabili di Napoli, unico ancora funzionante dopo 500 anni, accennando alla sua farmacia o, per meglio dire, alla sua spezieria, integrata nello stesso edificio con annesso orto per le piante officinali.
Attraversare le sue stanze, aprendo porte scorrevoli di finissima fattura, ci fa vivere lo splendore che, dal Rinascimento all’Illuminismo, ha caratterizzato la vita di tutto il complesso.
La struttura si è trasformata attraverso gli anni; infatti, nel 1600 vi fu un primo ampliamento grazie alle numerose donazioni di famiglie private non solo napoletane.
La vera svolta si ebbe nel secolo successivo quando Antonio Maggiocco, giurista e governatore, uno dei quattro capiruota della Real Camera di Santa Chiara, effettuò un lauto finanziamento.
Come atto di riconoscenza verso questo nobiluomo nel 1750 Matteo Bottiglieri ne scolpì il busto che ritroviamo nel suo interno, al centro della sala grande, in una posa particolare: sembra quasi invitare a condividerne la magnificenza.
Nel 1729 Domenico Antonio Vaccaro aveva disegnato i progetti; a lui si deve la doppia scala, realizzata poi dai maestri pipernieri Nicola Gervasio e Francesco Saggese, nel cui centro, come avvolta in un grande abbraccio, troviamo il busto di Maria Lorenza Longo, la fondatrice del nosocomio, e i particolarissimi portali di marmo decorati con mascheroni e vasi, che rappresentano la duplice natura dei farmaci, quella lenitiva e curativa, ma anche quella velenosa e mortale.
Per varie vicende i lavori tardarono fino a quando nel 1747 furono affidati probabilmente a Bartolomeo Vecchione, ingegnere e architetto, che ne progettò anche tutto l’apparato decorativo in collaborazione con Crescenzo Torchese.
Furono chiamati all’opera importanti artigiani napoletani: l’ebanista Agostino Fucito realizzò gli stigli e l’imponente bancone in radica di noce; Di Fiore e Matarazzo crearono gli intagli e delle dorature; i reggiolari fratelli Massa, in particolare Giuseppe, si dedicarono al pavimento, mentre Donato lavorò agli oltre 400 vasi riproducenti allegorie e scene dell’antico testamento; Lorenzo Salandra si focalizzò sugli albarelli e sulle idre, tuttora esposti sulle scansie, decorandoli con chiaroscuri turchini; Crescenzio Trinchese, infine, si occupò dei marmi e della famosa urna per la Teriaca.
L’accesso attuale, che avviene attraverso la controspezieria, è caratterizzato da un soffitto con due cupole di forma ellittica con una trave divisoria, dal grande bancone e, tutt’intorno alle pareti, gli scaffali contenenti i vasi di ceramica oltre alle due alzate formate da 66 piccoli vani in legno dorato, contenenti un numero imprecisato di ampolle e vasi di vetro, che conservano residui di quelli che furono gli antesignani rimedi terapeutici e cartigli che ne descrivono il contenuto ed il procedimento.
Nel suo interno si può ammirare una raffigurazione di quello che da sempre è stato interpretato come un’allegoria dell’utero verginale.
La sala grande, più riservata alle adunanze che al commercio, è contornata sempre da vasi con decori che richiamano le splendide maioliche del pavimento; il soffitto, invece, è impreziosito da una tela che rappresenta Macaone che cura Menelao ferito. Un grande utero sezionato longitudinalmente riporta alla mente un taglio cesareo.
Il laboratorio è un chiaro rimando alla tradizione alchemica esoterica con alambicchi, forni, mortai e il contenitore di quell’antidoto di cui ritroviamo traccia già dal III secolo a.C. ad Alessandria d’Egitto, che veniva utilizzato soprattutto come contro-veleno, anche se il vero antenato della Teriaca è, probabilmente, il cosiddetto Mitridatium commissionato da Mitriade VI, re del Ponto, a Crautea suo medico di corte.
Dopo anni fu rinvenuta questa vecchia ricetta che, nelle mani del medico di Nerone, Andromaco il Vecchio, fu rispolverata e aggiornata con l’aggiunta della carne di vipera, divenuto ingrediente principale.
Con il trascorrere degli anni il contenuto fu variato e il suo uso ampliato, lo si riteneva in grado di guarire l’asma, la tosse, l’inappetenza (ma fungeva anche da dimagrante per gli obesi), la dissenteria, gli ascessi, l’angina, le emicranie, le infiammazioni intestinali. Inoltre poteva purificare il fegato, la milza, i reni e la vescica, stimolare il flusso mestruale, giovare all’espulsione dei feti abortivi, curare le vertigini e la sordità, risvegliare gli appetiti venerei, placare la pazzia, favorire l’evacuazione dei vermi.
In genere, questo farmaco veniva assunto dopo che una purga aveva dato i suoi effetti, sciolto nell’acqua, nel miele, nel vino oppure avvolto in foglie d’oro.
I suoi ingredienti principali prevedevano oppio di Tebe, genziana, incenso, mirra, tarassaco, zafferano, finocchio, anice, cannella, rabarbaro, gomma arabica, balsamo orientale, trementina, cardamomo, radice di valeriana, e così via.
Elementi essenziali, però, risultano essere i trochisci di vipera, ovvero pezzi di carne di femmina di vipera assolutamente non gravida dei Colli Euganei, la cui cattura doveva avvenire subito dopo il letargo invernale.
Per la preparazione occorreva eliminarne testa, coda e viscere, quindi bollirla in acqua di fonte preventivamente aromatizzata con aneto, per poi far asciugare il tutto all’ombra. Per avere gli effetti sperati aveva bisogno di un’essiccazione di 6 anni, che la rendeva efficace, poi, per altri 36.
Si trattava di un vero e proprio rito in sintonia con le correlazioni astrali, per cui si consigliava l’assunzione in inverno, al massimo in autunno o primavera, ma mai d’estate. Il suo uso, malgrado alla fine del XVIII secolo andò sempre più scemando, nel Regno delle Due Sicilie durerà per molto tempo ancora, tanto che vi fu una vera e propria regolamentazione per evitarne le contraffazioni.
Negli archivi della storica farmacia è presente il cosiddetto ‘ricettario incurabilino’, preziosissimo reperto risalente alla fine del ‘700 che ha fatto sì che questo posto, oltre ad essere un efficiente laboratorio del medicamento, a libera fruizione e non di esclusivo appannaggio del nosocomio, diventasse un luogo di rappresentanza di tutta l’intellighenzia scientifica dell’Illuminismo napoletano.
Possiamo affermare che proprio qui si generò la grande svolta in cui la malattia venne trattata con mezzi di cura, non più affidandosi alla fede e alla preghiera.
Purtroppo, però, il 24 marzo del 2019 un crollo del pavimento della Chiesa degli Incurabili ha messo in pericolo questo immenso patrimonio di conoscenza.
L’anno scorso è stato presentato un progetto, con relativo stanziamento di 100 milioni di euro, che prevede la realizzazione di una struttura a valenza mista, ovvero una straordinaria area museale per le scienze mediche e un nosocomio all’avanguardia, nel pieno rispetto della struttura cinquecentesca. Speriamo sia restituito quanto prima alla città e al mondo.
Autore Rosy Guastafierro
Rosy Guastafierro, giornalista pubblicista, esperta di economia e comunicazione, imprenditrice nel campo discografico e immobiliare, entra giovanissima nell'Ordine della Stella d'Oriente, nel Capitolo Mediterranean One di Napoli. Ha ricoperto le massime cariche a livello nazionale, compreso quello di Worthy Grand Matron del Gran Capitolo Italiano.