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L’ora della pace

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Pace


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Resistere non significa semplicemente riflettere o descrivere. Bisogna anche intraprendere un’azione. Ora, io sono relativamente pessimista su questo punto: la giovane generazione manifesta scarso impegno verso ciò che la scandalizza e contro cui dovrebbe agire.
Stéphane Hessel

Ne parliamo spesso con orrore o con distacco. Fingendo che non ci appartenga, dimenticando le nostre radici. Allontanando gli spettri di un passato che tanto lontano non è, correndo dietro al benessere che ci ispira le possibilità infinite mostrate dal ventaglio di un futuro che da un lato ci accarezza morbosamente, dall’altro ci aliena voracemente.

Siamo un popolo che non dimentica, dirà qualcuno. Fino a quando, rispondo io. Fino a che l’ultimo avrà voce e sangue nelle vene per ricordare, fino a quando la verità non avrà una sola divisa, fino a quando anche l’ultima targa di commemorazione o l’ultima via intitolata saranno per noi che le guardiamo e che ci passiamo una polverosa quotidianità dell’ovvio.

Siamo la generazione che ha visto il sangue scorrere per le vie del proprio quartiere, sangue fraterno o così si dice. Si chiamano guerre civili perché sono combattute all’interno di una nazione tra diverse fazioni, gruppi religiosi o poteri. In poche parole, si spara contro chi dovrebbe essere un tuo connazionale, un tuo concittadino, un tuo amico.

Quello che rende una guerra “civile” può essere difficile da definire, quasi un azzardo. Possiamo rintracciarla una definizione comune, provando a comprendere diversi criteri, incluso quando entrambe le parti nella contesa hanno conseguito il controllo del territorio, creato i propri governi, per quanto marginali, e hanno una sorta di esercito predisposto che svolge operazioni regolari.

Consideriamo che la maggior parte delle persone valuta un conflitto una guerra civile, solo quando altre nazioni identificano le pretese di una o più parti in lotta. Le ostilità più piccole o meno diffuse possono essere comprese come insurrezioni, sebbene abbiano chiaramente il potenziale per alterarsi in una guerra.

A volte si distingue tra questo tipo di scontro e una rivoluzione o un’insurrezione, sostenendo che una guerra civile coinvolge poteri o fazioni distinti. Questo è in opposizione con una rivolta, quando i cittadini comuni cominciano singolarmente a unirsi per contrapporsi al governo, di solito perché lo avvertono come ingiusto.

Una sommossa su larga scala può cambiare in una rivoluzione, con un facinoroso rovesciamento di un governo predominante nell’interesse del popolo. Secondo molti storici ci sono diverse ragioni che possono compromettere certi equilibri già precari e determinare l’inizio di una guerra all’interno di un Paese, che vanno dalle credenze religiose a contese sulle risorse disponibili o, soprattutto, la ricerca di un potere assoluto combattuto da più parti.

Le guerre civili possono essere veloci ed enormemente efficienti, come i colpi di stato, oppure possono durare decenni, spesso costando migliaia di vite e scombinando completamente la società. La guerra civile sembra essersi diffusa ovunque negli ultimi anni, persino entro i confini europei. Il che conferma una delle più importanti illuminazioni di Carl Schmitt, manifestata in un testo pubblicato a Berlino all’inizio degli anni Sessanta e intitolato ‘Teoria del partigiano’. L’autore parla di un nuovo ordine mondiale in cui viene meno il reciproco riconoscimento fra gli Stati sovrani e perciò la guerra non è più né confinata né disciplinata.

Il nuovo «nomos della terra», la nuova politica dello spazio, deve valutare questo cambiamento epocale. Il duello fra gli Stati viene avvicendato dalla guerra senza limiti e senza principi, che criminalizza il nemico fino a volerne la distruzione. Per Schmitt non ci sono dubbi: guerra e nemico sono due concetti che si sono modificati, assorbendo tratti estremi. Dopo le due grandi guerre mondiali l’«ostilità assoluta» è destinata a divenire fenomeno planetario.

Guardando in casa nostra, in Italia, la Seconda guerra mondiale coinvolse la popolazione di ogni regione e di ogni età e giunse fin negli angoli più sperduti della penisola. A partire dal 1942, il peso della guerra, delle sconfitte militari in Africa e in Russia, delle privazioni, cominciò a corrodere il carisma di Mussolini. Il duce cominciò così ad essere ritenuto da molti il primo responsabile della guerra e delle sofferenze che essa stava provocando.

Non appena il 25 luglio fu data dalla radio la notizia che il «Cavalier Benito Mussolini» aveva dato le «dimissioni», gli italiani scesero per strada a manifestare la loro gioia, nella convinzione che ciò volesse dire che anche la guerra si era conclusa. Era evidente che il rapporto tra il fascismo e la società italiana si era profondamente incrinato.

Ciò che più colpiva di queste esplosioni festose, tuttavia, era il ricorso predominante ai simboli nazionali per manifestare il rigetto della dittatura e della guerra da essa provocata.

Quello che successe dopo lo conosciamo bene o crediamo di saperlo. L’idea di quei giorni non può essere unica, la storia si nutre di ombre e fantasmi e vomita spesso orrori e falsi. Ci sono certezze, ci sono allineamenti, ci sono anche sfumature che travolgono ogni nitidezza.

Una cosa mi pare abbastanza chiara: nel dopoguerra, la storiografia italiana ha steso un velo di silenzio sugli uomini che decisero di seguire Mussolini nella sua nuova avventura. I vinti sono stati espulsi dalla storia, anche perché essi avevano scelto di stare dalla parte di coloro che, come quasi tutti ritenevano, avevano già perso la guerra. L’accusa di aver tradito la patria o la parola data fu inoltrata da tutte le parti in conflitto per dare maggior forza morale alla propria scelta.

In alcune lettere scritte da giovani arruolatisi nel PFR, Partito Fascista Repubblicano, emerge comprensibilmente come la volontà di salvare la «Patria» dalle trame dei «Traditori» fosse uno dei motivi fondamentali della loro scelta.

Il carattere di guerra civile fu però identificato prontamente anche dai resistenti e venendo al dopo, paradossalmente, nel sistema nato dopo il 1945, coloro che avevano combattuto dall’altra parte si videro ammesso persino il diritto di riorganizzare un partito esplicitamente neofascista, il Movimento Sociale Italiano, ma non furono considerati degni di essere ricordati come parte del corpo nazionale.

Anche in altri Paesi sono stati attivati meccanismi simili, volti a nascondere il carattere fratricida delle ostilità che in alcuni momenti li hanno dilaniati. Credo che ammettere l’esistenza di una guerra civile nel proprio passato significa riconoscere che l’ordine politico raggiunto, così come è stato messo in discussione una volta, può essere criticato una seconda volta.

Significa cioè, dal punto di vista dei vincitori, relativizzare e quindi danneggiare il carattere universale della propria legittimazione. In questi anni si è discusso in maniera ampia, coinvolgendo ogni parte della società civile ed intellettuale: a volte raggiungendo un equilibrio che poteva essere costruttivo, spesso degenerando in odio fazioso.

Tra militanti ossessionati e facinorosi in odore di sanguinaria violenza, l’Italia resta volgarmente lacerata tra il nero e il rosso. Nessuno si sente escluso nella bagarre tra partigiani e nostalgici: anche le nuove generazioni per eredità culturale o per emancipazione personale non si defilano in questo conflitto.

Eppure, senza dimenticare ciò che è successo, senza lasciare cadere nell’oblio il sangue fratricida, dovremmo imparare a pensare a costruire una nuova civiltà che sappia vivere di unità e di moderazione, che sappia elevarsi al di là dello scontro storico, per generare un modello di confronto e di produzione serio, perché seppure siano eventi che si addensano in un ristrettissimo arco temporale, destinati a marcare un forte impatto politico e sociale, con conseguenze di lunga durata, non possiamo lasciare determinare con rabbiosa insoddisfazione i futuri scenari da valutazioni che non troveranno mai l’unilateralità delle considerazioni e l’appianamento consolatorio.

Ecco che scambiarsi un segno di pace potrebbe aiutare chi deve costruire il futuro di questa Nazione, senza dimenticare, ma provando, con impegno e rispetto, ad accettarsi per quello che siamo stati.

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Autore Massimo Frenda

Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.