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Dell’umanità

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Washoe e Roger Fouts


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Tra cultura, linguaggio e morale, la differenza verso gli altri animali potrebbe essere l’ipocrisia

Questo scorcio di terzo millennio ci sta portando ad interrogarci su cosa sia l’umanità e, soprattutto, se l’uomo dei nostri tempi ne possa conservare almeno un poco.

Specialmente negli ultimi mesi, in cui le restrizioni imposte alle libertà personali e alle possibilità relazionali ed espressive rendono più rarefatte delle azioni che, almeno nel senso comune, potremmo definire come umanizzanti.

Non possiamo, però, rispondere alla seconda domanda senza rispondere alla prima.

Senza capire quali sono le caratteristiche che ci distinguono da un animale, o dovrebbero farlo, non possiamo, di conseguenza, provare a decidere se ne siamo in possesso.

Una di queste viene spesso individuata nella cultura, intesa in senso antropologico.

Ci troviamo, però, di fronte ad un ennesimo problema di definizione. Le stesse scienze sociali hanno dato tali e tante versioni da creare confusione sul significato da attribuire a questo termine.

Proviamo ad azzardarne una minimale, che potrebbe trovare tutti più o meno d’accordo.

Possiamo, cioè, distinguere tra ciò che è innato e ciò che, invece, è appreso.

Ci sono indubbiamente dei comportamenti che sono dovuti all’imprinting genetico. Il pulcino di cuculo che appena rompe il guscio che lo imprigiona spinge fuori dal nido le altre uova non ancora schiuse non può certamente aver imparato a farlo per trasmissione di informazione.

Di contro, in molti gruppi di primati, e non solo, si possono registrare dei comportamenti che sono invece trasmessi proprio culturalmente.

Da questo punto di vista non esiste differenza tra l’uomo e il macaco che usa un sasso per aprire una noce di cocco perché ha visto qualche altro esemplare più anziano che lo faceva.

La differenza potrebbe essere nella complessità della cultura, nello sviluppo delle tecnologie e delle scienze?

Se partiamo da questo assunto andiamo a proseguire su un terreno molto pericoloso. Dove fissare il limite minimo di complessità, di sviluppo tecnologico e scientifico tale da segnare questo confine?

Ancora, se la cultura può essere misurata secondo queste variabili, le stesse non potrebbero diventare la giustificazione per nuove campagne di incivilimento dei barbari?

Esiste già chi pretende di esportare la democrazia, partendo dal presupposto che il proprio modello sia auspicabile anche per altre nazioni.

E ancora, le tribù che vivono come comunità, quindi che hanno delle interazioni semplici, non hanno una tradizione scientifica e tecnologie simili più a quelle di gruppi di macachi che a quelle di una metropoli occidentale, non sono forse da considerare umane?

Possiamo schiavizzarne i componenti? O anche mangiarli come facciamo con molti altri animali?

Sicuramente la discriminante non può essere la complessità, che non significa per nulla superiorità.

Un altro aspetto collegato e preso in considerazione è quello del linguaggio, inteso come associazione arbitraria tra suono e oggetti. Non certo la scrittura, che arriva in tempi molto recenti.

Se con il suono sedia faccio riferimento ad un certo oggetto sto associando un significante ad un significato. Un simbolo mi rimanda ad un oggetto reale.

Ma anche le api hanno un sistema simbolico, anche abbastanza complesso, per fornire indicazioni circa la presenza di cibo.

Così come esistono casi di animali parlanti, come la scimpanzé Washoe, tanto per citarne uno.

Se andiamo a disquisire sulla complessità ricadiamo nello stesso caso precedente.

In fondo, certe risposte sono di adattamento all’ambiente, per cui il grado di complessità è quello necessario a fronteggiare le sfide esterne.

Un sistema che sopravvive, che sia vivente o sociale o culturale, si perpetua perché sostanzialmente è adatto.

Alcune popolazioni scandinave hanno decine di termini per indicare la neve. Per loro è una questione di sopravvivenza, o almeno lo era, al giorno d’oggi mantiene solo una valenza pratica. Sapere se quella neve si scioglierà, si accumulerà o ghiaccerà incide sulla loro vita.

Per un nativo di un Paese tropicale, invece, questa distinzione non avrà mai nessuna utilità in termini pratici. Chi vive in certe zone la neve la vedrà solo nei film di Natale o in vacanza.

Altro elemento viene individuato nella moralità.

La Genesi racconta che nel giardino dell’Eden, la Gerusalemme terrestre, Adamo ed Eva vivessero in una condizione di beatitudine ingenua. Solo dopo aver mangiato il frutto della conoscenza del bene e del male possono mettere in atto il libero arbitrio. Saranno cacciati, perché la consapevolezza comporta una successiva caduta. Ma non andiamo oltre, di questo abbiamo già parlato in precedenza.

Ma come possiamo definire la morale?

Relativo ai costumi, cioè al vivere pratico, in quanto comporta una scelta consapevole tra azioni ugualmente possibili, ma alle quali compete o si attribuisce valore diverso o opposto (bene e male, giusto e ingiusto).
Dizionario Treccani 

Uno dei primi lavori di Konrad Lorenz è Armi e morale negli animali pubblicato nel 1935.

Per questa e per altre sue opere, soprattutto sulle oche selvatiche, viene tacciato più volte di voler a tutti i costi umanizzare gli animali.

La sua risposta è esemplare.

Io non voglio umanizzare gli animali: occorre soltanto tener presente che il cosiddetto troppo umano è quasi sempre un pre-umano, qualcosa quindi che è comune a noi e agli animali superiori. Credetemi, io non proietto per nulla qualità umane sugli animali, anzi, faccio proprio il contrario, mostrando quanto sia ancora forte e profonda l’eredità animale nell’uomo.
Konrad Lorenz – L’anello di Re Salomone

Un altro celebre etologo, Frans De Waal, in numerosi studi parla dei meccanismi che si trovano in alcune specie animali di empatia, altruismo, compassione, al punto di affermare che la moralità non è una prerogativa esclusivamente umana.

Soprattutto in ricerche rivolte a cani e scimpanzé, lo scienziato olandese rileva come si possano osservare capacità morali, cognitive e sociali simili a quelle umane, fino a sostenere che

distinguono tra bene e male e reagiscono alle ingiustizie.

Se consideriamo che, a differenza degli altri animali, l’essere umano uccide per il gusto di farlo ed uccide anche i suoi simili, ci viene da chiederci se anche da questo punto di vista ci siano delle differenze, anzi, se ve ne siano di positive.

Siamo unici nel dare, questo sì, delle giustificazioni alle nostre scelte etiche, ma potremmo semplicemente etichettare questa unicità, come ipocrisia.

Insomma, se analizziamo la questione dal punto di vista della cultura, del linguaggio e della morale, parecchi indizi ci portano alla conclusione che queste facoltà non sono prerogativa esclusiva dell’uomo.

Andare a porre l’accento su grado di sviluppo delle stesse, come abbiamo visto, ci porterebbe a conseguenze molto pericolose soprattutto perché errate.

Quindi ci viene quasi da concludere che l’unica caratteristica autenticamente umana sia l’ipocrisia.

Ma, al di là di queste riflessioni, e posto che su questi campi è più semplice ravvisare le similitudini, in un prossimo articolo andremo ad analizzare la possibilità di definire secondo altre variabili la presunta unicità dell’uomo.

Il risultato potrebbe essere anche più ottimistico.

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Autore Pietro Riccio

Pietro Riccio, esperto e docente di comunicazione, marketing ed informatica, giornalista pubblicista, scrittore. Direttore Responsabile del quotidiano online Ex Partibus, ha pubblicato l'opera di narrativa "Eternità diverse", editore Vittorio Pironti, e il saggio "L'infinita metafisica corrispondenza degli opposti", Prospero editore.