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Pulcinella, Fabio Da’ath, Croce e l’alchimia di Raimondo di Sangro

1987


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Trovare la pietra, nascosta nella luce, sublimando la luce nascosta.
Raimondo di Sangro, Principe di Sansevero

Il sogno è un’esperienza pluridimensionale che consente di trovare la pietra, nascosta nella luce, sublimando la luce nascosta, passando dalla dimensione dei sensi ad una parallela in cui si vivono esperienze mediante le quali l’inconscio, con un linguaggio figurativo, invia dei messaggi che possono essere decifrati.

È necessario imparare ad interpretarli perché quando si cerca di esplorare compiutamente il simbolo, la psiche, attratta da idee di natura trascendente, rendendosi conto delle difficoltà a cui sta andando incontro e comprendendo i limiti del rigore scientifico, tende, per insita capacità logica, ad arrendersi, perché esso non può essere inteso con l’ausilio della sola ragione.

Ci soffermiamo davanti al simbolo perché promette più di quanto riveli. Esso non dissimula, ma rivela a tempo debito. Il mare, poi, è un frequentissimo luogo di nascita della visione, laddove questa deve essere cercata.
Carl Gustav Jung

Le visioni oniriche, generalmente, non sono figlie dell’invenzione o della volontà, bensì della spontaneità. Consistono in materiale allegorico, tra cui il linguaggio figurato, pittoresco e non razionale e, per essere spiegate, necessitano di un’analisi accurata e non immediata.

Una sorta di guardiano della soglia tiene chiusa a chiave la serratura della porta che separa il conscio dall’inconscio e dai mondi paralleli, un uscio che, se aperto, riesce a far vivere il singolo in un equilibrio così consolidato da condurre alla consapevolezza del sé.

Il sogno della scorsa notte, oltre ad impregnare la mente di tantissimi significati ed immagini, mi appassiona particolarmente, dati i protagonisti.

Madame Carmen, Fabio Da’ath ed io, Pulcinella, giunti a Napoli in piazza San Domenico Maggiore vediamo un fuoco fatuo, un lumicino che, spinto da un dispettoso venticello, vaga da un punto all’altro dello slargo.
Lo stupore accresce ancor di più perché la fiammella emette sibili, somiglianti a soffocati lamenti, alternati a grida agghiaccianti e silenzi penetranti.

Nonostante cerchi di dissimularlo, una strana sensazione mi attanaglia, le gambe sembrano voler smettere di sorreggermi e si istrada in me la paura di qualcosa che non riesco a comprendere. Madame Carmen, con i suoi bellissimi occhi, cerca, invano, di tranquillizzarmi. Il fuoco fatuo sembra percepire il mio stato d’animo e inizia a roteare lentamente, ma assiduamente, attorno a noi tre.

Mentre, con una delicatezza indescrivibile, una mano si appoggia sulle mie spalle, una cordiale voce esordisce:

Caro Pulcinella, non temere, la fiammella non è altri che un’anima in pena.

Mi giro e, con grande gioia, vedo Benedetto Croce, autore, tra l’altro, di ‘Storie e Leggende napoletane’, che, con le sue parole e i suoi scritti, non esita a lodare ed assegnare meriti alla mia maschera.

Il filosofo prosegue:

Ti proteggerò dalle paure delle ipocondrie, dai turbamenti che da oggi incontrerai per la tua via, dalle ingiustizie e dagli inganni del tuo tempo, dai fallimenti che per tua natura normalmente attirerai.
Ti solleverò dai dolori e dai tuoi sbalzi d’umore, dalle ossessioni delle tue manie. Supererò le correnti gravitazionali, lo spazio e la luce per non farti invecchiare, ti farò viaggiare dal mondo visibile a quello invisibile, da quello dei sensi a quello sovrasensibile.

Resosi conto che mi sono tranquillizzato, si inchina e bacia la mano di Madame Carmen, saluta Fabio e aggiunge:

Miei cari, incontrarvi in questo luogo mi riempie di felicità.
Non abbiate apprensione alcuna, la fiammella che vedete girovagare cela, al suo interno, un fantasma inerme e condannato al dolore eterno, quello della bellissima principessa Maria d’Avalos, che, ogni notte, indossando vesti succinte, con i capelli mossi dalla brezza, si aggira afflitta nella piazza e tra le stradine laterali alla ricerca del suo amante. Nonostante le lunghe e spaventose urla provochino brividi a chi ha la sventura di ascoltare, la sofferenza che prova è immensa e indissolubile.

La notte del 18 ottobre del 1590, a Palazzo Sansevero, che sorge accanto a questa piazza, si verifica uno dei più efferati delitti d’onore che la tradizione napoletana ricordi; la nobildonna e l’avvenente Fabrizio Carafa, duca d’Andria, vengono barbaramente trucidati dal marito di lei, il madrigalista Carlo Gesualdo Principe di Venosa, che, per realizzare il suo intento, si fa aiutare da alcuni sgherri.  

Don Gesualdo, grande amico del poeta Torquato Tasso, di cui musica diversi testi, non sopportando il disonore cagionato dal tradimento della consorte, fa inoltre esporre i due cadaveri, nudi e sanguinanti, all’ingresso della dimora. Si dice, inoltre, che a tale crudeltà vi sia da aggiungere anche l’oltraggio di un gobbo, il quale, penetrato in tarda notte in casa, violando il corpo esanime della splendida donna, commette un vero e proprio sacrilegio.  

Carlo, temendo la vendetta della famiglia Carafa, scappa da Napoli per rifugiarsi nel suo feudo in Irpinia, a Castello di Gesualdo, inaccessibile ed inespugnabile fortezza di origine longobarda, che trasforma in una residenza lussuosa con una fastosa corte musicale, dove vive, per diciassette anni, ossessionato dall’espiazione dei propri peccati e dalla ricerca del perdono divino.

Nonostante provi un profondo senso di colpa, riesce a resistere alle tenebre della solitudine e della disperazione, a dare una ragione alla sua esistenza fino a che, sopraffatto dalla notizia del decesso di Emanuele, suo unico erede, per una caduta da cavallo, si ritira in una piccola stanza del maniero e si lascia morire d’inedia. Questo episodio dà il là alla rinascita, alle nuove sorti del Palazzo Sansevero e della Cappella dei Sangro, detta anche Chiesa di Santa Maria della Pietà o Pietatella. Acquistato dalla famiglia Sangro di Sansevero, il poliedrico ed illuminato Raimondo, per conformarlo al suo piacere e cancellare il tragico episodio che tuttora ne segna la storia, lo fa restaurare.

Quando, nel 1889, crolla un’ala dello stabile, in tanti mettono in relazione il cedimento con il pluriomicidio poiché, secondo la tradizione, in seguito al brutale episodio, l’immobile e i suoi abitanti, fino alla settima generazione, sarebbero vittime della maledizione.  

Il Principe Raimondo di Sangro, massima espressione del pensiero ermetico del Settecento partenopeo, è uno dei più eminenti pensatori d’Europa. Grazie al suo acume speculativo, riesce a spaziare dall’Alchimia alla Santa Scienza. Dedito alla ricerca della verità, fa coesistere il pensiero latomistico di stampo anglosassone con il bagaglio umanistico, ermetico ed alchemico che la Sapienza Arcana deposita, nel corso dei secoli, a Napoli.   

Riesce a far convivere e contaminare gli apporti docetici provenienti dall’Antico Egitto, la Sapienza Pitagorica della Schola Italica e il pensiero cabalistico trasmesso nel tempo dalla comunità di ebrei presenti nell’aerea cittadina, divulgando un pensiero ermetico caratterizzato sia da un significativo Percorso di Luce che da un effettivo Rinnovamento interiore.

Prima di farvi visitare, con occhi che sanno vedere, la Cappella magistralmente personalizzata dallo stesso mecenate, desidero sommariamente descrivervi ciò che generalmente accade nel suo laboratorio:

“Fiamme vaganti, luci infernali guizzano dietro i finestroni… ed ora le fiamme sono colorate d’azzurro… Scompaiono le fiamme, si rifà il buio, ed ecco rumori sordi e prolungati risuonano là dentro… nel silenzio della notte s’ode come il tintinnio di un’incudine, o si scuote il selciato del vicoletto come al passaggio d’enormi carri invisibili”.

Nell’incamminarci verso la cappella, incrociamo un fraterno amico di Fabio, un uomo dai modi garbati che vive nel Cilento soddisfatto di un incontro appena concluso con Raimondo, che spiega:

Il nobile ritiene condivisibile un mio pensiero sul Drago che dorme, che vorrei illustrarvi. Ritengo che tale creatura debba essere individuata nel Kundalini, il serpente che riposa attorcigliato al coccige dell’uomo. Ridestandosi, attraversa i sette chakras e giunge al midollo allungato e alla ghiandola pineale, ossia, a ciò che simbolizza la pigna. Un risveglio che consente l’apertura del terzo occhio, quello dell’intuizione, simbolo del viandante in cerca d’illuminazione, e che consente la percezione diretta delle realtà ultraterrene, che può essere sia un dono dell’Altissimo, che si china verso le anime che ama, sia frutto della volontà del singolo, che si realizza mediante precise tecniche yogiche e potrebbe essere interpretato come atto di superbia nei confronti del Creatore.

L’Unione con Dio conosciuta dagli Arya come Samādhi, ossia “unione con”, dai cabalisti come Zivug e dai cristiani come Estasi, desta il Kundalini. Quest’ultimo, durante il percorso ascensionale che conducendolo alla ghiandola pineale, permette al terzo occhio di aprirsi, regala ineguagliabili brividi di piacere. Il sistema migliore per raggiungere questo scopo consiste nell’umile preghiera del cuore, quell’esicasmo che i monaci ortodossi ben conoscono.

Fabio, ascoltate queste parole, interviene:

Desidero narrarvi un mio brevissimo viaggio interiore, intrapreso per comprendere il mitico animale di cui parla il mio amico cilentano, attraverso quell’Atanor individuale che contiene tantissimi archetipi, dal quale si evince che il drago vive in ognuno ed è identificabile in un’ardente qualità spirituale, che lo fa coincidere con l’uomo stesso.

Tra i tanti esemplari assoluti c’è quello identificabile in un Drago paragonabile all’eroico Furore descritto da Giordano Bruno, che rappresenta la passione, il solletico al cuore, la fiamma che spinge alla ricerca di sé e dell’Onnipotente, un Padre Celeste che, mediante il Ruach haQodesh, ossia lo Spirito Santo o Spirito del Santo, per la tradizione rabbinica, crea un intreccio che coinvolgendo Sé, la Creatura e l’intero Creato, diviene Unità.

La bestia favolosa attualmente dorme, perché in un periodo surreale come quello che sta vivendo l’umanità, anche l’illuminato, il ricercatore e il viandante spesso scordano chi sono, cosa li spinge verso la verità e la vera vita. I loro comportamenti, come in una sorta di oblio, non conformandosi con il percorso intrapreso, dimostrano che, spesso, ci si dimentica che la paura della morte non deve albergare in noi, giacché si è già morti e si è rinati in quell’eternità che risiede nella comprensione di essere tutt’uno con il Creato.

Come ci insegna Gesù durante la sua passione, l’uomo, compreso nell’Unità imperitura dell’Universo, è contemporaneamente sia mortale che immortale. Occorre quindi procedere affinché, risvegliando il Drago, si prosegua nel percorso soggettivo che, perpetuandosi, garantisce trasmissione e trasmutazione e conduce al benessere e al progresso del singolo e dell’Umanità.    

Il cilentano, quindi, conscio che Fabio ha terminato, si congeda.

Croce, a questo punto, ci invita a raggiungere il luogo di culto dove sono celate importanti verità. Nel passare davanti al portone di Palazzo Sansevero, notiamo che un passante si fa il segno della croce, come per scacciare i malefizi di qualcuno.

Il nostro amato filosofo aggiunge:

Ricordo il fascino e l’originalità di questa casa signorile, gli abbellimenti, le decorazioni, gli ampliamenti realizzati su precisa richiesta del Principe, come rammento il cedimento di gran parte dell’abitazione, che, al pari di un castigo del cielo, annunciato da strani rumori nella notte del 28 settembre 1889, avviene a causa di infiltrazioni d’acqua, interessando proprio la sezione in cui avreste potuto ammirare il cavalcavia con orologio, che collegava lo stabile direttamente con la cappella, e le pittoriche decorazioni, ormai irrimediabilmente perse.

Giunti alla soglia della chiesa, Benedetto, con fermezza, bussa alla porta e un gentilissimo servitore, aperto l’uscio, scusandosi, ci informa che il Principe è fuori città ma che, da disposizioni ricevute, possiamo entrare e visitare la cappella gentilizia, che ospita ai suoi lati statue pregne di simbologia e, al centro, la riproduzione marmorea di uno straordinario Cristo.

Il celebre critico letterario esclama:

Miei cari, anticipandovi che quello che ci accingiamo a visionare simboleggia il percorso spirituale che l’iniziato ai saperi antichi deve compiere per perfezionare se stesso e scoprire la verità, è giusto premettere che qui Raimondo di Sangro manifesta la sua «filosofia» simbolica ed introspettiva.

Questo luogo, oltre a richiedere che vi si entri con venerazione e con la sapienza di uno studioso, esige che gli occhi del visitatore siano in grado di vedere e recepire l’arcano che si nasconde nelle varie sculture, rintracciare il leitmotiv, che, alla stessa stregua del filo di Arianna, guida il viandante nel cammino che consolida l’iniziazione ai Misteri.

Chi vi accede, previo recepimento di un idoneo insegnamento, è tenuto a consentire ai Misti, ai singoli e piccoli Io di compiere un esame di sé, un “Conosci te Stesso”, che sta alla base della Via Iniziatica, del percorso di avvicinamento alla Sorgente. Dopo l’apprendimento dei misteri celati, deve allontanarsi, perché nel Sancta Sanctorum, nel Centro, non si può sostare più del necessario.

Nel Tempio si entra brevemente e solamente per assimilare, imparare ed avanzare lungo le diverse tappe o gradi di iniziazione ai Misteri. Nel momento in cui si riceve e metabolizza l’insegnamento, è necessario che, lungo la durevole strada che conduce all’Uomo Nuovo, si proceda in modo personale e soggettivo. 

Il Principe sostiene che qui sia celato il secreto del suo veritiero Tempio, concepito ad Arte per Arte e secondo i secreti dei Regi. Sì, miei cari, avete ben compreso, secreti e non segreti.

Questo è il tanto visitato tempietto della Pietatella.
Come vedete, lo spettacolo che si presenta ai nostri occhi è eccezionale; nonostante le sue dimensioni non siano ragguardevoli, tutto è ben distribuito e le statue, denominate virtù, ne scandiscono il perimetro.

Conscio della nostra emozione, Benedetto veste i panni del cicerone per chiarirci alcuni simboli e significati.

Le statue laterali, nonostante siano dedicate ai componenti della dinastia dei di Sangro, sono scrigni esoterici, che accolgono l’ospite in una simbolica cerimonia iniziatica; entrando, ci si imbatte in due sculture, una a destra e una a sinistra, che richiamano sia le colonne del Tempio di Salomone, sia quelle d’Ercole, ossia, quelle del passaggio verso Atlantide, la civiltà da cui deriva il sapere ermetico.

Le rappresentazioni che, a mio avviso, rivestono maggior importanza, anziché essere quelle nelle nicchie interne ai pilastri, ossia, i busti degli avi di casa Sangro, sono quelle dislocate ai pilastri.

Per comodità preferisco iniziare a descriverle partendo da quella che risalta sull’ingresso principale e poi procedere in senso orario: il ‘Monumento a Cecco di Sangro‘. Vi esorto ad osservarla bene; dedicata a Francesco di Sangro, raffigura un guerriero che esce da una cassa. Non è certa l’autenticità dell’aneddoto, ma Raimondo narra che, durante una campagna di guerra, Cecco si fa rinchiudere in un baule trasportato, su di un carro, all’interno della rocca di Amiens.

Nell’emulare Ulisse che, nascosto nel Cavallo apre di notte le porte di Troia, egli, dopo due giorni, esce e permette ai suoi di impossessarsi della cittadella. Il simulacro, ricordando l’episodio di Gesù che il terzo giorno abbandona il sepolcro, evoca sia l’allegoria della resurrezione, sia la vita eterna che il Sapere dona a chi lo possiede. Rammenta, inoltre, un guardiano che, con la spada sguainata, è pronto ad accogliere chi ambisce ad esplorare la via dell’illuminazione e a bloccare l’accesso a chi non intende incamminarsi sul percorso che conduce alla conoscenza.    

Benedetto, elargendoci parole paragonabili all’olio profumato sul capo, che scende sulla barba di Aronne, prosegue:

La successiva, il ‘Decoro‘, ritrae un giovane dalle sembianze androgine che indossa un sandalo e uno zoccolo e rappresenta l’unione della natura maschile con quella femminile. Celebra la conclusione di una serie di operazioni che conducono all’uomo filosofico, ovvero, quel sale, quella struttura in cui si uniscono le due nature, zolfo e mercurio, sogno e veglia, in cui avviene il Solve et Coagula, lo sciogliere, la preparazione e la riunificazione delle materie, che, oltre a consentire il raggiungimento di un grado di perfezionamento sempre maggiore, prelude alla cottura, nel simbolico Atanor che apre le porte prima all’Opera al Nero poi all’Opera al Bianco e, infine, all’Opera al Rosso.

Una scultura, però, che ricorda che l’Altissimo crea l’essere umano a sua immagine: due entità, maschio e femmina, simili a due fiori che, seppur in modo differente ed originale, esprimono l’intrinseca bellezza e, incarnando e vivendo, diversamente, la dignità ricevuta dal Signore, ambiscono alla stessa meta divina e seguono il medesimo itinerario evolutivo.

La seguente, conosciuta come ‘Liberalità‘, geometrizza e chiude il tempio. In essa fanno sfoggio di sé una figura efebica, di incerta sessualità, che regge una cornucopia colma d’oro e gemme, un’aquila, posta ai suoi piedi, un compasso e una piccola piramide. Lo strumento geometrico da disegno rappresenta la volontà, il genio, la capacità, mentre la costruzione egizia, che alla base ha un quadrato che esprime il perfezionamento, incarna la scala, il mezzo di tramite con cui è possibile ascendere al cielo; entrambe figure chiave dell’esoterismo iniziatico.

Nella consecutiva, lo ‘Zelo della religione, dedicata alle due mogli di Giovan Francesco di Sangro, fondatore della cappella, si esaltano l’importanza dell’intelletto, dello studio e della conoscenza che permettono di cacciare, in modo permanente, le falsità da sé. La devozione delle consorti è manifestata dalla figura di un saggio vegliardo, un maestro, un alchimista con barba fluente, che solleva nella mano destra una lampada ad olio e nella sinistra una sferza.

Il lume fa riferimento alla fiaccola della verità, alla Luce e alla Carità, la frusta, invece, è emblema di Punizione. L’anziano, inoltre, calpesta un libro da cui fuoriescono le serpi dell’eresia e del peccato. Due piccoli putti sorreggono una decorazione ovale con i profili delle due ave del Principe, mentre un terzo, utilizzando una fiaccola, è intento a distruggere testi eretici.

Lo scrittore, indicandoci l’ingresso laterale della Cappella, dislocato subito dopo tale opera marmorea, ci recita a memoria l’iscrizione apposta esternamente:

“Chiunque tu sia, o viandante, cittadino, provinciale o straniero, entra e devotamente rendi omaggio alla prodigiosa antica opera: il tempio gentilizio consacrato da tempo alla Vergine e maestosamente amplificato dall’ardente principe di Sansevero Don Raimondo de Sangro per la gloria degli avi e per conservare all’immortalità le sue ceneri e quelle dei suoi nell’anno 1767. Osserva con occhi attenti e con venerazione le urne degli eroi cariche di gloria e contempla con meraviglia il pregevole ossequio all’opera divina e i sepolcri dei defunti e quando avrai reso gli onori dovuti profondamente rifletti e allontanati”.

Non ritenendo necessario dilungarsi sulla scritta, ci chiede di seguirlo e continua:

Siamo di fronte alla ‘Soavità del giogo coniugale‘, nota anche come ‘Benevolenza coniugale’, che, nel suo complesso, esprime, come elemento, l’aria. Dedicata alla moglie del primogenito di Raimondo, raffigura una donna dall’ampio ventre, che con la mano destra innalza due cuori fiammeggianti, segno di amore profondo e reciproco, mentre con la sinistra tiene a sé un giogo piumato, che rimanda all’obbedienza e al dominio che l’alchimista esercita sulla materia dopo aver trovato l’oro. 

Ai suoi piedi è scolpito un putto alato mentre gioca con un pellicano, che l’iconografia medievale accosta all’uccello acquatico che si lacera il petto per nutrire i piccoli, citazione indiretta del sacrificio di Cristo sulla croce, ossia, la Carità. Il volatile equivale sia ad un tipo di recipiente per la distillazione, che alla pietra filosofale dispersa nel piombo fluido. Il suo sangue, secondo la tradizione ermetica, è associato alla quintessenza naturale, la sostanza corporea priva di ogni qualità elementare.  

Ed ecco poi, verso Oriente, verso l’Altare, una delle più belle opere della cappella, la ‘Pudicizia‘ la «mater incomparabilis» del Principe, donna Cecilia Gaetani d’Aragona. La dama, avvolta da una stoffa velata che sembra accarezzarle dolcemente le forme ancora bagnate, ha una corona di rose che, dipartendo da un bocciolo racchiuso tra le dita della mano destra, cingendole il grembo, raggiunge l’altro braccio.   

Mentre il suo sguardo sembra perdersi nel vuoto, l’arto sinistro poggia sull’angolo ribaltato di una lapide spezzata, ove sono incise poche parole, che, inequivocabilmente, rammenta l’esistenza prematuramente troncata della madre, accanto alla quale si può ammirare l’albero della vita che rimanda al legame con la prima donna, Eva.

Nel suo complesso, simboleggia quell’Iside velata che il Principe intende cercare. Una divinità celata dal drappo sottile che può essere rimosso solo da chi è in grado di trasformare il marmo in seta. Dea che, dal punto di vista esoterico, con quel corpo semitrasparente nasconde una profonda conoscenza che può essere divulgata solo a chi ha la giusta preparazione, altrimenti potrebbe essere molto pericolosa.

Il tessuto che la fascia, scolpito con mirabile maestria, fa pensare che sotto la superficie della Materia Prima dei Filosofi si nasconda un frutto prezioso, la Sophia o Sapienza, che deve essere liberato da ogni impurità, alla stessa stregua della Maddalena, la quale, prima di congiungersi spiritualmente con il Cristo risorto, è purificata dai sette demoni che la dominano.

La ghirlanda di rose che le avvolge i fianchi allude alla tradizione templare della “Rosa Mistica”, la quercia che fa bella mostra di sé all’albero della conoscenza del Bene e del Male e i suoi arbusti alla Prisca Sapientia. L’Arbor Philosophica, le cui radici sembrano essere le vene che percorrono la terra, è simbolo della totalità del Sé ed è di natura femminile e materna; fonte di vita e protezione, dove avvengono la trasformazione e il rinnovamento, fornisce una ricorrente immagine archetipale ed è paragonabile all’albero delle Sephiroth che, a sua volta, raffigura quello cosmico.

Il bassorilievo che sostiene perpetuamente la Luna, l’eterno femminino, ossia la madre, ritrae l’episodio evangelico del ‘Noli me tangere’, in cui Cristo appare alla Maddalena nelle vesti di giardiniere o ortolano. Una raffigurazione che, oltre a ricondurre al tema dell’antica sapienza occulta ed intangibile per chi non sia iniziato ai suoi misteri, è interpretabile come metafora di un viaggio in cui il neofita deve morire, simbolicamente, per poter rinascere.

Madame Carmen non lascia trasparire alcuna emozione, io e Fabio, invece, rimaniamo incantati dalla trasparenza e dall’effetto bagnato del velo.

Benedetto, notata la mia suggestione, ma deciso a portare a termine il suo compito, continua a donarci parole che, come rugiada dell’Ermon che scende sui monti di Sion, descrivono appieno il significato delle sculture:

Miei cari, la lapide sepolcrale fa apparire la donna nelle vesti di un fantasma, coperto da un velo dall’aspetto liquido, che ha, ai suoi piedi, un bruciaprofumi, immagine dell’elemento aereo. Le due sostanze naturali lasciano credere che la dama sia composta di acqua e aria che, anziché rappresentare debolezza, è emblema di quella forza vitale della quercia, che, dalla base della statua, rompendo la lastra tombale e recidendo il contenitore della materia, mostra l’anima, ossia la componente femminile che rappresenta il mistero, Iside, la dea ricordata dalla scienza iniziatica, la Papessa dei tarocchi.

La ‘Pudicizia’, alludendo all’eterno femminino, che deve essere rivelato, si concretizza in quell’umido radicale che attiene al mercurio. Data la presenza del drappo, molti studiosi di esoterismo sostengono che sia allegoria della Sapienza velata e che sia posta nello stesso luogo della Neapolis greca in cui gli antichi sacerdoti ergono la statua di Iside coperta, anche lei, da un tessuto.

Benedetto, poi, lasciandosi andare ad un malcelato vezzo, rivolgendosi a me, dice:

Caro Pulcinella, considerato il tuo senso del bello, l’amore per l’arte, per le delicate parole, voglio farti dono di versi in rima, tratte dal ‘Trionfo della Pudicizia’, di Francesco Petrarca:

“Passammo al tempio poi di Pudicizia,
ch’accende in cor gentil oneste voglie,
non di gente plebeia ma di patrizia…
…Felice sasso che ‘l bel viso serra!
ché, poi ch’avrà ripreso il suo bel velo,
se fu beato chi la vide in terra,
or che fia dunque a rivederla in cielo?”

La nostra guida, lasciandomi l’amaro in bocca, poiché mai vorrei allontanarmi, ribadisce:

Benché convinto che la ‘Pudicizia’ rivesta in questo tempio, e non solo, un ruolo importantissimo e pensi che debba essere posta in relazione al concetto di vita e resurrezione, poiché tutti i suoi simboli sono riconducibili allo stesso argomento, seppur con disappunto, dobbiamo proseguire la nostra visita.

Ci rechiamo così all’altare sulla cui cima campeggia una Pietà incorniciata da una bella raggiera di angeli. Ai lati sono collocati due creature celesti e sulla stessa mensa sacra, mediante un eccellente altorilievo, sono ritratte la sofferenza di Maria e di Maddalena e la drammatica Deposizione del Cristo morto, la cui rappresentazione sottostante sembra indicare il proseguimento del viaggio di Gesù. Infatti, un putto apre un sarcofago vuoto dal quale esce, a sua volta, un angioletto che, personificando l’anima che abbandona la tomba, riconduce alla Sua Resurrezione.

Benedetto, notato il nostro grande interesse, ci fornisce importanti dettagli:

La passione di Gesù incarna il simbolo alchemico della Grande Opera, che si svolge mediante la Via Crucis e si conclude con quell’Oro Filosofico simbolizzato dal Santo Volto del Messia, dal velo della Veronica, che gli studiosi di esoterismo paragonano alla pietra degli alchimisti. La Vergine che sorregge il “Figlio Deposto” personifica, invece, la “Materia Prima” da cui il corpo di Cristo è generato e da cui deve essere rivivificato.

I due angioletti, disposti l’uno più avanti dell’altro, hanno una sola gamba ciascuno e, se li si osserva da lontano, palesano l’immagine del Rebis, la cosa doppia, che nasce dall’unione dei due elementi dell’Opera. Nel sollevare in segno di vittoria il Velo della Veronica, testimoniano, inoltre, l’irraggiamento della Luce.

Sotto la tavola liturgica, il primo putto intento ad alzare il coperchio dell’urna, ossia, dell’Athanor, rappresenta l’apertura della Materia in cui avviene la trasmutazione. Il secondo sta a significare il cambiamento, infatti, sbucando con la testa dal sarcofago, oltre ad indicare l’uscita dalla grotta buia, dalla Terra Interiore, incarna la natura volatile della Sostanza certificata dall’involucro contenente l’acqua mercuriale che, a sua volta, non dev’essere buttata via, ma conservata, affinché si possano studiare e comprenderne le caratteristiche.

Detto ciò, prima appoggia con molto tatto la mano sulla mia spalla, poi dichiara:

Orsù miei cari, passiamo al simbolo del Sole, al principio maschile, ossia al ‘Disinganno‘. Intrigante e sconcertante, sia per fattura artistica che per i simbolismi celati, ritrae un uomo avvolto in una rete di corde, estremamente difficile da realizzare, dato l’uso del marmo.

Oltre a denotare la disillusione delle cose mondane, esprime una sorta di scrematura in cui si catturano le anime pronte e si ricusano quelle non pure ed impreparate. Protagonista è Antonio, il padre del Principe che, seppur in silenzio, sembra dire all’osservatore che la fragilità caratterizza la vita dell’uomo, infatti, quando questi mostra le insite virtù, manifesta anche le proprie debolezze.

Mentre Antonio di Sangro si libera dal peccato, un genietto alato, che porta sulla testa una piccola fiamma, lo aiuta ad affrancarsi dalle inestricabili maglie della vita e dalle apparenze e a scorgere la verità esoterica e l’autentica conoscenza. La fiammella, oltre ad evocare il Lume Eterno, è simbolo dell’Intelletto umano.

Il genietto scalcia il globo terrestre, che, a sua volta, fa riferimento alla Materia Prima degli alchimisti, alle passioni ingannatrici. I significati della scultura sono suggellati, oltre che da ciò che appare in primo piano, l’uomo e l’amorino, anche dalla Sacra Bibbia aperta ai piedi dell’aristocratico, emblema del fervore religioso, e dal bassorilievo che riporta l’episodio evangelico di Gesù che dona la vista ad un cieco intento a chiedergli la luce, che, anziché scorgere la realtà relativa, riesce ad osservare quella assoluta.

È il momento di passare all’opera successiva, la ‘Sincerità‘; inequivocabile è il messaggio che rivolge all’uomo affinché non menta a se stesso, altrimenti non avrebbe via d’uscita.

È dedicata a Carlotta di Sangro, la bella moglie di Raimondo, e raffigura una donna avvolta in un rigido panneggio, indossato con grazia ed eleganza. Nella mano sinistra regge un cuore, chiaro riferimento a pace e amore e simbolo sulfureo ben lavato e depurato, nella destra un caduceo, che attiene alla scienza ermetica, si identifica nell’unione degli opposti, nella fusione dello zolfo con il mercurio, concreta pace e ragione e, con i due serpenti, rappresenta le due nature che combattono nel vaso e che solo l’Oro Filosofico, ossia, la Verga Centrale, può pacificare e fermare assieme il fisso e il volatile.

Alle sue spalle c’è una piramide, sulla cui sommità si trova un medaglione con all’interno una pietra grezza in cui si intravede un viso abbozzato nei lineamenti. In basso, un amorino, un po’ in carne, e due colombe che rimandano a candore, fedeltà coniugale, fertilità e che indicano l’Albedo della materia grezza, prima che si trasformi in pietra filosofale. 

I due uccelli, di cui uno guarda verso l’alto e l’altro verso il basso, come a salire e scendere, vivono uno stato di agitazione e simboleggiano il ‘volatile’ che prima si alza dal ‘fisso’, poi ricade e riprende il divenire. Un processo equivalente al risultato della soluzione filosofica durante la quale la materia viene dissolta e purificata.

Terminata questa esposizione, seguendo il lato destro del tempietto, l’intellettuale ci conduce al pilastro successivo, che ospita il Dominio di se stessi, dedicato a Geronima Loffredo, nonna paterna del Principe, e continua:

Personaggio principale della scultura, che corrisponde all’elemento fuoco, è un uomo vestito da antico romano, con al guinzaglio un leone sottomesso ai suoi piedi; ci sono, inoltre, un putto, che regge un medaglione con il ritratto dell’ascendente defunta, e un angioletto, che se ne sta in disparte.

Simboleggia la forza d’animo di una donna mai sconfitta dall’ostile destino e né esaltata da quello propizio. Il rilievo marmoreo con il guerriero, che con lo sguardo ipnotizza ed ammansisce il felide, rimarca che l’intelletto e la volontà prevalgono su istinto, energia selvaggia e vanità delle passioni, il cui controllo è una tappa imprescindibile nel percorso iniziatico.

Il simulacro ha il potere di trasmettere la Virtù dell’Equilibrio, che ogni illuminato deve dimostrare nel governare, con fermezza, se stesso. Il combattente, nonostante abbia gli occhi chiusi, non smette di essere vigile, perché molte delle risposte che si cercano giungono attraverso i sogni, parte consistente della coscienza e della Conoscenza Ancestrale.   

Miei cari, se la fiera fosse rossa incarnerebbe la realizzazione della pietra filosofale, ma dato è bianca, come il resto del gruppo marmoreo, alchemicamente simbolizza la materia originaria e, tenuta con la catena di ferro, rappresenta il solvente dell’uomo. La decorazione ovale che è al centro riproduce, inoltre, l’Athanor, all’interno del quale la belva attende avvenga la trasmutazione.

Accanto al mammifero staziona il genietto alato, che malgrado palesi un forte disinteresse, attraverso la catena stessa, opera un costante controllo. Un genietto che Kremmerz, l’amato maestro di Fabio, definirebbe genio positivo e che, con il suo fare mesto e la faccia spenta, verosimilmente celebra lo stesso Raimondo, fanciullo ed orfano, che, in una sorta di superamento della morte, dà luogo ad un’assidua contemplazione.

Veniamo quindi scortati verso il successivo capolavoro, l’Educazione e Croce spiega:

Questa donna è intenta ad istruire un ragazzino che, ascoltandola attentamente, tiene nella mano sinistra il ‘De officiis’ di Cicerone, testo ritenuto strumento di comprensione del problema morale dell’utile e dell’onesto. Anche in questo complesso marmoreo troviamo una piramide sulla cui sommità campeggia un medaglione con due donne, le mogli di Paolo, secondo principe di Sansevero.  

La precettrice, rivolgendosi al giovinetto identificabile sia in Ferrante che nello stesso Raimondo, sembra impersonare l’altra faccia della maternità, che, come sinteticamente riportato alla base della colonna che fa da seggio alla figura di donna «Educatio et Disciplina Mores Faciunt», «l’Educazione e la Disciplina Formano i Costumi», si fonda su virtù ed autorità. Costei, inoltre, richiama quel fuoco alchemico intento ad erudire l’allievo che, intervenendo nell’Opera, stimola lo zolfo nella materia, attraverso l’azione dell’elemento e, al termine, versa il sale ammoniacale per riunire tutto ciò che è sparso.

Come ben sa il vostro caro Giustiniano Lebano, la formazione maturata sui testi della tradizione e la disciplina interiore rappresentano passaggi suggestivi ed obbligati per il raggiungimento della perfezione cui ambisce l’adepto. Le forme del discepolo, invece, portano alla mente l’ermafrodita, l’annullamento delle diversità, la perfetta armonizzazione tra maschile e femminile.

La scultura successiva, l”Amor Divino‘, di pregevole fattura, dedicata a Giovanna di Sangro dei marchesi di San Lucido, moglie del quinto principe di Sansevero, Giovan Francesco, ritrae un giovane dalle sembianze androgine che guarda verso il cielo mentre, intendendo offrirlo, tiene nella mano destra un cuore fiammeggiante.  

L’iscrizione incisa sul basamento manifesta l’amore che la nobildonna prova per l’Altissimo, che le fa ardere il cuore di una passione mistica. Mentre la scultura rievoca il soffio celeste che anima il fango dell’uomo, mediante il cuore che il giovinetto sorregge, l’autore simboleggia lo Zolfo Filosofale, che, a sua volta, purificato dal fuoco che Dio trasmette all’alchimista, porta alla mente la Rubedo, fase conclusiva del processo alchemico.

L’amato filosofo, esaurita la descrizione delle sculture poste ai lati della cappella, ci conduce al centro della navata, nei pressi della statua di marmo, scolpita a grandezza naturale il Cristo velato’, che ci presenta con grande intensità:

Ecco la statua del Redentore, figura cardine di tutta la cappella. Il Messia delicatamente coperto da un sudario trasparente, che molti ritengono sia realizzato dallo stesso blocco di marmo, mentre altri che sia apposto mediante qualche tecnica particolare.

Le pieghe del lenzuolo mostrano un corpo martoriato da profonda sofferenza, adagiato sul materasso, che, con il suo peso, comprime il freddo giaciglio e il capo leggermente reclinato, poggiato su due cuscini, determina una lieve inclinazione di tutta la struttura. Ai suoi piedi, oltre agli strumenti della passione, la corona di spine e i chiodi, è riposta, in bella mostra, anche una tenaglia chiusa, che, metaforicamente, rappresenta la tenacia.   

Nell’osservare, increduli, il velo di fattura così pregevole da sembrare palpabile, io e Fabio abbagliati dalla luce delle spoglie bellissime ma straziate, restiamo per qualche minuto in apnea e siamo trasportati in una differente visione.

Il sottilissimo tessuto, pur rimarcando il Suo dolore, sembra liberarlo dalla sofferenza di quegli occhi socchiusi, alle cui palpebre tremolano ancora le ultime e più angosciose lacrime.

Il drappo, morbido e perfetto, oltre a far riflettere sulla vita e sulla morte, esprime il senso dell’afflizione e dell’eternità e, invece di coprire la salma in modo inanimato e statico e nascondere la bellezza del volto e la sua tribolazione, addolcisce lo spasmo e crea pieghe morbide capaci di rendere la figura autenticamente realistica.

Le ferite di mani e piedi sembrano ritrovare la pace; l’espressione del viso, tranquilla e distesa, e una vena ancora gonfia sulla fronte, nonostante trasmettano compassione, danno l’impressione che il Corpo di Cristo sia ancora palpitante.

La trasparenza bagnata del velo è talmente verosimile e la bocca e le narici sono così vive da far pensare che, da lì a poco, Egli, con il suo respiro, lo farà scivolar via.

La commozione è fortissima; improvvisamente non percepisco più la presenza di alcuno e, rimasto solo, mi rendo conto che quel corpo, anziché essere freddo, è caldo e che il velo, grazie alla Sua energia vitale, che viaggiando nell’universo, lo increspa ancor di più, conferma che il Figlio di Dio è vivo e sta solo riposando.

La sua arricciatura crea un disegno in cui è conservata la memoria dell’intera umanità intenta a solcare le acque del mare magnum dei sensi, una reminiscenza che nonostante sia spazzata via dal vento e dalle onde, benché disperda, momentaneamente, le sue tracce, non sparisce, anzi, trasmettendo le sue informazioni nel vuoto quantico del cosmo, nei Registri dell’Akasha, riemerge laddove è indelebilmente impressa.

Non mi interessa sapere se il sudario sia parte del blocco di marmo o una sottilissima tela trattata alchemicamente e solo poi marmorizzata, perché il mio principale intento è ammirare il mistero di un corpo immortale, eterno e prossimo alla resurrezione.

Nell’attimo in cui sono al Suo cospetto sono incantato dal velo che, virtualmente, lo separa dal mondo dei sensi, e lo rende quella figura luminosa, autentica, che provoca in me indescrivibili e inenarrabili coinvolgimenti emotivi.

Benedetto, consapevole del mio stato di trance, per destare la mia attenzione, mi poggia una mano sulle spalle e sottolinea:

Il ‘Cristo velato’ è un connubio tra arte e alchimia che, mettendo in risalto il talento dell’artista al servizio della dottrina ermetica del Principe, ci consente di dar luogo ad innumerevoli e profondi spunti di riflessione.

Attraverso la Sindone, che come scritto nel ‘Rosarium Philosophorum’, avvolgendoLo con il suo manto glorioso, conclude la Grande Opera, il Principe vuole portare alla mente dell’osservatore provvisto di occhi attenti che sanno vedere, la “veste di gloria” che avvolge il corpo risorto di chi riesce a trovare, nella pietra filosofale, la perfezione.

Dopo queste splendide parole, il nostro mentore, chiedendoci di sollevare lo sguardo verso la volta della cappella, asserisce:

La ‘Gloria del Paradiso‘, affresco che domina su questo Sepolcro, segna un percorso metafisico in cui i colori dell’oro e del verde evocano la promessa del Tempio – Tenda offerta con bontà divina ad Adam Kadmon agli albori della creazione. I santi e gli angeli sembrano infatti enunciare un itinerario che conduce alla riconquista dello stato di purezza, prima d’incorrere nel peccato.

Sul capo della colomba, che primeggia al centro della scena, staziona un triangolo che, oltre a rappresentare, secondo l’iconografia cristiana, Dio, uno e trino, simbolizza, per i pitagorici, la Tetractis, ossia ogni assieme o somma di quattro cose, tra cui eccelle quello nel quale, aggiungendo all’uno il due, poi il tre, poi il quattro, si ottiene il dieci, il numero perfetto. Il poligono, però, non si ferma a queste due chiavi di lettura, giacché chi è immerso nel cammino evolutivo associa il delta, la lettera maiuscola dell’alfabeto greco, alla nascita cosmica.

Benedetto, indicandoci, dall’alto al basso, alcuni frammenti di lastra inseriti nel pavimento del passetto antistante la tomba del principe Raimondo, aggiunge:

L’ingegnoso labirinto presente nella cavea sottostante e in sagrestia è ciò che resta della decorazione distrutta negli anni ed è realizzato in un’unica linea bianca, continua e priva di congiunzioni, fatta realizzare dal blasonato, in ossequio ad un chiaro ed evidente cliché dei Cavalieri Templari alla ricerca del Graal.

Inoltre, indica sia la dualità e l’unificazione delle forze opposte, sia il cammino della vita composto di bivi e scelte quotidiane, che, in quanto parte di un unico grande disegno dedaleo, devono manifestare la saggezza necessaria affinché, senza restare intrappolati dalla tortuosità, si possa raggiungere, con coscienza e conoscenza, la strada corretta, ossia, la verità in fondo all’uscita.

A questo punto, ci indica la tomba di Raimondo, consistente in due elementi principali, una normale lapide, che per celebrare le sue glorie in ambito militare e scientifico, è provvista di una lunga iscrizione marmorea a rilievo e di un arco decorato con armi, bandiere, libri, pergamene, squadre, un mappamondo, e la collana da Cavaliere dell’Ordine di San Gennaro.

Resosi conto che è giunto il momento di mostrarci qualcosa di affascinante, strabiliante e, al contempo, raccapricciante, ci chiede di seguirlo lungo il piccolo corridoio laterale.

Ci imbattiamo in una scala che conduce nella cripta sottostante, dove sono esposti due scheletri coperti da una fitta rete di vasi sanguigni, posti in bella vista in due teche.

Nel proseguire il suo accurato lavoro di descrizione, chiosa:

Queste sono da tutti chiamate ‘Macchine Anatomiche e da qualcuno ‘Opere Meccaniche’’. Benché la credenza popolare narri dell’uccisione di due servi del Principe, di una successiva imbalsamazione tramite qualche strana tecnica in grado di evidenziare arterie e vene, non esiste nulla che lo possa certificare.

Il sistema circolatorio non è frutto di magia o di esperimenti di Raimondo, ma il risultato di una ricostruzione artificiale, effettuata con diversi materiali, dal medico palermitano Giuseppe Salerno.

Come potete constatare voi stessi, la loro realizzazione manifesta conoscenze anatomiche avanzatissime per il periodo storico e, non a caso, alcuni dotti pensano che uno dei motivi che induca il Principe a pregiarsi del loro possesso, sia riscontrabile nel desiderio di offrire alla scienza dell’epoca un valido strumento conoscitivo della morfologia del corpo umano.

Dato che, inizialmente, sono custodite assieme ad un feto, successivamente trafugato, nella camera del Palazzo denominata Fenice, come l’animale che risorge dalle sue ceneri, le stesse riconducono al mito filosofico della rigenerazione, secondo cui i tre elementi, maschio, femmina e feto, giunti allo stato di putrefazione, ormai pronti per risorgere, possano beneficiare dell’immortalità della vita.  

Secondo gli intendimenti e il progetto di Raimondo, questa cavea sotterranea, oltre a simulare una sorta di grotta, nata per allestire le tombe dei suoi discendenti, rappresenta, in modo allegorico, un luogo di riflessione ispirato alla tradizione ermetica del mito della caverna, nonché il posto in cui prevede di morire e risorgere a nuova vita.

Nel manifestare emozione e disappunto, Croce ci chiede di lasciare la Dimora Filosofale perché impegni precedentemente concordati richiedono la sua presenza e, ringraziatolo per i suoi insegnamenti, chiedendogli di rivederci, lo salutiamo.

Nel dormiveglia, prima di riprendere contatto con il mondo dei sensi, come preludio del risveglio mattutino, penso che il Museo Sansevero sia uno scrigno esoterico di straordinarie meraviglie e che oltrepassando la soglia della Cappella si tocchi con mano la conoscenza superiore a cui l’uomo può tendere, che incarna il concetto della pietra filosofale che, oltre a trasmutare il piombo in oro, ha il potere di trasformare l’individuo, mediante la conoscenza stessa.

La chiave di lettura del messaggio simbolico di questo Tempio Sepolcrale, di carattere alchemico – cabalistico, è in sintonia con le opere d’ispirazione rosacrociana. La dimora, così densa di esoterismo e spiritualità, mi rammenta il concetto di mnemotecnica tanto caro a Giordano Bruno.

La chiesa, infatti, sembra essere una specie di antro del ricordo imperniato sull’uso di luoghi ed immagini della mente che consentono la ricostruzione della storia personale e familiare del Principe e delle sue teorie etiche e filosofiche.

Nell’accedervi, infatti, si comprende che i riferimenti portati alla luce dalle sculture simboliche, fanno parte di un percorso spirituale legato alle diverse fasi dell’esperienza iniziatica e dell’Opera e si ha come l’impressione di penetrare nel profondo di se stessi, identificarsi in Raimondo, ritrovarsi all’interno dell’uovo filosofico, entrare nella caverna in cui ha luogo la rinascita, giungere a contatto con l’anima invisibile e, infine, risvegliare la coscienza superiore.

Quando sentì non lontana la morte, provvide a risorgere, e da uno schiavo moro si lasciò tagliare a pezzi e ben adattare in una cassa, donde sarebbe balzato fuori vivo e sano a tempo prefisso; senonché la famiglia che egli aveva procurato di tenere all’oscuro di tutto, cercò la cassa, la scoperchiò prima del tempo, mentre i pezzi del corpo erano ancora in processo di saldatura, e il principe, come risvegliato nel sonno, fece per sollevarsi, ma ricadde subito, gettando un urlo di dannato.
Benedetto Croce

Giandomenico Tiepolo, La partenza di Pulcinella, 1797, affresco. Ca' Rezzonico, Venezia

Autore Domenico Esposito

Domenico Esposito, nato ad Acerra (NA) il 13/10/1958, laureato in Scienze Organizzative e Gestionali, Master in Ingegneria della Sicurezza Prevenzione e Protezione dai Rischi, Master in Scienze Ambientali, Corso di Specializzazione in Prevenzione Incendi. Pensionato Aeronautica Militare Italiana.