Home Rubriche Tra cielo e terra La Merkavah e il numero 9

La Merkavah e il numero 9

1767
9


Download PDF

Proseguo con questo articolo il percorso iniziato con l’esposizione del Misticismo Merkavah. Per comodità espositiva, richiamerò i punti chiave che, a mio giudizio, rappresentano i presupposti per introdurre l’attuale indagine.
Il primo è il riferimento allo tzim-tzum, ovvero la ritrazione che genera l’emanazione. Il Divino si autolimita “contraendosi” e da questa ritrazione, che rappresenta l’elemento Negativo, genera il Creato, che rappresenta l’elemento positivo, a sua volta rappresentato in origine dal Vuoto, ovvero la coesistenza di elementi negativi e positivi in seno alla primordiale Luce.

In principio Dio creò il cielo e la terra. Ora la terra era informe e deserta e le Tenebre ricoprivano l’Abisso e lo Spirito di Dio aleggiava sulle acque.

Ma anche:

All’inizio l’Iddio Vivente si ritrasse in sé, lasciando un vacuo che fecondò con una goccia della propria Gloria…

Il secondo punto è la concezione monista della Creazione; termine profano per indicare che non esiste nulla di preesistente o di esterno al Creatore. Male e Bene, Tenebre e Luce, Vuoto e Vita, appartengono al mondo dell’Emanazione interno al Divino.

Infine, la progressività dell’azione ovvero il processo di presa di coscienza del Tutto da parte dell’Iniziato che, necessariamente, è incompiuto e che può avvenire attraverso varie dottrine mistiche, una tra le quali quella del Carro di Dio.

Orbene, prima di affrontare le successive fasi, è necessario ribadire che al centro di tutto vi è l’Uomo che deve raggiungere la perfezione del proprio status.

Egli deve espandere le proprie sensazioni, deve imparare ad entrare in contatto con il Tutto, deve armonizzarsi con la frequenza vitale del Creato. Come? Un ‘modo’ può essere il ricorso ad una delle molteplici tecniche mistiche.

Il senso di ‘derivazione e destinazione’ con il Creatore è il prodromo all’attività vera e propria che, attraverso la Dottrina, l’Iniziato dovrà intraprendere affinché ci si possa avvicinare alla Verità ovvero allo Scopo del Capo degli Operai del Tempio.

E chi se non gli iniziati, che hanno intenti puri, perseveranza ed intuizione della Bellezza, possono aspirare a tanto?

Ecco che si ritorna alla centralità dell’uomo:

L’Iddio Altissimo emanò allora l’Adam, alla cui potenza spettava di restaurare l’armonia del Cosmo… a seguito della Caduta.

Il numero dell’Adam è il 9 che moltiplicato per qualsiasi numero genera sempre se stesso.

Ad esempio: 9×16=144, 1+4+4=9, o ancora 9×365=3285, 3+2+8+5=18, 1+8=9, e così all’infinito.

Cosa significa?
Per la Cabala ebraica Adam Kadmon è l’archetipo divino di uomo e donna. È il corrispondente nella cabala cristiana dell’Adamo Celeste.
Egli è, secondo alcune scuole, la forma nascosta di Dio e, in quanto tale, si trovano tracce di sé in tutti gli esseri viventi.

È colui che presiede il Carro Divino di Ezechiele (Ez. 1:26). La sua controparte terrena è l’Adamo del Giardino dell’Eden, ovvero l’Adamo terrestre. In questa veste Adamo ha consistenza materiale ed è quindi destinato a riprodurre in perpetuo sempre i propri limiti (è il concetto del 9). La Caduta, dunque, ha generato il finito/infinito Ciclo.

Come ‘superare’ la morte in mille nascite dell’Adam Kadmon?
Come avvicinarci a quello che prima abbiamo definito lo “scopo” del Sigillo dei Profeti?

La risposta potrebbe trovarsi nella natura dell’Uomo Primordiale stesso. Senza voler entrare nelle pieghe complesse dell’Albero della Vita, dobbiamo capire che il Creato è formato dalle Sue tracce. In ogni manifestazione naturale, cioè, possiamo “vedere” le schegge di Luce in cui l’Adam Kadmon si frantumò.

L’Armonia, intesa come fine e come “azione” diventa centrale. L’individuo, ovvero l’Uomo, deve porsi in equilibrio con la realtà sensibile che lo circonda perché quest’ultima è permeata delle tracce del Sé primevo.

Imparare ad interpretare e ad accogliere l’essenza di un albero sradicato da una tempesta; la perfezione del replicarsi dei petali di una rosa; il ciclo di nascita, vita e morte degli uomini e così via. Ma per ricongiungersi è necessario capire il perché delle Cadute.

In un film si diceva che il peccato preferito del Diavolo fosse la vanità. Credo sia vero: l’Ordine primordiale Celeste subì la prima Caduta quando l’Angelo volle penetrare il mondo dell’Emanazione senza esserne pronto. Volle cioè ascendere al Divino senza aver compreso il senso intimo del “Mondo” in cui si trovava, non ne aveva la Chiave! Uno dei risultati nefasti fu la generazione della Morte.

Ma se non ci fosse stata la Morte, come avremmo noi avuto la Vita?

Non ho la pretesa di conoscere il senso della Vita e non voglio incorrere nel sopra citato “peccato”, quindi mi limito a poche riflessioni: al riguardo, si potrebbe dire che la “misura” della Vita è la morte stessa.

Se non avessimo il senso del finito, come potremmo apprezzare il tempo che passiamo in vita?

In altri termini, se l’uomo fosse immortale, 1, 10, 100, 1000 anni non avrebbero alcun significato perché i giorni si ripeterebbero all’infinito senza la pulsione di indagare oltre il Mondo.

Non avendo, cioè, il senso della finitezza, non ci porremmo il problema del “dopo”; allo stesso modo, come potremmo dare importanza al singolo giorno, alla singola sensazione, alla singola emozione?

L’irrequietezza che ci contraddistingue, la continua ricerca, le domande, il tumulto interiore nel non ricevere risposte alle grandi questioni, cos’è se non la conseguenza del sapere che si è temporanei?

La maggior parte della gente non muore che all’ultimo momento; altri cominciano e si prendono vent’anni d’anticipo e qualche volta anche di più. Sono gli infelici della terra.
Louis-Ferdinand Céline

In questa ottica, dunque, il risultato della Caduta sarebbe un dono e non un fardello. Il punto è che per rendere la Morte un dono è necessario essere consapevoli che il nostro tempo è determinato.

Da un evento nefasto, quindi, ecco scaturire un grande attributo. E se fosse voluto? Se, cioè, la Morte facesse parte del Piano? Le Cadute, quindi, sarebbero null’altro che il risultato previsto e voluto dal Creatore e in quanto tale gli uomini dovrebbero coglierne il senso più profondo.

Altro tema, invece, è la relazione tra il “lavoro costruttivo” e la Morte. Uno dei capisaldi è proprio l’attività di creare, fare, intesa in senso materiale e spirituale. Io credo che il concetto di immortalità permei questi principi.

La “pietra” ci sopravvive; è come se ci fosse un atteggiamento di anticipazione e superamento della Morte. Cosa sopravvive all’individuo se non l'”opera” ovvero il “ricordo”? In questa ottica, credo sia imperativo tornare a “costruire”, ben consapevoli dell’Origine e dello Scopo.

Autore Antonio Petito

Antonio Petito, nato a Napoli nel 1980, laureato in giurisprudenza all'Università degli studi di Napoli 'Federico II' e dal 2009 avvocato specialista in diritto commerciale.