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L’infinità del tempo

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Il tempo è la sostanza di cui sono fatto. Il tempo è un fiume che mi trascina, e io sono il fiume; è una tigre che mi sbrana, ma io sono la tigre; è un fuoco che mi divora, ma io sono il fuoco. Il mondo, disgraziatamente, è reale; io, disgraziatamente, sono Borges.
Jorge Luis Borges

L’universo borgesiano si è sempre misurato in una tensione incessante con l’indeterminatezza dell’eterno, perpetuamente in bilico tra il mitico e l’inesistente: la storicità impossibile e fantastica che attraversa i racconti di Borges, esegeta del tempo, lo hanno reso uno degli autori più stimati e stimolanti della sua generazione.

La realtà temporale diviene, così, frammentaria e fantastica, semplicemente derivata da una tendenza estrinsecante e assolutizzante dell’uomo determinista. E il tempo diviene personale, segreto; è qualcosa che oltrepassa ciascuno di noi e che, alla fine, siamo noi stessi. Siamo la pietra che si consolida dopo il magma incandescente.

Dobbiamo imparare a rendere la vita immortale, un’ipotesi di rintracciabilità nella storia e nel suo polverizzare l’evento. È una impostazione metafisica, che prende a modello di riferimento una concezione del tempo più conoscitiva che basata su fatti empirici, ma, proprio per questo, suggerisce suggestioni e sentieri inimitabili.

Una irrealtà poco possibile, dove il dado è gettato e cade nel fango, difficile e disperata diviene la sua ricerca. L’eterno introduce il dubbio che il relativo temporale fosse solo un inganno o un sogno. Come se il tempo fosse misura del movimento e consapevolezza del pulsare della vita e con i suoi ritmi variabili.

Se, per Platone, il tempo era l’immagine mobile dell’eternità, cioè la trasposizione sul piano sensibile dell’atemporalità ideale, per Aristotele era un aspetto della realtà naturale intimamente connesso alla realtà fisica dello spazio.

È il tempo che fugge, questa beffarda ironia del destino. È il tempo che ci ingoia e ci vomita il suo rancore per aver usurpato della sua pazienza infinita. È suo il mestiere più antico del mondo: essere l’orologiaio della vita di tutti. Lo vedi il diavolo che ride, digrigna i denti e teme la nuova apocalisse. Se venisse adesso, anche il suo tempo sarebbe finito.

Lui c’è finché tutto va bene, anche finché si arranca, ma se la tempesta è perfetta perfino per lui si spegneranno le luci della ribalta. Il tempo, questo tempo così vicino alla fine di ogni cosa. Un ultimo bacio, un ultimo silenzio, e ancora un ultimo sguardo e dammi l’ultima parola. Quella che consola e non ferisce. Il tempo che ammalia, che rapisce, che gronda storia e memoria.

Se se ne potesse avere uno per ogni stagione della vita, un tempo sempre nuovo, un lento ma inesorabile rinnovare di ogni cosa. Se si potesse convincerlo che non basta mai, che serve come l’ossigeno, che quando lo disperdiamo ne pretendiamo altro perché il girotondo non abbia mai fine.

È negli occhi dei bambini: stupito, nuovo, incredulo. Ride nei loro occhi come il peggiore dei clown, piange nei loro occhi come il migliore dei clown. È negli occhi degli anziani: stanco, commosso, paziente, immemorabile. Come chi sa che alla fine quello che resta è sempre poco. Una mancia lasciata da un dio elemosiniere.

Ci guardiamo distratti, logori ed evanescenti. Ascoltiamo per abitudine ed aspettiamo una pioggia che sappia spazzare via ogni paura e che affoghi la malinconia. Dopo vorremmo camminare per le strade con i piedi bagnati, sentirci vivi, una cosa con la terra, scansando inconsciamente il ciarpume e i divieti. Fugge questo tempo, ha l’ansia di finire il lavoro pur sapendo che domani dovrà ricominciare daccapo.

La sua percezione è nella nostra mente. Avida cerca alibi e compromessi per non arrendersi al suo scorrere inflessibile. In essa noi cerchiamo l’assoluto, che può essere solo divino: l’eternità non è affare per l’uomo sociale intriso di temporalità.

Abbiamo bisogno di illuderci di essere dei in cerca del proprio Olimpo. Lo spazio di cielo dove sedersi e raccontare, lo spazio di tempo dove sedersi e guardare. È l’impalcatura di tutte le nostre esperienze e di tutti i nostri comportamenti, instabile e soggettiva, che si espande e si contrae come una fisarmonica. Può accelerare o rallentare il tempo per noi.

Oggi ne esistono articolate rappresentazioni: per esempio i fisici sono addirittura arrivati a sostenere l’idea della sua inesistenza. E se non esistesse sarebbe un’ulteriore beffa. Ci siamo allineati, anticipati, confusi, ammessi, costruiti su di esso e sulle sue legislazioni. Se ci accorgessimo di aver sbagliato a crederci avremmo gettato via la storia della nostra umanità.

A tal proposito si narra che Plauto invocasse la maledizione degli dei contro colui che installò per primo la meridiana in città per indicare l’ora togliendo così la spensieratezza ai Romani.

È il tempo la nostra ossessione: inafferrabile, rivelatore, impietoso per chi fa i conti con la propria caduca, mortale esistenza. Riflette e si piega negli specchi e negli angoli rovistati dal destino. Lo senti, quando ti sfiora e ti dona una ruga. La sua carezza non ha mai la mano aperta, solo poche dita ad accompagnare quello strofinio che scivola su una guancia impaurita.

Lo vedi il tempo, quando gli occhi si fanno stanchi ed annebbiati. Cerchi una stampella per arrivare fino in fondo al buio che ti avvolge e ti ingoia. Non è un piccolo dettaglio, ma un affresco che si va gradualmente a sbriciolare per l’incuria e la manodopera non all’altezza. Ci vuole ingenuità a sfidarlo, un coraggio che si sfila al primo malanno. Ci vuole ingegno a capirlo, giocare ai dadi la propria eternità fino a che non cali il sipario e comprendere, solo alla fine, di essere stato un inadeguato spettatore sempre immobile alla stessa fermata di autobus in attesa che passasse il numero giusto. Un viaggiatore senza biglietto di ritorno che guarda quello sfilare estenuante di passeggeri accalcarsi sotto la pensilina mentre la burrasca non arriva veramente mai.

Ah, il tempo antidoto all’idiozia, al vomitevole, all’inglorioso sentimento del bello e del giusto. È più forte della bellezza e della giustizia, avete voglia voi a dilaniarvi di fronte a questa verità. Li surclassa e li plagia, li contagia e li annichilisce. Il tempo meraviglioso golpe alle nostre certezze. Nessuno è certo nella sua infinita infinità.

E noi continuiamo a nasconderci come ombre che calpestano mura nel buio. In questo vagare infinito esso ha lasciato un segno indelebile affinché ognuno si scoprisse, ognuno comprendesse dove fosse giunto. Il segno riconoscibile per sapere di esserci stati e crederci immortale in quella briciola di tempo che ci hanno dato a disposizione. Ora che esso non separa ma ci avvolge, coda di un serpente del quale non riusciamo a vedere nemmeno la testa, abbiamo l’illusione che sia il terzo incomodo.

Seduto sulla nostra poltrona, dormiente nel nostro letto, avvinghiato alle nostre spalle, recidivo nei nostri silenzi, ghignante mentre guardiamo dalla finestra il fuori fermo e inconsolabile. Oh tempo, se solo avessi capito prima che esisti anche prima di Dio, non mi sarei mai saziato di avere una vita senza almeno una volta, una sola volta, cercato di arrampicarmi fino al cielo.

E così tempo, ora che vai via, passo felpato per non fare rumore e per rendermi facile l’inganno e per non regalarmi la possibilità remota di una redenzione che, seppur inutile, avrebbe reso l’anima più conciliante con la clessidra e il giudizio.

È vero il tempo è reale e nel suo inarrestabile furore io, oggi più che mai, mi accorgo di essere un secondo, un milionesimo di secondo della sua eterna infinità.

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Autore Massimo Frenda

Massimo Frenda, nato a Napoli il 2 settembre 1974. Giornalista pubblicista. Opera come manager in una azienda delle TLC da oltre vent'anni, ama scrivere e leggere. Sposato, ha due bambine.